domenica 24 gennaio 2021
Predicazione di domenica 24 gennaio 2021 su Rut 1,1-19 a cura di Marco Gisola
domenica 17 gennaio 2021
Predicazione di domenica 17 gennaio 2021 su Giovanni 2,1-12 a cura di Marco Gisola
1 Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c’era la madre di Gesù. 2 E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. 3 Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 Gesù le disse: «Che c’è fra me e te, o donna? L’ora mia non è ancora venuta». 5 Sua madre disse ai servitori: «Fate tutto quel che vi dirà». 6 C’erano là sei recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei, i quali contenevano ciascuno due o tre misure. 7 Gesù disse loro: «Riempite d’acqua i recipienti». Ed essi li riempirono fino all’orlo. 8 Poi disse loro: «Adesso attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. 9 Quando il maestro di tavola ebbe assaggiato l’acqua che era diventata vino (egli non ne conosceva la provenienza, ma la sapevano bene i servitori che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: 10 «Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora». 11 Gesù fece questo primo dei suoi segni miracolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui. 12 Dopo questo, scese a Capernaum egli con sua madre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli, e rimasero là alcuni giorni.
Manca qualcosa. Questa è la situazione iniziale che ci presenta il racconto del miracolo che Gesù compie ad una festa di nozze, in un villaggio della Galilea di nome Cana. Manca qualcosa, la cui mancanza può rovinare la festa, perché una festa di nozze in cui il vino finisce prima che la festa sia terminata è un fallimento, o almeno una figuraccia.
Manca qualcosa, manca il vino della festa e Gesù interviene e trasforma l’acqua in vino. Ora il vino c’è, è abbondante, anzi abbondantissimo si parla di una quantità che va dai 500 ai 700 litri! Ed è pure molto buono.
Ma come – potrebbe dire qualcuno – Gesù usa la sua capacità di compiere miracoli per non far mancare il vino ad una festa? Diventando magari complice dell’ubriacatura di qualche invitato che aveva già bevuto un po’ troppo? Con tutti i problemi che ci sono, dalla pandemia, all’ingiustizia economica, ai disastri ambientali… Gesù si occupa di vino?
Questa domanda in fondo ce la facciamo tutti noi. Un miracolo per trasformare dell’acqua in vino ci sembra quasi un miracolo sprecato. Comprendiamo molto meglio le guarigioni, la moltiplicazione dei pani…
“Avviciniamoci” allora un po’ al racconto...
Giovanni ci dice che questo è il primo dei «segni miracolosi» che Gesù compie. Nel testo greco la parola «miracolosi» non c’è, l’evangelista Giovanni chiama le opere prodigiose di Gesù semplicemente “segni”.
Che cosa fa un segno? Un segno segnala, indica, i segni che Gesù compie nel vangelo di Giovanni - più ancora che nei sinottici - vogliono indicarci, dirci chi è Gesù; in una parola: vogliono rivelare. I segni rivelano chi è Gesù.
E che cosa rivela questo segno? Rivela, come tutti i segni che incontriamo nel vangelo, che Gesù è il figlio di Dio. E rivela – per dirla con le parole che usa Gesù stesso sempre in Giovanni (10,10) - che Gesù è venuto perché coloro che credono in lui «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Non abbondanza di vino (che è anch’esso solo un segno) ma abbondanza di vita, abbondanza di gioia, abbondanza di speranza, abbondanza di perdono… Abbondanza, non solo un po’, non solo un po’ di vita, non solo un po’ di gioia, non solo un po’ di speranza, non solo un po’ di perdono!
Abbondanza di ciò che ci manca, che non possiamo fabbricarci o comperarci; abbondanza di ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. Questo ci porta Gesù e di questo è segno il vino della festa delle nozze di Cana.
Giovanni, come abbiamo già detto, dice che questo è il primo segno che Gesù compie, ma si potrebbe anche tradurre con “l’inizio” dei segni. Gli altri segni ci vengono raccontati nei capitoli successivi, ma possiamo chiederci: se questo è il primo segno, quale sarà l’ultimo? Se questo è l’inizio quale sarà la fine dei segni?
L’ultimo segno rivelatore, ovvero che ci rivela che Gesù è il figlio di Dio, inviato dal Padre per rivelare la sua volontà, sarà la croce; la fine dei segni è la fine della vita terrena di Gesù. Ma questa fine per Giovanni non è fine, è compimento: Gesù infatti morendo dirà: «è compiuto».
Quello che umanamente è il punto più basso della vita di Gesù – più basso come sofferenza, abbandono, crudeltà – è interpretato da Giovanni come il punto più alto del ministero terreno di Gesù.
Giovanni infatti chiama la crocifissione “innalzamento”, oppure la chiama “glorificazione”. E anche attraverso il segno compiuto alle nozze di Cana Gesù «manifestò la sua gloria». Lo scopo del segno – dei segni – che Gesù compie è duplice: donare vita e gioia e speranza in abbondanza a chi li riceve e manifestare la sua gloria.
Che questo segno guardi lontano, guardi alla croce lo mostra anche il breve dialogo tra Gesù e Maria: la prima parte del dialogo è molto enigmatico, non è chiaro che cosa Maria voglia chiedere a Gesù con la frase «non hanno più vino» e non è chiara la risposta di Gesù: «Che c’è fra me e te, o donna?», che non è una parola scortese, ma è senz’altro una presa di distanza.
Anche la parola «donna» non è dispregiativa come potrebbe suonare oggi alle nostre orecchie; Gesù chiamerà Maria «donna» anche nel bellissimo gesto che compirà sulla croce quando affiderà a Maria il discepolo prediletto e affiderà Maria al discepolo prediletto, una sorta di adozione reciproca.
Gesù chiama Maria «donna» e non la chiama “madre”. Una possibile significato di questo è che Gesù tratti Maria non da madre, bensì da discepola. Potrebbe voler dire: non rivolgerti a me come una madre fa col proprio figlio, ma come una discepola con il suo Signore.
E Maria infatti si comporta da discepola, nel senso che si fida, ha fiducia che nonostante la sua strana risposta, Gesù farà qualcosa. Inoltre, la conclusione del nostro brano ci dice che Maria va con Gesù, i suoi fratelli e i suoi discepoli; Giovanni inserisce cioè Maria e i fratelli di Gesù nel gruppo dei discepoli.
Più chiara è la frase di Gesù «L’ora mia non è ancora venuta». L’ «ora», nel vangelo di Giovanni è il culmine della missione di Gesù che sarà appunto la passione e la croce. L’ «ora» saranno gli ultimi giorni e ultimi istanti della vita di Gesù, che culminano con quella che - abbiamo detto – Giovanni chiama la glorificazione.
Gesù vuol dire che non è ancora giunto il momento di manifestarsi come lo farà nella sua passione. Maria, qualunque cosa abbia capito della risposta di Gesù, si mostra fiduciosa che Gesù qualcosa farà e chiede ai servi di fare tutto ciò che Gesù dirà loro.
E dunque una manifestazione avviene. Gesù non compie gesti spettacolari, non crea ma trasforma. Trasforma acqua in vino, trasforma qualcosa di comune e quotidiano in qualcosa di straordinario e festoso. Anche il vino è carico di significati simbolici, in alcuni profeti l’abbondanza di vino fa parte dei racconti dei tempi messianici quando Dio viene e porta pace, gioia e abbondanza, anche di vino.
E l’abbondanza è davvero straordinaria, si parla di più di 500 litri di vino che arrivano alla fine – non all’inizio - della festa. E vino molto buono, tanto che si guadagna le lodi del maestro di tavola, che era uno dei servi che organizzavano il banchetto nuziale.
Il miracolo non sembra essere evidente a tutti. Il maestro di tavola non sa che nelle giare prima c’era semplice acqua e infatti diventa il miglior testimone (inconsapevole) del miracolo, e tanto più attendile quanto più inconsapevole. Non è ancora l’ «ora» che tutti sappiano.
Lo sanno solo i servi, che però non prendono parola, e i discepoli, che capiscono che attraverso questo segno si è manifestata la gloria di Gesù. E credono in lui.
A questo serve il segno, questo il suo obiettivo: la fede. Non certo solo a far bere del buon vino agli invitati alle nozze di Cana.
Chi sperimenta l’abbondanza di doni, l’abbondanza di grazia, di vita e di gioia che Gesù porta a chi lo incontra, si affida a lui, crede.
Mancava qualcosa alla festa di nozze di Cana e Gesù è intervenuto per trasformare la mancanza in abbondanza.
Manca qualcosa anche nella nostra vita, sempre alle prese con difficoltà, limiti, incomprensioni… alla nostra vita mancano molte cose, è incompleta, imperfetta…, manca misericordia, manca a volte anche solo la chiarezza e la comprensione reciproca tra sorelle e fratelli…
Il “mancare” di qualcosa è caratteristica ineliminabile della nostra umanità ed è anche conseguenza del nostro peccato.
Non potremmo essere cristiani se non fossimo consapevoli di questo, e se d’altra parte, non fossimo consapevoli che Gesù è venuto proprio per questo, per trasformare la nostra cronica mancanza attraverso l’abbondanza dei suoi doni.
Non potremmo essere cristiani se non sapessimo che ci manca qualcosa e se non sapessimo che ciò che ci manca ci è donato in Cristo, non come possesso ma appunto come dono -
Gioire di questo dono come gli invitati alle nozze di Cana hanno gioito del vino buono; gioire e credere, come hanno fatto i discepoli, del dono della grazia, della gioia e della speranza che ci sono donate in Cristo è ciò che ci invita a fare questa parola di oggi.
Ciò che ci manca possiamo metterlo nelle mani di Gesù e affidarlo alla sua grazia che trasforma e che abbonda.
domenica 10 gennaio 2021
Predicazione di domenica 10 gennaio 2021 su Isaia 60,1-6 a cura di Marco Gisola
Domenica 10 gennaio 2021 - Epifania
Isaia 60, 1-6
«Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del SIGNORE è spuntata sopra di te!
Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli;
ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te.
Le nazioni cammineranno alla tua luce, i re allo splendore della tua aurora.
Alza gli occhi e guàrdati attorno; tutti si radunano e vengono da te;
i tuoi figli giungono da lontano, arrivano le tue figlie, portate in braccio.
Allora guarderai e sarai raggiante, il tuo cuore palpiterà forte e si allargherà,
poiché l’abbondanza del mare si volgerà verso di te, la ricchezza delle nazioni verrà da te.
Una moltitudine di cammelli ti coprirà, dromedari di Madian e di Efa;
quelli di Seba verranno tutti, portando oro e incenso, e proclamando le lodi del SIGNORE.
«La tua luce è giunta, e la gloria del SIGNORE è spuntata sopra di te!». Le tenebre sono finite, sta spuntando una luce, anzi è spuntata, è spuntata sopra di te, per te, per illuminare la tua vita. La luce è il segno, il simbolo di questa domenica in cui ricordiamo l’epifania, ovvero la manifestazione (l’epifania significa manifestazione) di Gesù agli stranieri, simboleggiata dalla visita dei magi.
Questi stranissimi personaggi, studiosi degli astri, quindi pagani, e dunque lontani, sia geograficamente dalla terra di Palestina, sia spiritualmente dalla fede di Israele. Lontani, eppure vicini, perché avvicinati da Dio, portati vicini da Dio che li va a chiamare parlando la loro lingua, quella delle stelle.
Vengono ad adorare, a portare doni, e se ne vanno come se ne erano venuti, senza fare rumore, senza dare nell’occhio. E disobbedendo al re Erode che voleva essere informato sul “re” che sapeva che doveva nascere, i magi fanno un’altra strada e non passano da lui.
Una luce che illumina chi non sapeva nulla di Dio, ma che viene illuminato e portato, accompagnato fino a Betlemme dove vedono e adorano.
Come accadrà poi dopo la resurrezione di Gesù, quando l’annuncio dall’evangelo arriverà ai pagani grazie al lavoro instancabile dell’apostolo Paolo e di tutti i suoi compagni nell’apostolato e che farà sì che l’autore della lettera agli Efesini possa scrivere quello che abbiamo ascoltato, cioè che «gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo» (Efesini 3,6).
Il testo che il nostro lezionario indica quest’anno per l’Epifania è un brano del profeta Isaia, che riguarda anch’esso tutti i popoli del mondo. Proprio come i magi vennero da lontano fino a Betlemme per adorare Gesù e portarono in dono oro, incenso e mirra, i popoli della terra, in questa profezia di Isaia, vengono a Gerusalemme per adorare il Dio d’Israele e portano in dono oro e incenso.
I popoli della terra vengono a Gerusalemme perché qui avviene una ‘epifania’, cioè il Signore, il Dio d’Israele e dell’universo, si manifesta in Gerusalemme e tutti i popoli accorrono a lui.
Quando queste parole vengono pronunciate da Isaia, il popolo d’Israele è appena ritornato dall’esilio in Babilonia. Anzi, a dire il vero non sono ancora nemmeno ritornati tutti coloro che erano stati deportati, e si attende ancora il ritorno di molti esiliati.
Il testo preannuncia il loro ritorno quando dice che i figli e le figlie – intesi come figli e figlie di Gerusalemme – torneranno da lontano.
È dunque per Israele un tempo di miseria e di fatica, di ricostruzione, dei villaggi, ma anche del tempio di Dio che era stato distrutto dai Babilonesi. È un tempo di fatica e di tristezza, perché sono sì tornati in patria, ma hanno davanti a loro le macerie materiali e spirituali per cui tutto è da ricostruire.
Potremmo dire che gli Israeliti – o alcuni di loro – sono sì tornati a casa ma sono ancora nelle tenebre, che impediscono loro di vedere il futuro.
In queste tenebre di stanchezza e di rassegnazione Isaia proclama la sua profezia di luce, che annuncia non solo il ritorno di tutti gli esiliati, non solo benessere e sicurezza, ma annuncia anche il pellegrinaggio di tutti i popoli a Gerusalemme.
I popoli pagani non solo non saranno più nemici di Israele, non solo non lo metteranno più in pericolo e non lo domineranno più, ma verranno in pellegrinaggio a Gerusalemme che diventerà il centro del mondo, luogo in cui tutti i re della terra verranno a inchinarsi davanti al Dio d’Israele e a portare doni.
Il testo usa immagini bellissime: le porte della città, che solitamente di notte vengono chiuse per evitare che entrino ospiti indesiderati, rimarranno aperte giorno e notte, tanti saranno i re che verranno a Gerusalemme e i doni e le ricchezze che essi porteranno da tutti i luoghi.
La profezia annuncia anche la giustizia e la pace: “Io ti darò per magistrato la pace, per governatore la giustizia. Non si udrà più parlare di violenza nel tuo paese, di devastazione e di rovina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: Salvezza, e le tue porte: Lode” (v. 18).
Questo è l’annuncio luminoso che Isaia è chiamato a portare ai primi Israeliti che ritornano a Gerusalemme: «Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te! Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te».
La luce non è solo una bella immagine, la luce è ciò che letteralmente permette di vedere ciò che al buio non si vede. La luce dunque rivela, mostra ciò che era nascosto. È appunto una “epifania”, una manifestazione di ciò che non è manifesto.
A Israele rivela e annuncia il regno di giustizia e di pace che Israele ancora non può vedere, annuncia il fatto che i popoli verranno in pellegrinaggio a Gerusalemme portando doni, che verranno dunque in pace e non più per conquistare e distruggere come era accaduto qualche decennio prima.
Agli stranieri, ai pagani rappresentati dai magi d’oriente, la luce di Dio rivela quello che non avrebbero mai potuto vedere e nemmeno immaginare: che a Betlemme è nato il re dei Giudei e che questo re si trova in una mangiatoria e non nel palazzo della capitale Gerusalemme dove in un primo tempo i magi erano andati a cercarlo.
La luce di Dio rivela che il re è proprio quel bambino indifeso che i magi incontrano, e questo fatto va “rivelato”, cioè è necessario che sia Dio a dircelo affinché noi possiamo crederlo, perché questo annuncio va contro ogni evidenza. Solo la luce di Dio può fare questo.
Solo la luce di Dio che risplende la mattina di Pasqua farà credere ai discepoli e alle discepole di Gesù che il crocifisso era davvero il figlio di Dio, perché anche la croce andava contro tutte le evidenze.
Quando la luce di Dio risplende c’è gioia, c’è dono (oro, incenso e mirra), c’è la forza di mettersi in cammino per un lungo viaggio come quello dei magi, c’è speranza. Quando la luce di Dio risplende c’è giustizia e c’è pace.
Quando la luce di Dio risplende riconosciamo, come i magi, in Cristo il nostro re e Signore e in lui troviamo gioia, doni, forza, speranza e possiamo cercare e lavorare per la giustizia e la pace.
E come dice Isaia poche righe più avanti: «Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno; e non più la luna t’illuminerà con il suo chiarore; ma il SIGNORE sarà la tua luce perenne, il tuo Dio sarà la tua gloria. Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più; poiché il SIGNORE sarà la tua luce perenne...».
Luce perenne per la nostra fede e per la nostra speranza è il Signore, luce che irrompe nelle tenebre e le scaccia via.
Ed ancora una cosa ci dicono questo brano e il racconto dei magi, questi – dicevamo – strani personaggi che con Israele e la sua fede non c’entrano nulla. Ci dice che Gesù è venuto anche per gli altri. Gesù è venuto anche per altri, non solo per noi. Come non è venuto soltanto per il suo popolo, ma anche per i pagani, anche per i magi.
Questa di Isaia non è l’unica profezia dell’Antico Testamento che parla del cosiddetto pellegrinaggio delle nazioni a Gerusalemme, ce ne sono anche altre. È la realizzazione della promessa che Dio aveva fatto ad Abramo.
E il racconto dei magi racconta il compimento di queste profezie in Cristo. Anche altri vengono a Gesù. Non solo Israele. E questo vale anche per noi: anche altri vengono a Gesù, o meglio anche da altri va la luce di Gesù, la luce di Dio che fa riconoscere in Gesù il suo figlio e nostro Signore.
La grazia del Signore ha fatto sì che tra questi “altri” ci fossimo anche noi. Anche su di noi è spuntata la luce del Signore, anche per noi la sua gloria e la sua grazia si sono manifestate in Cristo.
Anche noi possiamo allora gioire e lodare il Signore che continua a manifestarsi nella sua parola e a illuminare le nostre vite.
domenica 3 gennaio 2021
Predicazione di domenica 3 gennaio 2021 su Luca 2,41-52 a cura di Marco Gisola
Luca 2,41-52
41 I suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42 Quando giunse all'età di dodici anni, salirono a Gerusalemme, secondo l'usanza della festa; 43 passati i giorni della festa, mentre tornavano, il bambino Gesù rimase in Gerusalemme all'insaputa dei genitori; 44 i quali, pensando che egli fosse nella comitiva, camminarono una giornata, poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45 e, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme cercandolo. 46 Tre giorni dopo lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri: li ascoltava e faceva loro delle domande; 47 e tutti quelli che l'udivano, si stupivano del suo senno e delle sue risposte. 48 Quando i suoi genitori lo videro, rimasero stupiti; e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». 49 Ed egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?» 50 Ed essi non capirono le parole che egli aveva dette loro. 51 Poi discese con loro, andò a Nazaret, e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 52 E Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini.
«Perché mi cercavate?» è la prima parola che Gesù pronuncia nel vangelo di Luca. Perché mi cercavate nel posto sbagliato? - potremmo aggiungere interpretando le parole di Gesù. Il posto giusto, sembra dire Gesù ai suoi genitori, quello in cui devo – e Gesù sottolinea “devo” - stare non è con voi, ma con il «Padre mio».
Luca è l’unico vangelo che ci narra questo episodio di un Gesù, come diremmo oggi, preadolescente che risponde ai suoi genitori che lo rimproverano. Ma nella cultura ebraica a dodici anni non si è preadolescenti o adolescenti, ma si è quasi adulti, perché a tredici anni si diventava adulti.
Ancora oggi nelle comunità ebraiche a tredici anni i maschi e dodici anni le femmine, “sono obbligati a seguire i comandamenti e sono ritenute persone moralmente responsabili delle proprie azioni. I ragazzi contano ora come membri del gruppo di dieci persone, il Minyan, richiesto per celebrare il culto. Essi possono inoltre guidare le liturgie e leggere la Torah” (dal sito della comunità ebraica di Bologna).
Che Gesù fosse già ufficialmente adulto oppure no, non cambia molto: non è più un bambino, quello che per noi è un ragazzino, per la Torah è (quasi) un adulto, cioè è responsabile di quello che fa ed è responsabile di seguire i comandamenti. In ebraico si dice che si diventa “Bar-Mitzvah” o “Bat-Mitzvah”, cioè figlio o figlia del comandamento.
E Gesù di chi è figlio? Questa è la grande questione posta da questo brano, che conclude il cosiddetto “vangelo dell’infanzia” di Luca.
Alla domanda di una Maria spaventata e angosciata, e anche un po’ arrabbiata, come lo sarebbero tutti i genitori che hanno smarrito un figlio, Gesù risponde in modo che a prima vista potremmo giudicare un po’ impertinente: «Perché mi cercavate?».
Ma la domanda di Gesù non è quella di un ragazzino impertinente, bensì quella di chi pone la questione di chi sia figlio: figlio di Giuseppe o figlio di Dio?
Avrete notato che sia in questo brano che in quello di domenica scorsa, Luca parla tranquillamente di Giuseppe e Maria come dei genitori di Gesù e che qui Maria usa il termine “tuo padre” riferito a Giuseppe: «Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». Luca parte dal presupposto che Giuseppe sia legalmente il padre di Gesù, che si sia assunto il ruolo e compito di padre a tutti gli effetti.
E Luca fa parlare Maria, anche perché vuole sottolineare il contrasto tra “tuo padre” – «tuo padre ed io ti cercavamo… » - e la risposta di Gesù «non sapevate che dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?».
Due dettagli su questa frase: il primo è che “nella casa del Padre mio» non è l’unica traduzione possibile: il testo dice letteralmente “nelle del padre mio”; potremmo dire “nelle cose del padre mio”, che è un modo di dire che può avere sia significato di luogo, e dunque “luogo” o “casa”, ma anche un significato meno materiale.
La risposta di Gesù, per semplificare, significa: dovevo stare con mio padre. Ovviamente Dio non è solo nel tempio, lo sapevano bene anche gli ebrei del tempo di Gesù. Ma lì nel tempio, quando chiese a Salomone di costruirgli una casa, aveva deciso di far abitare il proprio nome.
Lì avveniva il culto sacrificale, ma come leggiamo qui, nel tempio, o meglio in uno dei suoi cortili, si leggeva e si discuteva sulla Torah, sulla Parola di Dio. Anche i primi cristiani si troveranno nel tempio, nel cosiddetto portico di Salomone (Atti 3,11; 5,12)
Gesù viene trovato seduto in mezzo ai maestri, li ascolta e li interroga, non fa il saccente, non è presentato come maestro dei maestri, ma come uno di loro, solo che non ha fatto alcuna scuola rabbinica e ha solo 12 anni! Tutti stupiscono della sua sapienza.
Questo racconto vuole mostrare il legame particolare di Gesù con il Padre con la “P” maiuscola, vuole cioè mostrare che Gesù è il figlio di Dio.
Ma mentre i vangeli cosiddetti apocrifi (quegli scritti che parlano di Gesù e che non fanno parte del NT) raccontano di miracoli compiuti da Gesù durante la sua infanzia e giovinezza, il vangelo di Luca è molto sobrio.
Il fatto che Gesù è figlio di Dio lo si vede non da atti o eventi spettacolari, ma dal fatto che Gesù ha una sapienza particolare riguardo alla volontà di Dio; e questa sua sapienza la usa per discutere con i maestri della Torah. È sulla Torah che Gesù dialoga, su quella che noi chiameremmo la Parola di Dio, e lo fa senza arroganza, ma discutendo e interrogando i sapienti di Israele.
Notiamo anche che il vangelo dell’infanzia di Luca ci vuole mostrare una accoglienza benevola verso Gesù da parte di Israele: a partire da Zaccaria, un sacerdote che loda il messia prima che nasca; e poi i pastori, ebrei considerati impuri a causa del loro lavoro; Simeone e Anna, anziani che vivono in attesa del messia e che profetizzano riconoscendo in Gesù il messia venuto; e ora i maestri di Israele, con cui Gesù discute.
E invece Giuseppe e Maria «non capirono le parole che egli [Gesù] aveva dette loro». Forse possiamo riconoscere un po’ noi stessi in Giuseppe e Maria, anche noi spesso non capiamo ciò che Gesù vuole dirci, non lo capiamo fino in fondo.
Eppure Giuseppe e Maria erano quelli che erano più vicini a Gesù; a parte Zaccaria e Elisabetta, e Simeone e Anna di cui abbiamo parlato l’altra volta, erano gli unici a sapere che Gesù aveva un compito particolare datogli da Dio, c’era stato l’annuncio dell’angelo a Maria e tutto il resto. Ma lo stesso non riescono a comprenderlo o ad accettarlo.
Perché non è una cosa ovvia o scontata da accettare, nemmeno per i suoi genitori, nemmeno per quelli che gli sono più vicini. Spesso sono proprio i più vicini a non comprendere. Proprio come noi.
Possiamo dunque identificarci con Giuseppe e Maria, e da Maria riceviamo anche un insegnamento: come già era stato detto dopo la visita dei pastori, Maria «serbava tutte queste cose nel suo cuore».
Calvino commenta così questo fatto: “Maria serbava nel suo cuore le cose che il suo spirito non poteva ancora comprendere; impariamo da qui a ricevere con rispetto i misteri di Dio che superano la capacità del nostro spirito e a conservarli con cura nel nostro cuore, così come il seme si nutre nel mentre che è nascosto nella terra”.
Lasciamo cioè che anche ciò che non comprendiamo dell’evangelo lavori dentro di noi come un seme sotto terra; non respingiamo ciò che non comprendiamo, ma conserviamolo nella nostra mente e nel nostro cuore, perché lo Spirito di Dio può agire anche attraverso ciò non comprendiamo del tutto.
Alla fine del racconto Gesù torna a Nazaret e rimane sottomesso ai suoi genitori. Sottomesso come era previsto dalla Torah, ai genitori si doveva rispetto e onore. Questo episodio è solo un’anticipazione di quello che Gesù sarà, farà e dirà. Ma per ora Gesù ritorna nel suo ruolo di figlio di Giuseppe e Maria. È figlio di Dio, ma poiché ha accettato di prendere la nostra umanità su di sé, ora vive tutta questa umanità, vive anche il suo umanissimo ruolo di figlio di Giuseppe e Maria e sta con i suoi genitori.
Non era ancora giunto il momento di rivelare a tutti che lui è il figlio di Dio. Ci vorranno ancora quasi vent’anni perché Gesù inizi il suo ministero. Per ora, per i più è ancora uno sconosciuto, un ragazzo/uomo come tanti altri. Questo episodio è stato una anticipazione di ciò che sarà.
Dunque Gesù è figlio di Dio, questo ci vuole dire questo testo; e le sue strade, vent’anni dopo, saranno altre e diverse rispetto a quelle di qualunque altro giovane uomo ebreo suo contemporaneo e lo porteranno lontano dalla famiglia che lo ha cresciuto. Per ora, è ancora nascosto, non è evidente, ma Gesù è il figlio di Dio.
E noi di chi siamo figli? Non in senso biologico ovviamente, quello lo sappiamo. Siamo figli del nostro tempo, della nostra cultura, come si usa dire? Sì certo, lo siamo, perché siamo nati e cresciuti in un luogo e in un contesto ben definiti.
Ma oltre a questo, oltre a tutto ciò che di umano, culturale e sociale ci determina, in Gesù siamo suoi fratelli e sue sorelle e dunque anche noi figli e figlie di Dio, figli e figlie adottivi, come dice l’apostolo Paolo, nel senso di fatti diventare figli e figlie, appunto, in e attraverso Gesù.
E infatti Gesù userà con i suoi discepoli l’espressione «padre vostro», parlando del padre suo. È grazie a Gesù – e dunque per grazia – che non siamo figli soltanto dei nostri genitori, non soltanto del nostro tempo e della nostra cultura, ma anche figli e figlie adottivi di Dio.
La Parola che si è incarnata - evento, decisione di Dio che abbiamo celebrato a Natale - si è fatta figlio di Dio per poter venire in mezzo a noi e rendere anche noi figli e figlie e dunque sorelle e fratelli.
Dove cerchiamo noi Gesù? Dove lo troviamo? Lo troviamo laddove ci si mette in ascolto e in discussione intorno alla Parola di Dio, che ora però è lui stesso. E quando troviamo lui, troviamo anche il Padre suo e Padre nostro. Anzi: è lui che si è fatto carne e si è fatto figlio ed è venuto a cercare noi per conto del Padre suo e Padre nostro.