domenica 28 giugno 2020

Predicazione di domenica Biella 28 giugno 2020 su Michea 7,18-20 a cura di Marco Gisola

Michea 7,18-20


Quale Dio è come te, che perdoni l’iniquità e passi sopra alla colpa del resto della tua eredità? Egli non serba la sua ira per sempre, perché si compiace di usare misericordia. Egli tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà a Giacobbe, la tua misericordia ad Abraamo, come giurasti ai nostri padri, fin dai giorni antichi.


In questo brano del profeta Michea c’è tutto Dio e c’è tutto l’essere umano. C’è tutto l’essere umano perché c’è tutta la colpa umana e c’è tutto Dio perché c’è tutta la grazia divina. È la conclusione del libro del profeta Michea, profeta che ha annunciato il giudizio e la grazia, che ha accusato e rimproverato e ha annunciato il perdono di Dio.

Nelle ultime parole del suo libro Michea porta il nostro sguardo a Dio e contemporaneamente porta il nostro sguardo al futuro; se ci fate attenzione, tutti i verbi degli ultimi due versetti sono al futuro: «tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà […]. Sono dunque cose che Dio farà e dunque sono promesse di Dio.

Guardare a Dio significa guardare al futuro. Quello del profeta Michea è uno sguardo rivolto verso l’alto e quindi rivolto verso il futuro ed è un invito rivolto al popolo d’Israele – e oggi rivolto a noi – a guardare a Dio e al futuro.

Michea, però, non sta dicendo che va tutto bene. Anzi: Michea chiama le cose con il loro nome: l’essere umano è descritto dalle parole «iniquità», «colpa», «colpe», «peccati». Tutte cose vere, reali, dolorose, che Michea ha raccontato e contro cui ha annunciato il giudizio di Dio nei capitoli precedenti.

Ma l’iniquità è perdonata, alla colpa Dio ci passa sopra, le nostre colpe le metterà sotto i suoi piedi e i nostri peccati li getterà in fondo al mare! Questo modo di essere e di agire di Dio è riassunto nelle parole «misericordia», «pietà», «fedeltà», e di nuovo «misericordia».

Ma, di nuovo, non si tratta, banalmente, di un happy end, un lieto fine; il perdono di Dio non è un diritto (nostro) o un dovere (di Dio), ma è un dono, una decisione di grazia. Una decisione sofferta, nel senso che Dio, prima di fare tutto ciò, soffre ed è arrabbiato.

Il testo dice che Dio «non serba la sua ira per sempre»; Dio non serba la sua ira, ma la sua ira c’è, Dio è adirato, arrabbiato. Arrabbiato perché vede le colpe del suo popolo, vede i poveri sfruttati e la sua legge ignorata, vede l’infedeltà del popolo – o di gran parte di esso - che se ne infischia di ciò che Egli gli ha chiesto. Per questo è adirato, arrabbiato, per questo Dio soffre.

Se noi saltassimo questo passaggio, se noi ignorassimo questa ira di Dio per passare immediatamente al suo perdono e alla sua misericordia, non renderemmo giustizia a Dio, non ne parleremmo come ne parla la Bibbia, come qui ne parla Michea, e come ne parla anche Gesù.

Solo prendendo sul serio la colpa, anche il perdono è una cosa seria. Ed è un cosa talmente seria che per donarci la sua grazia, Dio ha mandato suo figlio che l’umanità (colpevole) ha inchiodato sulla croce e Dio ha risuscitato per dire che la sua ultima parola è parola di vita e di grazia. Come nel libro del profeta Michea.

L’ultima parola del libro di Michea è dunque una parola di grazia. Potremmo dire: lultima parola di Dio è una parola di grazia, è il Dio adirato che lascia la sua ira e sceglie l’amore. L’ultima parola di Dio è la grazia, ma questa si comprende soltanto se teniamo ben presente anche la penultima parola di Dio che è appunto la sua ira.

L’ultima parola è la grazia, è l’amore, ma la penultima è l’ira. Se dimentichiamo una delle due non capiamo Dio e non capiamo nemmeno noi stessi.

Un professore della facoltà di teologia ci diceva che quando si parla di Dio non basta dire una cosa sola, ma bisogna sempre dirne due. E in questo testo di Michea ci sono appunto due parole che parlano di Dio, anzi due parole di Dio: il giudizio e la grazia. Solo se li teniamo insieme capiamo Dio e capiamo noi stessi.

Solo se siamo convinti che il giudizio di Dio su di noi è meritato capiamo fino in fondo la portata della sua grazia. E solo se crediamo fermamente nella grazia di Dio possiamo accettare e sopportare il suo giudizio.

Se consideriamo solo il Dio che giudica allora torniamo alla situazione in cui si trovava Lutero prima della sua grande scoperta della grazia. Torniamo al Dio che incute timore, da cui si è tentati di fuggire, un Dio che non ci ama, ma ci giudica e ci punisce.

Se al contrario consideriamo solo il Dio della grazia cadiamo nel grave errore che Bonhoeffer chiamava la “grazia a buon mercato”, grazia che non mette in crisi, che non chiama al discepolato, che in fondo è grazia senza Cristo. Se consideriamo solo il Dio della grazia finiamo per pensare come quel poeta che ha detto che Dio perdona perché questo è il suo mestiere.

Invece no: il Dio di Michea, il Dio di Gesù è un Dio che non perdona per mestiere, è un Dio che ci giudica e ci ama, che giudicandoci è addolorato e adirato, ma non lascia che questo dolore e questa ira prevalgano sull’amore. La sua ultima parola è la grazia, ma l’ultima parola viene solo dopo la penultima, dopo il suo giudizio e la sua ira.

E allora dove stiamo noi? Potremmo chiederci: ma per noi vale l’ultima o la penultima parola di Dio? Ma c’è un errore in questa domanda e l’errore è in quell’ “o”, l’errore è nel pensare di dover scegliere tra l’ultima e la penultima, tra il Dio del giudizio e il Dio della grazia, l’errore è nel pensare di ridurre Dio o a solo giudizio o a solo grazia.

La ragione per cui la fede non può essere considerata una cosa scontata o un’abitudine, non può essere ridotta a ritualità, ma è fiducia ed è vita e vuole coinvolgere tutto me stesso sta nel fatto che dobbiamo fare nostre tutte e due queste parole: la penultima e l’ultima, il giudizio e la grazia.

Siamo chiamati a prendere sul serio il suo giudizio e accogliere con gioia la sua grazia, sapendo che questa è l’ultima parola, che è l’ultima parola che Dio pronuncia anche quando noi non abbiamo più nulla da dire.

Anzi proprio quando noi non abbiamo più nulla da dire - perché vediamo che il suo giudizio è vero, perché vediamo che la sua giustizia e la sua volontà da noi non sono fatte, perché vediamo che l’amore che ci chiede non riusciamo a viverlo – proprio allora, quando noi non abbiamo più nulla da dire, parla lui e ci dice le parole che ci arrivano oggi dal profeta Michea:

le nostre colpe, tutte vere, Dio le mette sotto i piedi, i nostri peccati, verissimi, che fanno male, Dio li getta in fondo al mare, perché si compiace della sua misericordia, ovvero perché lo vuole, perché vuole così, perché sceglie la misericordia e non l’ira, perché non lascia che il giudizio sia l’ultima parola ma solo la penultima, mentre l’ultima è la grazia.

Quindi si spiega la domanda retorica iniziale: «Quale Dio è come te?» quale Dio può trasformare la sua ira in misericordia? O meglio quale Dio lascia che il suo amore prevalga sulla giusta ira davanti all’infedeltà del suo popolo e dei suoi fedeli? La domanda è retorica nel senso che la risposta è scontata: non c’è nessun Dio come te!

Ma la domanda non vuole fare un paragone o aprire una competizione tra il Dio di Israele e altri dei, ma è piuttosto un esclamazione per dire che il Dio di Israele (e padre di Gesù) è unico e non ce ne sono altri come lui, per cui la misericordia prevalga sull’ira, l’amore sulla rabbia.

Un’esclamazione di stupore e di gioia, perché il Dio di Michea e di Gesù Cristo è così, è un Dio la cui ultima parola è la grazia.

Lo Spirito ci aiuti a non ignorare il giudizio di Dio, ma a prenderlo sul serio, e a non dare per scontata la sua grazia, ma a continuare a stupirci e a gioire per la sua immensa misericordia, che Egli ha voluto donare anche a noi, perché vivessimo guardando a lui e guardando con fiducia al nostro futuro con lui.

lunedì 15 giugno 2020

Predicazione di domenica 14 giugno 2020 su Atti 4,32-37 a cura di Marco Gisola

Atti 4,32-37

32 La moltitudine di quelli che avevano creduto era d’un sol cuore e di un’anima sola; non vi era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva ma tutto era in comune tra di loro. 33 Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù; e grande grazia era sopra tutti loro. 34 Infatti non c’era nessun bisognoso tra di loro; perché tutti quelli che possedevano poderi o case li vendevano, portavano l’importo delle cose vendute, 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi, veniva distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
36 Or Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba (che tradotto vuol dire: Figlio di consolazione), Levita, cipriota di nascita, 37 avendo un campo, lo vendette, e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli.



1. Il brano di oggi ci dice che coloro che vanno a formare la chiesa che nasce dalla predicazione di Pentecoste mettono in comune le loro sostanze e i loro beni. Vendono case e poderi e ciò che ricavano lo mettono in una cassa comune gestita dagli apostoli. Potremmo dire che l’evangelo che gli apostoli predicano a Pentecoste e nei giorni successivi entra nelle tasche dei credenti. Eh sì, l’evangelo non entra soltanto nei nostri cuori per portarci alla fede, ma entra anche nelle nostre tasche. Anzi, potremmo dire che entra nei nostri cuori e nelle nostre menti per convertire il nostro pensiero e le nostre decisioni, anche quelle che riguardano i beni che noi abbiamo.

Questi versetti ci parlano di un modello di chiesa che forse si è realizzato nella primissima comunità che nasce dopo Pentecoste, che poi è stato più volte tentato ed è tentato ancora oggi - per esempio nei monasteri o in altre esperienze comunitarie – ma che non è stato realizzato dalla stragrande maggioranza dei cristiani. Potremmo dire che il 99,99 % dei cristiani (me compreso) non ha nemmeno tentato di metterlo in pratica. È vero che la comunione dei beni, come ci dice il racconto successivo, non era obbligatoria ma era una libera scelta, ma è altrettanto vero che secondo gli Atti degli Apostoli questa scelta all’inizio della storia della chiesa l’hanno fatta in molti ed era considerata parte integrante dell’adesione alla fede in Gesù Cristo.

In ogni caso, non siamo autorizzati a liquidare questo racconto come utopia irrealizzabile, ma se vogliamo prenderlo sul serio, dobbiamo prenderlo come un modello che rimane lì davanti a noi, come una vera proposta concreta e una sfida per la nostra esistenza cristiana. Questo testo ci dice chiaramente che l’evangelo della resurrezione modifica i rapporti materiali dei fratelli e delle sorelle, che li tocca nelle loro sostanze, nei loro beni. Essere di un cuor solo e di un’anima sola non è solo una questione spirituale. O meglio: questo testo ci dice ancora una volta che per la fede biblica (ebraico-cristiana) il materiale è spirituale e lo spirituale comprende il materiale.

Gli Apostoli amministrano la cassa comune. Gli apostoli, che hanno l’esperienza unica e straordinaria di aver incontrato Gesù risorto e hanno quindi come compito principale quello di annunciare la resurrezione, sono anche coloro che gestiscono la cassa comune della comunità. Forse questa concentrazione di compiti - e quindi di potere - ci spaventa un po’ (per questo noi cerchiamo di evitarla), ma il messaggio è che l’annuncio dall’evangelo e la gestione dei rapporti materiali e economici all’interno della comunità fanno parte dello stesso ministero della chiesa.

La cassa della chiesa e come essa viene gestita e usata è una forma di testimonianza. Ma la cassa della chiesa è formata da quelle che noi valdesi chiamiamo “contribuzioni” e “offerte”. Dunque la nostra partecipazione economica alla cassa della chiesa è anch’essa una forma di testimonianza di ciascuno e ciascuna di noi. Nella chiesa non ha luogo soltanto una condivisione della fede e della speranza, delle gioie e dei dolori, ma anche una condivisione dei beni materiali; su questo gli Atti degli apostoli sono chiari e questa rimane una sfida messa davanti a ciascuno/a di noi.


2. Dove si vede, riguardo ai beni che uno possiede, la conversione che l’evangelo della resurrezione opera nei credenti? Il nostro testo lo dice chiaramente: «non vi era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva ma tutto era in comune tra di loro». Nessuno considera “suo” ciò che possiede. Questa è la conversione, questo è ciò che accade nel cuore, nella mente e nelle tasche dei credenti.

La conseguenza è che mettono tutto in comune, ma la causa di questa loro decisione così drastica e radicale è questo cambiamento di mentalità (questo significa la parola “conversione”) riguardo ai beni posseduti. Diventando cristiano non considero più “mio” ciò che ho: ciò che è mio non è più mio, diventa nostro. Se ci pensiamo bene è un messaggio veramente rivoluzionario, perché sono proprio la mente e il cuore a essere trasformati. Prima dell’azione di mettere in comune i propri beni, è l’atteggiamento verso la proprietà che cambia. Nessuno considera più suo ciò che ha.

La comunione dei beni è la conseguenza pratica del cambiamento che avviene dentro di loro. Non è un obbligo, non sembra essere una condizione indispensabile per essere accettati nella comunità cristiana, è una scelta. Il racconto che segue, per certi versi terribile, di Anania e Saffira, ci dice che non erano obbligati a vendere i loro beni.

Anania e Saffira vendono una proprietà ma danno agli apostoli solo una parte del ricavato e quindi mentono alla comunità e anche a Dio stesso, per questo pagheranno con la vita, cosa che a noi pare esagerata… È qui che Pietro dice loro che potevano anche non vendere il loro campo oppure tenersi tutto il ricavato, e ciò dimostra che non erano obbligati a farlo. Il loro errore è pensare di poter ingannare Dio e in fondo anche la comunità.

Dunque gli Atti degli Apostoli ci raccontano una comunità che non è perfetta, come dimostra questo tragico episodio, ma che vive comunque una conversione che tocca nel profondo l’esistenza dei credenti, e tocca nel profondo le loro tasche, i loro beni e il modo in cui considerano ciò che hanno. Poteremmo dire, con un gioco di parole, che i loro beni non sono più considerati un bene soltanto per loro ma diventano un bene per la comunità intera. I “beni” intesi come proprietà, diventano “bene” comune per fare del “bene” alla comunità.


3. Infatti – e qui veniamo al terzo pensiero – la comunione dei beni – o forse sarebbe più corretto dire la condivisione dei beni - non è un bel gesto per mettersi in mostra o per distinguersi dagli altri. La condivisione dei beni ha un obiettivo molto concreto: l’obiettivo è che nessuno sia nel bisogno: «Infatti non c’era nessun bisognoso tra di loro». Questo è l’obiettivo: che non ci sia nessun bisognoso, cioè che nessuno manchi del necessario, che nessuno soffra perché manca di ciò che gli serve per vivere.

Il ricavato delle vendite delle proprietà, infatti, viene portato agli apostoli e «poi, veniva distribuito a ciascuno, secondo il bisogno». Potremmo dire che se nessuno considera sua proprietà ciò che possiede, se ciò che è mio non è più solo mio, ma è nostro, allora la conseguenza è che il tuo bisogno diventa mio e il mio bisogno diventa tuo. La condivisione dei beni ha come scopo la condivisione dei bisogni.

La condivisione dei beni è un mezzo per raggiungere questo fine, un mezzo nobilissimo, forse il mezzo cristiano per eccellenza, che deve rimanere un obiettivo. Ma non è il fine, è il mezzo per raggiungere lo scopo, ovvero la condivisione dei bisogni e il fatto che non ci sia più nessun bisognoso. Se prendiamo la condivisione dei beni come il fine ricadiamo in una teologia delle opere che dividerebbe i più buoni dai meno buoni, o i più coraggiosi dai meno coraggiosi.

Non dobbiamo però nemmeno rinunciare al fine solo perché non riusciamo a mettere in atto il mezzo. Il nostro obiettivo come cristiani è che nella comunità non vi sia alcun bisognoso e la via per eccellenza che ci è indicata è quella della condivisione dei beni.

Ma poiché la parola di Dio ci interpella non solo come cristiani membri di una chiesa ma anche come cristiani membri di una società, questo obiettivo che non vi sia alcun bisognoso diventa un obiettivo sociale. L’evangelo della resurrezione fa rinascere a nuova vita spiritualmente e materialmente, perché la vita è una e la persona è una e nella nostra esistenza il materiale e lo spirituale si intrecciano profondamente.

Perché - come dicevamo all’inizio – l’evangelo entra nelle nostre tasche. E vorrei concludere sottolineando che è proprio l’evangelo che provoca questa conversione e questa rivoluzione nelle teste e nelle tasche dei primi cristiani. È l’evangelo della resurrezione: «Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù; e grande grazia era sopra tutti loro». Questa è la ragione per cui i cristiani non considerano più loro proprietà ciò che hanno, questa è la ragione per cui si lanciano in questa avventura della condivisione dei beni, perché non vi sia alcun bisognoso tra loro: perché Cristo è risorto.

La ragione, ciò che rende possibile e da senso a questo tentativo – che, ripeto, rimane un modello e un esempio per qualunque comunità cristiana di ogni tempo – è l’evangelo della resurrezione. Cristo è risorto, lo Spirito della Pentecoste spinge gli apostoli ad annunciarlo al mondo e questo è quello che accade quando l’evangelo della resurrezione è annunciato e entra nei cuori, nelle menti e nelle tasche delle persone. Voglia lo Spirito che l’evangelo della resurrezione converta e trasformi anche noi, dalla testa ai piedi, passando per le tasche.

sabato 6 giugno 2020

Predicazione di domenica 7 giugno 2020 su Numeri 6,22-27 a cura di Marco Gisola

Numeri 6,22-27
22 Il SIGNORE disse ancora a Mosè: 23 «Parla ad Aaronne e ai suoi figli e di’ loro: “Voi benedirete così i figli d’Israele; direte loro:
24 ‘Il SIGNORE ti benedica e ti protegga! 25 Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! 26 Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!’”.
27 Così metteranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò».


L’ultima parola che pronunciamo nel nostro culto è una parola di benedizione, e questa parola di benedizione è parola di Dio; dunque l’ultima parola che Dio ci dice nel culto è una parola di benedizione.
Che cos’è la benedizione? (Su questo tema si può leggere il bel libro del teologo Claus Westermann, La benedizione nella Bibbia e nell’azione della chiesa, Queriniana 1997).
La benedizione è diversa dalla salvezza, sono due modi diversi di agire di Dio: la salvezza è un intervento di Dio nella storia come può esserlo stato la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù di Egitto. Per noi cristiani evento di salvezza è stato la venuta nel mondo di Gesù (l’incarnazione), lo sono i suoi miracoli e le sue guarigioni, lo è senz’altro la sua resurrezione. Gli eventi di salvezza sono azioni puntuali di Dio, e in genere cambiano il corso della storia, a volte generale, a volte individuale.
La benedizione è invece la presenza costante di Dio nella vita quotidiana, presenza invisibile e sommessa. Per questo la benedizione è spesso associata a questioni molto pratiche e concrete, per esempio quelle legate al cibo, come la semina e il raccolto. La benedizione è dunque la presenza di Dio nella nostra quotidianità, il fatto che egli ci accompagna e sostiene - appunto - con la sua benedizione, ovvero con la sua presenza amorevole. La richiesta di benedizione non è una formula magica da invocare perché porti fortuna, ma è la richiesta dell’accompagnamento di Dio e della sua presenza invisibile nelle piccole e grandi cose della nostra esistenza. Molto bella l’immagine del “nome” di Dio messo sul suo popolo che troviamo nel v. 27, nome che è “messo” lì e non abbandona il popolo di Israele e non abbandona noi.
Tre pensieri su queste bellissime parole:

1. La benedizione che abbiamo letto, e che è diventata una formula liturgica che chiude spesso il nostro culto (accanto a quell’altra benedizione che prendiamo della conclusione della seconda lettera ai Corinzi), fa parte di un insegnamento che Dio dona al suo popolo. Dio insegna al suo popolo a chiedere a lui la sua benedizione. A pensarci bene potrebbe sembrare un po’ strano: se Dio vuole benedire il suo popolo perché semplicemente non lo fa, anziché insegnargli a chiedere la sua benedizione?
Forse perché Dio, che certo vuole benedire il suo popolo e tutti noi con la sua presenza amorevole e attenta, vuole anche che glielo chiediamo e, chiedendoglielo, mostriamo così di avere capito di averne bisogno. Proprio come Gesù ha dato ai suoi discepoli e a tutti noi le parole per pregare nella preghiera del Padre Nostro che abbiamo commentato alcune domeniche fa, così Dio ci insegna a chiedergli la sua benedizione.
È giusto che noi chiediamo a Dio la sua benedizione perché innanzitutto, come ho già detto, questo è il modo per esprimere di averne bisogno, di avere bisogno della sua presenza e della sua protezione. E in secondo luogo per non dare per scontato che Dio sia con noi e ci benedica. Esattamente come dicevamo per le richieste del Padre Nostro, la benedizione che chiediamo a Dio non è un nostro diritto ma una nostra necessità e sopratutto un suo dono.
E la relazione con Dio non è quella che si ha con un distributore automatico di eventi di salvezza o di benedizione, ma è appunto una relazione, creata dalla Parola che egli ci rivolge e che noi ascoltiamo, parola che ci vuole trasformare e donare speranza, a cui risponde la nostra parola che è essenzialmente preghiera di lode e di richiesta, in cui cioè esprimiamo la nostra gratitudine e le nostre necessità. Una delle principali necessità che abbiamo è proprio la sua benedizione, ovvero la sua presenza nella nostra vita.


2. Che cosa si chiede a Dio in questa richiesta di benedizione che Lui stesso ci insegna a fare? Si chiede la protezione di Dio: «Il Signore ti benedica e ti protegga!». Si chiede la benevolenza di Dio: «Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio». E si chiede la pace di Dio: «Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace».
Si chiede la protezione di Dio perché siamo esposti al male; al male che possiamo subire dagli altri o dagli eventi accidentali; al male che causa dolore e tristezza; siamo esposti anche al male che noi stessi facciamo. Da tutto questo – e molto altro, l’elenco sarebbe lunghissimo… - abbiamo bisogno di essere protetti. Noi vorremmo che essere protetti significasse che tutte queste cose potessero esserci evitate, ma sia la Bibbia, sia la storia (forse anche la nostra storia personale) ci insegna che a volte essere protetti dal male non vuol dire che il male ci viene risparmiato, ma significa saperlo affrontare, superare, a volte persino accettare, e soprattutto non perdere la fiducia che Dio è più grande del male che possiamo vivere.
Chiedere a Dio di essere protetti da lui significa riconoscere la nostra debolezza e la nostra fragilità e chiedergli di sapere “attraversare” il male, come il salmista del Salmo 23 cammina attraverso la valle dell’ombra della morte e non ha paura «perché tu sei con me» (Salmo 23,4). Quel «perché tu sei con me», quel sapere che Dio attraversa la valle buia con lui, è già la benedizione del salmista che ha scritto quel bellissimo salmo.
Si chiede poi la benevolenza di Dio, che Dio sia «propizio». È molto bello che sia questa sia la richiesta successiva menzionino il volto di Dio. Questo “antropomorfismo”, cioè questo parlare di Dio come se avesse le fattezze di un essere umano, con volto, mani e braccia, potrà sembrare a molti arcaico e ingenuo. Fermo restando che si tratta di una metafora, di una immagine e non di una descrizione di Dio, a me pare invece un modo chiaro e molto efficace di esprimere la relazione con Dio, che ci guarda voltando il suo volto verso di noi, o ci tiene per mano o libera il suo popolo con braccio potente. Di Dio non si può che parlare per immagini e questa immagine così umana di Dio non può far altro che rendercelo ancora più vicino. La richiesta è qui che Dio “faccia risplendere il suo volto sopra di noi”, che la luce che emana dal suo volto – luce di grazia, di amore, di salvezza, luce che irrompe nel buio e lo scaccia – giunga fino a noi e illumini la nostra esistenza e il nostro cammino. La sua benevolenza, il suo essere propizio, sono la luce del perdono e del suo amore gratuito che illumina la nostra vita.
Si chiede poi la pace di Dio, il suo Shalom. Anche qui si chiede a Dio di rivolgere il suo volto verso di noi, di guardarci e di donarci la sua pace, che non è soltanto assenza di conflitto ma è molto di più. Lo Shalom comprende la pace nel senso di assenza di conflitto, ma anche la serenità, l’avere tutto ciò di cui si ha bisogno, sia dal punto di vista materiale, sia morale. Lo Shalom non è ricchezza (l’AT sa bene che molto spesso le ricchezze degli uni sono la causa della povertà degli altri), ma è assenza di povertà. Chi vive nella miseria non gode dello Shalom di Dio. E del resto proprio l’Antico Testamento lega spesso la pace alla giustizia, che nella bellissima espressione del salmo 85 “si baciano” (Salmo 85,10). Invocare la benedizione di Dio vuol dunque dire anche chiedergli la sua pace e la sua giustizia.


3. Un ultimo pensiero: la benedizione che Dio insegna al suo popolo a chiedere va pronunciata dai sacerdoti. Dio prima dice «voi benedirete così i figli d’Israele...» e poi dice «io li benedirò». È chiaro che è Dio che benedice, è lui il soggetto dell’azione di benedizione. Ma la benedizione va pronunciata. Nella nostra liturgia cerchiamo di essere meno clericali possibile sostituendo il “ti” che c’è nel testo con un “ci” che comprende anche chi la pronuncia e non lo differenzia dagli altri (anche se personalmente non mi spiacerebbe che la benedizione finale del culto fosse pronunciata da tutta l’assemblea mantenendo il “ti” che comprende tutti ma che al tempo stesso è personale, proprio come l’amore di Dio è rivolto a tutti e a ciascuno/a).
L’idea di sacerdozio come mediazione tra Dio e l’ essere umano è stata abolita dalla venuta di Gesù, ma abbiamo bisogno che qualcuno – una sorella o un fratello o tanti fratelli e sorelle insieme – pronunci per noi e su di noi (vorrei dire per te e su di te) la benedizione di Dio, ovvero la richiesta che Dio ti benedica. E al di là della liturgia e del culto, è un bellissimo dono non solo il fatto che Dio ci insegni a chiedere la sua benedizione – che Egli ci vuole dare - ma anche il fatto che ci insegni a pronunciarla per e sulla sorella e sul fratello che condivide il nostro cammino di fede.
L’ultima parola che Dio ci dice nel culto è una parola di benedizione. L’ultima (ma anche la prima…) parola che Dio ci dice nella nostra vita, nella nostra giornata e in ogni momento che viviamo è una parola di benedizione. E che noi possiamo dare la nostra voce alla benedizione di Dio per il nostro prossimo è davvero un dono straordinario.