domenica 24 gennaio 2021

Predicazione di domenica 24 gennaio 2021 su Rut 1,1-19 a cura di Marco Gisola


Rut 1,1-19

1 Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia, e un uomo di Betlemme di Giuda andò a stare nelle campagne di Moab con la moglie e i suoi due figli. 2 Quest’uomo si chiamava Elimelec, sua moglie, Naomi, e i suoi due figli, Malon e Chilion; erano efratei, di Betlemme di Giuda. Giunsero nelle campagne di Moab e si stabilirono là.
3 Elimelec, marito di Naomi, morì, e lei rimase con i suoi due figli. 4 Questi sposarono delle moabite, delle quali una si chiamava Orpa, e l’altra Rut; e abitarono là per circa dieci anni. 5 Poi Malon e Chilion morirono anch’essi, e la donna restò priva dei suoi due figli e del marito.
6 Allora si alzò con le sue nuore per tornarsene dalle campagne di Moab, perché nelle campagne di Moab aveva sentito dire che il SIGNORE aveva visitato il suo popolo, dandogli del pane. 7 Partì dunque con le sue due nuore dal luogo dov’era stata, e si mise in cammino per tornare nel paese di Giuda.
8 E Naomi disse alle sue due nuore: «Andate, tornate ciascuna a casa di sua madre; il SIGNORE sia buono con voi, come voi siete state con quelli che sono morti, e con me! 9 Il SIGNORE dia a ciascuna di voi di trovare riposo in casa di un marito!» Le baciò; e quelle si misero a piangere ad alta voce, 10 e le dissero: «No, torneremo con te al tuo popolo». 11 E Naomi rispose: «Tornate indietro, figlie mie! Perché verreste con me? Ho forse ancora dei figli nel mio grembo che possano diventare vostri mariti? 12 Ritornate, figlie mie, andate! Io sono troppo vecchia per risposarmi; e anche se dicessi: "Ne ho speranza", e anche se avessi stanotte un marito, e partorissi dei figli, 13 aspettereste voi finché fossero grandi? Rinuncereste a sposarvi? No, figlie mie! Io ho tristezza molto più di voi, perché la mano del SIGNORE si è stesa contro di me». 14 Allora esse piansero ad alta voce di nuovo; e Orpa baciò la suocera, ma Rut non si staccò da lei.
15 Naomi disse a Rut: «Ecco, tua cognata se n’è tornata al suo popolo e ai suoi dèi; torna indietro anche tu, come tua cognata!» 16 Ma Rut rispose: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; 17 dove morirai tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!» 18 Quando Naomi la vide fermamente decisa ad andare con lei, non gliene parlò più.
19 Così fecero il viaggio assieme fino al loro arrivo a Betlemme.


Vorrei ripercorrere questo primo capitolo del libro di Rut facendoci aiutare da cinque parole che sono importanti per questo racconto.
La prima parola è “donne”. È una storia di donne il libro di Rut, donne che prendono in mano la loro vita e prendono decisioni importanti per loro ma anche per il popolo. Questo non è certo molto comune nell’AT ed ha fatto quindi pensare ad alcuni biblisti e bibliste che questo racconto possa essere stato scritto da una donna. Considerare la possibilità che il libro di Rut possa avere un’autrice anziché un autore è già una provocazione per i pregiudizi che ci portiamo dietro…
I primi cinque versetti ci raccontano in poche parole la tragedia di una famiglia: carestia, emigrazione, una parentesi che dovrebbe essere positiva con due matrimoni, che però non danno figli e a cui seguono drammaticamente tre decessi, di tutti gli uomini della famiglia.
Tre donne vedove ma non sole, perché legate da una intensissima comunione. Nella società del tempo una donna vedova era in grande difficoltà. Come sapete le donne nella Bibbia ricevono la loro identità dall’uomo a cui, per usare un termine crudo ma reale, “appartengono”: prima sono “figlie di…” e poi sono “mogli di…”.
Nel racconto di Rut ci sono alcuni indizi che mettono in questione questa visione: dopo la tragica morte dei tre uomini della famiglia, tutte le relazioni ruotano intorno a Naomi: i due figli non sono chiamati figli di Elimelec, ma figli di Naomi; Orpa e Rut sono chiamate “nuore di Naomi” e non, come ci si poteva aspettare, “vedove di …”
Altra cosa strana è che quando Naomi tenta di rimandare le due nuore a casa dice «tornate ciascuna a casa di sua madre» e non “di suo padre” come sarebbe stato normale. Il racconto sembra dare un punto di vista femminile.
Ma non solo: la relazione strettissima che ci viene presentata tra Naomi e Rut vuole proprio dirci che il legame così forte tra due donne può in fondo supplire alla mancanza di un uomo. Si sopravvive anche senza uomini: non sarà il messaggio centrale, ma è senz’altro uno dei messaggi di questo libro.
Dopo la parola “donne” una seconda riflessione può partire dalla parola “pane”. Elimelec e Naomi partono da Betlemme perché hanno fame: Betlemme significa “casa del pane”, ma nella casa del pane non c’è più pane, Betlemme non dà più quello che promette il suo nome. C’è carestia, e quando c’è carestia si parte, si emigra.
Lo aveva fatto Abramo, andando in Egitto. Lo aveva fatto suo figlio Isacco andando a vivere a Gherar, tra i filistei. E poi anche Giacobbe con i suoi figli, quando aveva scoperto che Giuseppe non era morto ma era diventato un uomo importante in Egitto. E tutti emigrano per fame, come accade anche oggi.
Altro dettaglio degno di nota (i dettagli nei racconti sono importanti): nel racconto non è detto che è Dio ad aver mandato la carestia, ma è detto che è Dio che la fa terminare e viene detto usando un verbo importante: Dio ha “visitato” il suo popolo, come quando era schiavo in Egitto (Esodo 4,1), quando lo ha visitato per liberarlo. Dio visita il suo popolo e a Betlemme c’è di nuovo pane, è di nuovo la casa del pane.
E nel prosieguo del racconto, Rut andrà a spigolare nel campo di orzo di Boaz; la spigolatura era prevista dalla Torah, era il sostentamento dei poveri. La visita di Dio e la Torah, anch’essa dono di Dio, faranno sì che Naomi e Rut potranno mangiare.
Una terza parola importante in questo racconto è la parola “tornare”, che non è solo un verbo di movimento, ma è un verbo “teologico”: è il verbo ebraico usato per indicare la conversione, che è un tornare a Dio. Questo verbo lo incontriamo ben dodici volte in questi diciannove versetti.
La questione che in questo racconto si pone alle due nuore di Naomi è dove andare, o meglio dove “tornare”? Perché anche qui c’è un altro dettaglio importante: le tre donne partono verso Giuda, o meglio Naomi parte e Rut e Orpa vanno con lei. Ed è solo quando sono già partite che Naomi prova a convincerle a tornare indietro.
Qualcuno ha detto che Rut e Orpa devono arrivare in un terra che non è più Moab e non è ancora Giuda per poter decidere se andare avanti verso Giuda o tornare indietro verso Moab. Una terra di mezzo.
In questa terra di mezzo Naomi dice loro “tornate”, «tornate ciascuna a casa di sua madre». Le due donne – ancora tutte e due – rispondono invece che vogliono “tornare” a Giuda con Naomi, e qui il verbo “tornare” è fuori posto, perché per loro due non sarebbe un “tornare” da dove sono venute ma un andare in un posto nuovo e sconosciuto.
Orpa insiste un po’ e poi accoglie l’invito di Naomi: torna a Moab. Notiamo che né Naomi, né Rut, né il narratore condannano questa scelta. Orpa sparisce di scena, ma non è giudicata.
Rut pronuncia quella bellissima dichiarazione in cui dice che vuole stare con la suocera e persino essere sepolta con lei:
«il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!». Rut chiama Dio a testimone della sua promessa.
La quarta parola è proprio… “Dio”: «il tuo Dio sarà il mio Dio». Quella di Rut è una conversione? Questa frase fa pensare di sì, ma il testo non è così esplicito; se lo è, è l’unico caso in tutto l’AT. Quello che è certo è che Rut si lega a Naomi e le promette di non abbandonarla, e legandosi a Naomi si lega anche al suo popolo e al suo Dio.
Questo racconto abbatte un gran numero di barriere e di confini: abbatte la barriera dietro la quale erano relegate le donne, che erano viste come totalmente dipendenti dagli uomini, mentre qui Naomi e Rut prendono in mano il loro futuro autonomamente.
Abbatte la barriera che separava ebrei e moabiti; Rut viene sempre chiamata la moabita. Ma sentiamo cosa dice il Deuteronomio dei moabiti: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nell’assemblea del SIGNORE; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nell’assemblea del SIGNORE» (24,3). Abbatte quindi la barriera del particolarismo di Israele, che in alcune epoche storiche si è totalmente chiuso agli altri popoli. Si pensa che Rut sia stato scritto al tempo di Esdra e Neemia, quando nel popolo d’Israele, da poco ritornato dall’esilio in Babilonia, si decide di mandare via tutte le mogli non ebree degli Israeliti, per non avere contaminazioni con i popoli pagani.
E invece Rut non solo entra nella terra di Israele, ma vi avrà un ruolo molto particolare, perché sarà la bisnonna del re Davide ed è ricordata anche tra le antenate di Gesù nel vangelo di Matteo. I moabiti sono i nemici storici di Israele, ma proprio da quel popolo viene una donna come Rut. Dio va a scegliere una donna, perché sia progenitrice di Davide e di Gesù, proprio tra il popolo dei Moabiti.
Dove è Dio in questo racconto? Dio non parla e non interviene direttamente, ma è nominato più volte. Viene nominato da Naomi che invoca la misericordia di Dio sulle sue nuore quando cerca di convincerle a tornare a Moab.
Naomi nomina una volta Dio anche con parole dure, quando dice che la «mano del signore si è stesa contro di lei» per tutto ciò che le è accaduto, la morte del marito e dei figli. Naomi è dunque anche un po’ arrabbiata con Dio…
Ma prima di questo Naomi lo aveva nominato come colui che ha visitato il suo popolo «dandogli del pane», dunque un Dio che Naomi non comprende sino in fondo riguardo al suo passato, ma nelle cui mani sta il suo futuro e il futuro del suo popolo, futuro che inizia dal pane. E poi lo nomina Rut nella sua promessa di non lasciare Naomi.
Dio in questo racconto ha dunque a che fare col “futuro”, quinta e ultima parola chiave: a Dio si lega strettamente il futuro di Naomi e di Israele. Dio in questo racconto ha a che fare col futuro e il futuro ha a che fare con Rut. Dio sceglie Rut e la dona a Naomi e a tutto Israele.
Prima ancora che una convertita, Rut mi sembra un dono, un dono che Dio fa a Naomi e a Israele. È attraverso Rut che Dio dona futuro a Naomi e a tutto il popolo, e anche a noi, perché sarà una progenitrice di Gesù.
Il futuro sta nel pane – e Rut lavorerà andando a spigolare per procurare del pane a Naomi – e nel figlio che nascerà. Qui entrerà in scena Boaz, nei capitoli successivi. Boaz costituirà per Rut e Naomi (che sono sempre insieme, come una coppia inseparabile, la promessa di Rut non viene meno dopo il suo matrimonio) il passaggio dalla precarietà della spigolatura alla sicurezza, ma soprattutto sarà padre del figlio di Rut, Obed, il quale sarà nonno di Davide.
Ricorderete che stranamente quando il bambino nascerà le donne vicine di casa diranno «è nato un figlio a Naomi», benché fosse figlio di Rut!
Ma la vita di Naomi e di Rut, da quel giorno che Rut ha fatto la sua promessa, sono inscindibilmente legate. Il futuro dell’una è il futuro dell’altra, Obed è il loro futuro ed è il futuro anche di tutto il popolo.
La storia di Rut ci dice che Dio provvede un futuro al suo popolo e provvede un futuro a Naomi. Si occupa del popolo e di quel singolo membro del popolo che è Naomi; non abbandona una donna emigrata in terra straniera rimasta vedova e senza figli.
Non l’abbandona, le dà del pane e una nuora, che è per lei più che una figlia e più che un’amica, perché Rut è dono di Dio per lei e per tutto il popolo...
Dio continua a stupirci con i suoi doni: a Naomi dona una nuora, anche lei vedova e straniera. La bontà e la fedeltà di Rut la moabita saranno il dono di Dio per Naomi e per Israele.
La bontà e la fedeltà di Dio si manifestano anche attraverso la bontà e la fedeltà di Rut, si manifestano anche attraverso la bontà e la fedeltà delle persone che ci dona come prossimo.
Dio continua a stupirci con il dono che ci fa dei nostri prossimi con i quali possiamo incamminarci, come Naomi e Rut, verso il nostro futuro.

domenica 17 gennaio 2021

Predicazione di domenica 17 gennaio 2021 su Giovanni 2,1-12 a cura di Marco Gisola

1 Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c’era la madre di Gesù. 2 E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. 3 Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 Gesù le disse: «Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta». 5 Sua madre disse ai servitori: «Fate tutto quel che vi dirà». 6 C’erano là sei recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei, i quali contenevano ciascuno due o tre misure. 7 Gesù disse loro: «Riempite d’acqua i recipienti». Ed essi li riempirono fino all’orlo. 8 Poi disse loro: «Adesso attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. 9 Quando il maestro di tavola ebbe assaggiato l’acqua che era diventata vino (egli non ne conosceva la provenienza, ma la sapevano bene i servitori che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: 10 «Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora». 11 Gesù fece questo primo dei suoi segni miracolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui. 12 Dopo questo, scese a Capernaum egli con sua madre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli, e rimasero là alcuni giorni.



Manca qualcosa. Questa è la situazione iniziale che ci presenta il racconto del miracolo che Gesù compie ad una festa di nozze, in un villaggio della Galilea di nome Cana. Manca qualcosa, la cui mancanza può rovinare la festa, perché una festa di nozze in cui il vino finisce prima che la festa sia terminata è un fallimento, o almeno una figuraccia.

Manca qualcosa, manca il vino della festa e Gesù interviene e trasforma l’acqua in vino. Ora il vino c’è, è abbondante, anzi abbondantissimo si parla di una quantità che va dai 500 ai 700 litri! Ed è pure molto buono.

Ma come – potrebbe dire qualcuno – Gesù usa la sua capacità di compiere miracoli per non far mancare il vino ad una festa? Diventando magari complice dell’ubriacatura di qualche invitato che aveva già bevuto un po’ troppo? Con tutti i problemi che ci sono, dalla pandemia, all’ingiustizia economica, ai disastri ambientali… Gesù si occupa di vino?

Questa domanda in fondo ce la facciamo tutti noi. Un miracolo per trasformare dell’acqua in vino ci sembra quasi un miracolo sprecato. Comprendiamo molto meglio le guarigioni, la moltiplicazione dei pani…

Avviciniamoci” allora un po’ al racconto...

Giovanni ci dice che questo è il primo dei «segni miracolosi» che Gesù compie. Nel testo greco la parola «miracolosi» non c’è, l’evangelista Giovanni chiama le opere prodigiose di Gesù semplicemente “segni”.

Che cosa fa un segno? Un segno segnala, indica, i segni che Gesù compie nel vangelo di Giovanni - più ancora che nei sinottici - vogliono indicarci, dirci chi è Gesù; in una parola: vogliono rivelare. I segni rivelano chi è Gesù.

E che cosa rivela questo segno? Rivela, come tutti i segni che incontriamo nel vangelo, che Gesù è il figlio di Dio. E rivela – per dirla con le parole che usa Gesù stesso sempre in Giovanni (10,10) - che Gesù è venuto perché coloro che credono in lui «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Non abbondanza di vino (che è anch’esso solo un segno) ma abbondanza di vita, abbondanza di gioia, abbondanza di speranza, abbondanza di perdono… Abbondanza, non solo un po’, non solo un po’ di vita, non solo un po’ di gioia, non solo un po’ di speranza, non solo un po’ di perdono!

Abbondanza di ciò che ci manca, che non possiamo fabbricarci o comperarci; abbondanza di ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. Questo ci porta Gesù e di questo è segno il vino della festa delle nozze di Cana.

Giovanni, come abbiamo già detto, dice che questo è il primo segno che Gesù compie, ma si potrebbe anche tradurre con “l’inizio” dei segni. Gli altri segni ci vengono raccontati nei capitoli successivi, ma possiamo chiederci: se questo è il primo segno, quale sarà l’ultimo? Se questo è l’inizio quale sarà la fine dei segni?

L’ultimo segno rivelatore, ovvero che ci rivela che Gesù è il figlio di Dio, inviato dal Padre per rivelare la sua volontà, sarà la croce; la fine dei segni è la fine della vita terrena di Gesù. Ma questa fine per Giovanni non è fine, è compimento: Gesù infatti morendo dirà: «è compiuto».

Quello che umanamente è il punto più basso della vita di Gesù – più basso come sofferenza, abbandono, crudeltà – è interpretato da Giovanni come il punto più alto del ministero terreno di Gesù.

Giovanni infatti chiama la crocifissione “innalzamento”, oppure la chiama “glorificazione”. E anche attraverso il segno compiuto alle nozze di Cana Gesù «manifestò la sua gloria». Lo scopo del segno – dei segni – che Gesù compie è duplice: donare vita e gioia e speranza in abbondanza a chi li riceve e manifestare la sua gloria.

Che questo segno guardi lontano, guardi alla croce lo mostra anche il breve dialogo tra Gesù e Maria: la prima parte del dialogo è molto enigmatico, non è chiaro che cosa Maria voglia chiedere a Gesù con la frase «non hanno più vino» e non è chiara la risposta di Gesù: «Che c’è fra me e te, o donna?», che non è una parola scortese, ma è senz’altro una presa di distanza.

Anche la parola «donna» non è dispregiativa come potrebbe suonare oggi alle nostre orecchie; Gesù chiamerà Maria «donna» anche nel bellissimo gesto che compirà sulla croce quando affiderà a Maria il discepolo prediletto e affiderà Maria al discepolo prediletto, una sorta di adozione reciproca.

Gesù chiama Maria «donna» e non la chiama “madre”. Una possibile significato di questo è che Gesù tratti Maria non da madre, bensì da discepola. Potrebbe voler dire: non rivolgerti a me come una madre fa col proprio figlio, ma come una discepola con il suo Signore.

E Maria infatti si comporta da discepola, nel senso che si fida, ha fiducia che nonostante la sua strana risposta, Gesù farà qualcosa. Inoltre, la conclusione del nostro brano ci dice che Maria va con Gesù, i suoi fratelli e i suoi discepoli; Giovanni inserisce cioè Maria e i fratelli di Gesù nel gruppo dei discepoli.

Più chiara è la frase di Gesù «L’ora mia non è ancora venuta». L’ «ora», nel vangelo di Giovanni è il culmine della missione di Gesù che sarà appunto la passione e la croce. L’ «ora» saranno gli ultimi giorni e ultimi istanti della vita di Gesù, che culminano con quella che - abbiamo detto – Giovanni chiama la glorificazione.

Gesù vuol dire che non è ancora giunto il momento di manifestarsi come lo farà nella sua passione. Maria, qualunque cosa abbia capito della risposta di Gesù, si mostra fiduciosa che Gesù qualcosa farà e chiede ai servi di fare tutto ciò che Gesù dirà loro.

E dunque una manifestazione avviene. Gesù non compie gesti spettacolari, non crea ma trasforma. Trasforma acqua in vino, trasforma qualcosa di comune e quotidiano in qualcosa di straordinario e festoso. Anche il vino è carico di significati simbolici, in alcuni profeti l’abbondanza di vino fa parte dei racconti dei tempi messianici quando Dio viene e porta pace, gioia e abbondanza, anche di vino.

E l’abbondanza è davvero straordinaria, si parla di più di 500 litri di vino che arrivano alla fine – non all’inizio - della festa. E vino molto buono, tanto che si guadagna le lodi del maestro di tavola, che era uno dei servi che organizzavano il banchetto nuziale.

Il miracolo non sembra essere evidente a tutti. Il maestro di tavola non sa che nelle giare prima c’era semplice acqua e infatti diventa il miglior testimone (inconsapevole) del miracolo, e tanto più attendile quanto più inconsapevole. Non è ancora l’ «ora» che tutti sappiano.

Lo sanno solo i servi, che però non prendono parola, e i discepoli, che capiscono che attraverso questo segno si è manifestata la gloria di Gesù. E credono in lui.

A questo serve il segno, questo il suo obiettivo: la fede. Non certo solo a far bere del buon vino agli invitati alle nozze di Cana.

Chi sperimenta l’abbondanza di doni, l’abbondanza di grazia, di vita e di gioia che Gesù porta a chi lo incontra, si affida a lui, crede.

Mancava qualcosa alla festa di nozze di Cana e Gesù è intervenuto per trasformare la mancanza in abbondanza.

Manca qualcosa anche nella nostra vita, sempre alle prese con difficoltà, limiti, incomprensioni… alla nostra vita mancano molte cose, è incompleta, imperfetta…, manca misericordia, manca a volte anche solo la chiarezza e la comprensione reciproca tra sorelle e fratelli…

Il “mancare” di qualcosa è caratteristica ineliminabile della nostra umanità ed è anche conseguenza del nostro peccato.

Non potremmo essere cristiani se non fossimo consapevoli di questo, e se d’altra parte, non fossimo consapevoli che Gesù è venuto proprio per questo, per trasformare la nostra cronica mancanza attraverso l’abbondanza dei suoi doni.

Non potremmo essere cristiani se non sapessimo che ci manca qualcosa e se non sapessimo che ciò che ci manca ci è donato in Cristo, non come possesso ma appunto come dono -

Gioire di questo dono come gli invitati alle nozze di Cana hanno gioito del vino buono; gioire e credere, come hanno fatto i discepoli, del dono della grazia, della gioia e della speranza che ci sono donate in Cristo è ciò che ci invita a fare questa parola di oggi.

Ciò che ci manca possiamo metterlo nelle mani di Gesù e affidarlo alla sua grazia che trasforma e che abbonda.


domenica 10 gennaio 2021

Predicazione di domenica 10 gennaio 2021 su Isaia 60,1-6 a cura di Marco Gisola

Domenica 10 gennaio 2021 - Epifania

Isaia 60, 1-6

«Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del SIGNORE è spuntata sopra di te! 

Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli;

ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te.

Le nazioni cammineranno alla tua luce, i re allo splendore della tua aurora.

Alza gli occhi e guàrdati attorno; tutti si radunano e vengono da te;

i tuoi figli giungono da lontano, arrivano le tue figlie, portate in braccio.

Allora guarderai e sarai raggiante, il tuo cuore palpiterà forte e si allargherà,

poiché l’abbondanza del mare si volgerà verso di te, la ricchezza delle nazioni verrà da te.

Una moltitudine di cammelli ti coprirà, dromedari di Madian e di Efa;

quelli di Seba verranno tutti, portando oro e incenso, e proclamando le lodi del SIGNORE.





«La tua luce è giunta, e la gloria del SIGNORE è spuntata sopra di te!». Le tenebre sono finite, sta spuntando una luce, anzi è spuntata, è spuntata sopra di te, per te, per illuminare la tua vita. La luce è il segno, il simbolo di questa domenica in cui ricordiamo l’epifania, ovvero la manifestazione (l’epifania significa manifestazione) di Gesù agli stranieri, simboleggiata dalla visita dei magi.

Questi stranissimi personaggi, studiosi degli astri, quindi pagani, e dunque lontani, sia geograficamente dalla terra di Palestina, sia spiritualmente dalla fede di Israele. Lontani, eppure vicini, perché avvicinati da Dio, portati vicini da Dio che li va a chiamare parlando la loro lingua, quella delle stelle.

Vengono ad adorare, a portare doni, e se ne vanno come se ne erano venuti, senza fare rumore, senza dare nell’occhio. E disobbedendo al re Erode che voleva essere informato sul “re” che sapeva che doveva nascere, i magi fanno un’altra strada e non passano da lui.

Una luce che illumina chi non sapeva nulla di Dio, ma che viene illuminato e portato, accompagnato fino a Betlemme dove vedono e adorano.

Come accadrà poi dopo la resurrezione di Gesù, quando l’annuncio dall’evangelo arriverà ai pagani grazie al lavoro instancabile dell’apostolo Paolo e di tutti i suoi compagni nell’apostolato e che farà sì che l’autore della lettera agli Efesini possa scrivere quello che abbiamo ascoltato, cioè che «gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo» (Efesini 3,6).

Il testo che il nostro lezionario indica quest’anno per l’Epifania è un brano del profeta Isaia, che riguarda anch’esso tutti i popoli del mondo. Proprio come i magi vennero da lontano fino a Betlemme per adorare Gesù e portarono in dono oro, incenso e mirra, i popoli della terra, in questa profezia di Isaia, vengono a Gerusalemme per adorare il Dio d’Israele e portano in dono oro e incenso.

I popoli della terra vengono a Gerusalemme perché qui avviene una ‘epifania’, cioè il Signore, il Dio d’Israele e dell’universo, si manifesta in Gerusalemme e tutti i popoli accorrono a lui.

Quando queste parole vengono pronunciate da Isaia, il popolo d’Israele è appena ritornato dall’esilio in Babilonia. Anzi, a dire il vero non sono ancora nemmeno ritornati tutti coloro che erano stati deportati, e si attende ancora il ritorno di molti esiliati.

Il testo preannuncia il loro ritorno quando dice che i figli e le figlie – intesi come figli e figlie di Gerusalemme – torneranno da lontano.

È dunque per Israele un tempo di miseria e di fatica, di ricostruzione, dei villaggi, ma anche del tempio di Dio che era stato distrutto dai Babilonesi. È un tempo di fatica e di tristezza, perché sono sì tornati in patria, ma hanno davanti a loro le macerie materiali e spirituali per cui tutto è da ricostruire.

Potremmo dire che gli Israeliti – o alcuni di loro – sono sì tornati a casa ma sono ancora nelle tenebre, che impediscono loro di vedere il futuro.

In queste tenebre di stanchezza e di rassegnazione Isaia proclama la sua profezia di luce, che annuncia non solo il ritorno di tutti gli esiliati, non solo benessere e sicurezza, ma annuncia anche il pellegrinaggio di tutti i popoli a Gerusalemme.

I popoli pagani non solo non saranno più nemici di Israele, non solo non lo metteranno più in pericolo e non lo domineranno più, ma verranno in pellegrinaggio a Gerusalemme che diventerà il centro del mondo, luogo in cui tutti i re della terra verranno a inchinarsi davanti al Dio d’Israele e a portare doni.

Il testo usa immagini bellissime: le porte della città, che solitamente di notte vengono chiuse per evitare che entrino ospiti indesiderati, rimarranno aperte giorno e notte, tanti saranno i re che verranno a Gerusalemme e i doni e le ricchezze che essi porteranno da tutti i luoghi.

La profezia annuncia anche la giustizia e la pace: “Io ti darò per magistrato la pace, per governatore la giustizia. Non si udrà più parlare di violenza nel tuo paese, di devastazione e di rovina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: Salvezza, e le tue porte: Lode” (v. 18).

Questo è l’annuncio luminoso che Isaia è chiamato a portare ai primi Israeliti che ritornano a Gerusalemme: «Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te! Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te».

La luce non è solo una bella immagine, la luce è ciò che letteralmente permette di vedere ciò che al buio non si vede. La luce dunque rivela, mostra ciò che era nascosto. È appunto una “epifania”, una manifestazione di ciò che non è manifesto.

A Israele rivela e annuncia il regno di giustizia e di pace che Israele ancora non può vedere, annuncia il fatto che i popoli verranno in pellegrinaggio a Gerusalemme portando doni, che verranno dunque in pace e non più per conquistare e distruggere come era accaduto qualche decennio prima.

Agli stranieri, ai pagani rappresentati dai magi d’oriente, la luce di Dio rivela quello che non avrebbero mai potuto vedere e nemmeno immaginare: che a Betlemme è nato il re dei Giudei e che questo re si trova in una mangiatoria e non nel palazzo della capitale Gerusalemme dove in un primo tempo i magi erano andati a cercarlo.

La luce di Dio rivela che il re è proprio quel bambino indifeso che i magi incontrano, e questo fatto va “rivelato”, cioè è necessario che sia Dio a dircelo affinché noi possiamo crederlo, perché questo annuncio va contro ogni evidenza. Solo la luce di Dio può fare questo.

Solo la luce di Dio che risplende la mattina di Pasqua farà credere ai discepoli e alle discepole di Gesù che il crocifisso era davvero il figlio di Dio, perché anche la croce andava contro tutte le evidenze.

Quando la luce di Dio risplende c’è gioia, c’è dono (oro, incenso e mirra), c’è la forza di mettersi in cammino per un lungo viaggio come quello dei magi, c’è speranza. Quando la luce di Dio risplende c’è giustizia e c’è pace.

Quando la luce di Dio risplende riconosciamo, come i magi, in Cristo il nostro re e Signore e in lui troviamo gioia, doni, forza, speranza e possiamo cercare e lavorare per la giustizia e la pace.

E come dice Isaia poche righe più avanti: «Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno; e non più la luna t’illuminerà con il suo chiarore; ma il SIGNORE sarà la tua luce perenne, il tuo Dio sarà la tua gloria. Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più; poiché il SIGNORE sarà la tua luce perenne...».

Luce perenne per la nostra fede e per la nostra speranza è il Signore, luce che irrompe nelle tenebre e le scaccia via.

Ed ancora una cosa ci dicono questo brano e il racconto dei magi, questi – dicevamo – strani personaggi che con Israele e la sua fede non c’entrano nulla. Ci dice che Gesù è venuto anche per gli altri. Gesù è venuto anche per altri, non solo per noi. Come non è venuto soltanto per il suo popolo, ma anche per i pagani, anche per i magi.

Questa di Isaia non è l’unica profezia dell’Antico Testamento che parla del cosiddetto pellegrinaggio delle nazioni a Gerusalemme, ce ne sono anche altre. È la realizzazione della promessa che Dio aveva fatto ad Abramo.

E il racconto dei magi racconta il compimento di queste profezie in Cristo. Anche altri vengono a Gesù. Non solo Israele. E questo vale anche per noi: anche altri vengono a Gesù, o meglio anche da altri va la luce di Gesù, la luce di Dio che fa riconoscere in Gesù il suo figlio e nostro Signore.

La grazia del Signore ha fatto sì che tra questi “altri” ci fossimo anche noi. Anche su di noi è spuntata la luce del Signore, anche per noi la sua gloria e la sua grazia si sono manifestate in Cristo.

Anche noi possiamo allora gioire e lodare il Signore che continua a manifestarsi nella sua parola e a illuminare le nostre vite.


domenica 3 gennaio 2021

Predicazione di domenica 3 gennaio 2021 su Luca 2,41-52 a cura di Marco Gisola

 Luca 2,41-52


41 I suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42 Quando giunse all'età di dodici anni, salirono a Gerusalemme, secondo l'usanza della festa; 43 passati i giorni della festa, mentre tornavano, il bambino Gesù rimase in Gerusalemme all'insaputa dei genitori; 44 i quali, pensando che egli fosse nella comitiva, camminarono una giornata, poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45 e, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme cercandolo. 46 Tre giorni dopo lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri: li ascoltava e faceva loro delle domande; 47 e tutti quelli che l'udivano, si stupivano del suo senno e delle sue risposte. 48 Quando i suoi genitori lo videro, rimasero stupiti; e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». 49 Ed egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?» 50 Ed essi non capirono le parole che egli aveva dette loro. 51 Poi discese con loro, andò a Nazaret, e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 52 E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini.


«Perché mi cercavate?» è la prima parola che Gesù pronuncia nel vangelo di Luca. Perché mi cercavate nel posto sbagliato? - potremmo aggiungere interpretando le parole di Gesù. Il posto giusto, sembra dire Gesù ai suoi genitori, quello in cui devo – e Gesù sottolinea “devo” -  stare non è con voi, ma con il «Padre mio».

Luca è l’unico vangelo che ci narra questo episodio di un Gesù, come diremmo oggi, preadolescente che risponde ai suoi genitori che lo rimproverano. Ma nella cultura ebraica a dodici anni non si è preadolescenti o adolescenti, ma si è quasi adulti, perché a tredici anni si diventava adulti.

Ancora oggi nelle comunità ebraiche a tredici anni i maschi e dodici anni le femmine, “sono obbligati a seguire i comandamenti e sono ritenute persone moralmente responsabili delle proprie azioni. I ragazzi contano ora come membri del gruppo di dieci persone, il Minyan, richiesto per celebrare il culto. Essi possono inoltre guidare le liturgie e leggere la Torah” (dal sito della comunità ebraica di Bologna).

Che Gesù fosse già ufficialmente adulto oppure no, non cambia molto: non è più un bambino, quello che per noi è un ragazzino, per la Torah è (quasi) un adulto, cioè è responsabile di quello che fa ed è responsabile di seguire i comandamenti. In ebraico si dice che si diventa “Bar-Mitzvah” o “Bat-Mitzvah”, cioè figlio o figlia del comandamento.

E Gesù di chi è figlio? Questa è la grande questione posta da questo brano, che conclude il cosiddetto “vangelo dell’infanzia” di Luca. 

Alla domanda di una Maria spaventata e angosciata, e anche un po’ arrabbiata, come lo sarebbero tutti i genitori che hanno smarrito un figlio, Gesù risponde in modo che a prima vista potremmo giudicare un po’ impertinente: «Perché mi cercavate?». 

Ma la domanda di Gesù non è quella di un ragazzino impertinente, bensì quella di chi pone la questione di chi sia figlio: figlio di Giuseppe o figlio di Dio? 

Avrete notato che sia in questo brano che in quello di domenica scorsa, Luca parla tranquillamente di Giuseppe e Maria come dei genitori di Gesù e che qui Maria usa il termine “tuo padre” riferito a Giuseppe: «Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». Luca parte dal presupposto che Giuseppe sia legalmente il padre di Gesù, che si sia assunto il ruolo e compito di padre a tutti gli effetti.

E Luca fa parlare Maria, anche perché vuole sottolineare il contrasto tra “tuo padre” – «tuo padre ed io ti cercavamo… » - e la risposta di Gesù «non sapevate che dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?».

Due dettagli su questa frase: il primo è che “nella casa del Padre mio» non è l’unica traduzione possibile: il testo dice letteralmente “nelle del padre mio”; potremmo dire “nelle cose del padre mio”, che è un modo di dire che può avere sia significato di luogo, e dunque “luogo” o “casa”, ma anche un significato meno materiale. 

La risposta di Gesù, per semplificare, significa: dovevo stare con mio padre. Ovviamente Dio non è solo nel tempio, lo sapevano bene anche gli ebrei del tempo di Gesù. Ma lì nel tempio, quando chiese a Salomone di costruirgli una casa, aveva deciso di far abitare il proprio nome. 

Lì avveniva il culto sacrificale, ma come leggiamo qui, nel tempio, o meglio in uno dei suoi cortili, si leggeva e si discuteva sulla Torah, sulla Parola di Dio. Anche i primi cristiani si troveranno nel tempio, nel cosiddetto portico di Salomone  (Atti 3,11; 5,12)

Gesù viene trovato seduto in mezzo ai maestri, li ascolta e li interroga, non fa il saccente, non è presentato come maestro dei maestri, ma come uno di loro, solo che non ha fatto alcuna scuola rabbinica e ha solo 12 anni! Tutti stupiscono della sua sapienza. 

Questo racconto vuole mostrare il legame particolare di Gesù con il Padre con la “P” maiuscola, vuole cioè mostrare che Gesù è il figlio di Dio. 

Ma mentre i vangeli cosiddetti apocrifi (quegli scritti che parlano di Gesù e che non fanno parte del NT) raccontano di miracoli compiuti da Gesù durante la sua infanzia e giovinezza, il vangelo di Luca è molto sobrio. 


Il fatto che Gesù è figlio di Dio lo si vede non da atti o eventi spettacolari, ma dal fatto che Gesù ha una sapienza particolare riguardo alla volontà di Dio; e questa sua sapienza la usa per discutere con i maestri della Torah. È sulla Torah che Gesù dialoga, su quella che noi chiameremmo la Parola di Dio, e lo fa senza arroganza, ma discutendo e interrogando i sapienti di Israele.

Notiamo anche che il vangelo dell’infanzia di Luca ci vuole mostrare una accoglienza benevola verso Gesù da parte di Israele: a partire da Zaccaria, un sacerdote che loda il messia prima che nasca; e poi i pastori, ebrei considerati impuri a causa del loro lavoro; Simeone e Anna, anziani che vivono in attesa del messia e che profetizzano riconoscendo in Gesù il messia venuto; e ora i maestri di Israele, con cui Gesù discute. 

E invece Giuseppe e Maria «non capirono le parole che egli [Gesù] aveva dette loro».  Forse possiamo riconoscere un po’ noi stessi in Giuseppe e Maria, anche noi spesso non capiamo ciò che Gesù vuole dirci, non lo capiamo fino in fondo.

Eppure Giuseppe e Maria erano quelli che erano più vicini a Gesù; a parte Zaccaria e Elisabetta, e Simeone e Anna di cui abbiamo parlato l’altra volta, erano gli unici a sapere che Gesù aveva un compito particolare datogli da Dio, c’era stato l’annuncio dell’angelo a Maria e tutto il resto. Ma lo stesso non riescono a comprenderlo o ad accettarlo. 

Perché non è una cosa ovvia o scontata da accettare, nemmeno per i suoi genitori, nemmeno per quelli che gli sono più vicini. Spesso sono proprio i più vicini a non comprendere. Proprio come noi.

Possiamo dunque identificarci con Giuseppe e Maria, e da Maria riceviamo anche un insegnamento: come già era stato detto dopo la visita dei pastori, Maria «serbava tutte queste cose nel suo cuore». 

Calvino commenta così questo fatto: “Maria serbava nel suo cuore le cose che il suo spirito non poteva ancora comprendere; impariamo da qui a ricevere con rispetto i misteri di Dio che superano la capacità del nostro spirito e a conservarli con cura nel nostro cuore, così come il seme si nutre nel mentre che è nascosto nella terra”.

Lasciamo cioè che anche ciò che non comprendiamo dell’evangelo lavori dentro di noi come un seme sotto terra; non respingiamo ciò che non comprendiamo, ma conserviamolo nella nostra mente e nel nostro cuore, perché lo Spirito di Dio può agire anche attraverso ciò non comprendiamo del tutto.

Alla fine del racconto Gesù torna a Nazaret e rimane sottomesso ai suoi genitori. Sottomesso come era previsto dalla Torah, ai genitori si doveva rispetto e onore. Questo episodio è solo un’anticipazione di quello che Gesù sarà, farà e dirà. Ma per ora Gesù ritorna nel suo ruolo di figlio di Giuseppe e Maria. È figlio di Dio, ma poiché ha accettato di prendere la nostra umanità su di sé, ora vive tutta questa umanità, vive anche il suo umanissimo ruolo di figlio di Giuseppe e Maria e sta con i suoi genitori.

Non era ancora giunto il momento di rivelare a tutti che lui è il figlio di Dio. Ci vorranno ancora quasi vent’anni perché Gesù inizi il suo ministero. Per ora, per i più è ancora uno sconosciuto, un ragazzo/uomo come tanti altri. Questo episodio è stato una anticipazione di ciò che sarà.

Dunque Gesù è figlio di Dio, questo ci vuole dire questo testo; e le sue strade, vent’anni dopo, saranno altre e diverse rispetto a quelle di qualunque altro giovane uomo ebreo suo contemporaneo e lo porteranno lontano dalla famiglia che lo ha cresciuto. Per ora, è ancora nascosto, non è evidente, ma Gesù è il figlio di Dio.

E noi di chi siamo figli? Non in senso biologico ovviamente, quello lo sappiamo. Siamo figli del nostro tempo, della nostra cultura, come si usa dire? Sì certo, lo siamo, perché siamo nati e cresciuti in un luogo e in un contesto ben definiti. 

Ma oltre a questo, oltre a tutto ciò che di umano, culturale e sociale ci determina, in Gesù siamo suoi fratelli e sue sorelle e dunque anche noi figli e figlie di Dio, figli e figlie adottivi, come dice l’apostolo Paolo, nel senso di fatti diventare figli e figlie, appunto, in e attraverso Gesù. 

E infatti Gesù userà con i suoi discepoli l’espressione «padre vostro», parlando del padre suo. È grazie a Gesù – e dunque per grazia – che non siamo figli soltanto dei nostri genitori, non soltanto del nostro tempo e della nostra cultura, ma anche figli e figlie adottivi di Dio.

La Parola che si è incarnata - evento, decisione di Dio che abbiamo celebrato a Natale - si è fatta figlio di Dio per poter venire in mezzo a noi e rendere anche noi figli e figlie e dunque sorelle e fratelli. 

Dove cerchiamo noi Gesù? Dove lo troviamo? Lo troviamo laddove ci si mette in ascolto e in discussione intorno alla Parola di Dio, che ora però è lui stesso. E quando troviamo lui, troviamo anche il Padre suo e Padre nostro. Anzi: è lui che si è fatto carne e si è fatto figlio ed è venuto a cercare noi per conto del Padre suo e Padre nostro.