lunedì 31 agosto 2020

Predicazione di domenica 30 agosto su Giovanni 18,33-38 a cura di Pietro Magliola

Predicazione tenuta in italiano a Biella al culto al mattino e in piemontese al culto pomeridiano a Piedicavallo


Giovanni 18,33-39


33 Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?» 34 Gesù gli rispose: «Dici questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?» 35 Pilato gli rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i capi dei sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani; che cosa hai fatto?» 36 Gesù rispose: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui». 37 Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». 38 Pilato gli disse: «Che cos'è verità?»



Verità: ciò che è vero, in assoluto o relativamente a determinati fatti.

E’ questa la definizione che viene data dal dizionario Garzanti della lingua italiana.

L’evengelista Giovanni utilizza molte volte, molto più degli altri evangelisti, questa parola, in un’accezione molto diversa dalla definizione che abbiamo appena sentito.

In Giovanni, ci dice il dizionario biblico della Claudiana, la verità occupa un posto importantissimo.

Fin dal prologo, la verità è venuta nel mondo per mezzo di Gesù, il quale è venuto per rendere testimonianza alla verità. Egli stesso è la verità.

Se i discepoli persevereranno nella sua parola, conosceranno la verità, e questa darà loro la libertà, la libertà dal peccato.

Dopo che Gesù sarà tornato al Padre, la verità non cesserà di essere presente con i discepoli, lo spirito di verità sarà con loro in perpetuo.

Giovanni dà quindi una definizione teologica di verità.

Possiamo dire che la verità, per Giovanni, è la relaziona giusta con Gesù e con il Padre.

Il Padre è la verità, e il Figlio è venuto nel mondo per testimoniare della verità.

Non solo. Il Figlio stesso è la verità. Ed essendo la verità proprio come lo è il Padre, è anche la via e la vita; la via per conoscere il Padre, ed avere così la vita eterna.

La verità può essere conosciuta soltanto attraverso il Figlio, non altrimenti. Questa conoscenza deriva dalla parola. Anche qui possiamo intendere in due modi complementari “parola” : la parola predicata, annunciata, trasferita poi nella scrittura, e la Parola, cioè Gesù stesso.

E in questa parola è necessario perseverare, per conoscere la verità. Non si tratta di avere una conoscenza graduale e a tappe, oggi so qualcosa e domani qualcosa di più; conoscere vuol dire avere un rapporto intimo, fermo e costante.

Non si può mantenere la fede senza questo rapporto, magari aspettando o cercando qualche nuova rivelazione o insegnamento, qualche nuova dottrina nascosta.

Gesù Cristo ha rivelato pienamente e definitivamente la verità e lo Spirito, Spirito di verità, “prenderà del mio e ve lo annunzierà”.

L’approfondimento della fede, la ricerca teologica sono certamente cose buone e utili, a patto però, che abbiano come base e fondamento la verità così come rivelata dal Signore.

Perseverando nella fede i discepoli saranno liberi dal peccato, cioè non avranno altri riferimenti per la loro vita al di fuori di Dio, non seguiranno altri idoli, idoli che promettono sempre una maggiore libertà ma che, in effetti, riducono l’uomo in schiavitù.

Gesù ha testimoniato in tutta la sua vita la verità, e non ha mancato di farlo neppure davanti al procuratore romano Ponzio Pilato, quando è dovuto comparire davanti a lui per essere processato. Anche in questo frangente Gesù ha, come abbiamo sentito nel brano della lettera a Timoteo, reso una bella confessione di fede.

Fatte queste premesse, possiamo chiederci: la domanda di Pilato “che cos’è verità?” è veramente, come sostengono alcuni, la domanda fondamentale dell’uomo? E’ veramente la questione dalla quale nessuno può prescindere?

Ho parecchi dubbi in proposito.

Prima di tutto, non credo che esista l’uomo assetato di verità e di infinito, alla perenne ricerca di Dio. Penso che questa generalizzazione, vecchia quanto il mondo e pervenuta a noi tramite l’illuminismo, dapprima, e poi il romanticismo, sia priva di fondamento.

Ritengo che la maggioranza degli esseri umani non si ponga questi problemi, ma sia attenta piuttosto all’oggi, senza farsi tante domande.

In secondo luogo, ritengo che porre la domanda in questi termini rischi di ridurre Gesù a colui che può dare un senso alla nostra vita; non che questo non sia vero, per carità, ma bisogna per l’appunto evitare la “riduzione”: Gesù è molto di più, è colui che rivela il Padre e la sua volontà salvifica, molto di più del puro e semplice senso della vita.

La domanda di Pilato assomiglia di più alla domanda dell’uomo che, pur avendo davanti a sé la verità, non la riconosce, che è scettico sulla possibilità stessa che esista una verità.

Per quest’uomo, sentir parlare di un regno non di questa terra, di un re che non pretende di comandare ma che viene a testimoniare la verità, è un non senso, una perdita di tempo. Non vale nemmeno la pena di stare lì ad ascoltare: Molto più facile liquidarlo e farlo fuori senza troppe preoccupazioni.

Per noi cristiani, che abbiamo avuto la grazia di ricevere la Parola e di perseverare, bene o male, con tutti i nostri difetti e i nostri pregi, in essa, la domanda di Pilato “che cos’è verità?” è semplicemente mal posta.

La verità non è qualcosa, ma qualcuno, e questo qualcuno ha parlato una volta per tutte, e continua a parlarci per mezzo della scrittura e della predicazione della Sua chiesa.

Chiediamo la grazia di continuare a perseverare in questa parola, per giungere alla conoscenza della verità.

domenica 23 agosto 2020

Predicazione di domenica 23 agosto su 1 Corinzi 3,9-17 a cura di Marco Gisola

 

1 Corinzi 3,9-17

Noi siamo infatti collaboratori di Dio, voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio.
Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come esperto architetto, ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra. Ma ciascuno badi a come vi costruisce sopra;  poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù.  Ora, se uno costruisce su questo fondamento con oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia,  l’opera di ognuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la renderà visibile; poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e il fuoco proverà quale sia l'opera di ciascuno. Se l'opera che uno ha costruita sul fondamento rimane, egli ne riceverà ricompensa; se l'opera sua sarà arsa, egli ne avrà il danno; ma egli stesso sarà salvo; però come attraverso il fuoco.
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.



Collaboratori di Dio. Così Paolo chiama i predicatori che operano a Corinto, tra cui include anche se stesso, in questa lettera sofferta. Sofferta perché questi predicatori, che dovrebbero istruire la chiesa di Corinto mentre lui è lontano, stanno lavorando male, perché stanno lavorando per loro stessi e non per la comunità. Queste parole di Paolo vengono subito dopo una dura critica alle divisioni che ci sono nella chiesa di Corinto: «… uno dice: «Io sono di Paolo»; e un altro: «Io sono d'Apollo» … Che cos'è dunque Apollo? E che cos'è Paolo? Sono servitori, per mezzo dei quali voi avete creduto». «Io ho piantato [scrive Paolo, infatti era stato lui il fondatore della comunità; il fondatore, ma non il fondamento!], «Io ho piantato Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere; quindi colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla: Dio fa crescere!»

Faremmo un grosso errore se leggessimo la parola «collaboratori» con orgoglio, con presunzione, come se fosse un privilegio o un onore; faremmo un grosso errore se leggessimo la parola «collaboratori» dimenticando la parola che Paolo ha scritto poco prima, cioè «servitori». L’immagine che Paolo usa del campo di Dio è eloquente: è essenziale che qualcuno pianti e qualcuno innaffi, ma chi sia a fare questo è assolutamente secondario: è Dio che fa crescere, perché il campo è di Dio, la chiesa, la comunità dei credenti è di Dio, non dei predicatori. Non è nemmeno del fondatore: Paolo ha posto il fondamento, che è Cristo, e non poteva porre un altro fondamento perché da un altro fondamento non sarebbe sorta una chiesa cristiana, sarebbe sorto qualcos’altro, una comunità o un gruppo di tipo diverso, ma non una comunità cristiana. Il fondatore continua ad essere un collaboratore e servitore di Dio, come ogni predicatore. Nulla di più.

Questa affermazione di Paolo non a caso è il versetto del giorno della Riforma; se andate a vedere su “Un giorno una Parola” sotto la data del 31 ottobre c’è proprio questa frase «nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù». La polemica con il cattolicesimo è chiaramente il fatto che sembri che nella fede e nella spiritualità cattolica vi siano altri fondamenti, non al posto ma accanto a Gesù, quali Maria, i santi, ecc. Ma nel contesto della lettera di Paolo ovviamente la polemica non è – come diremmo oggi – confessionale, ma riguarda un tema e una tentazione molto presente anche oggi, nelle chiese e in tutti i raggruppamenti umani. È quello di cui parla all'inizio del capitolo e che ho già citato: «Io sono di Paolo», «Io sono d'Apollo»…

Mi sembra che il rischio che Paolo vede in questo atteggiamento è quello che il fondamento anziché essere solo e soltanto Cristo e il suo evangelo, sia la persona che lo annuncia. A Corinto c’e il gruppetto – passatemi l’espressione - dei “paolini” quello degli “apollini”, cioè chi apprezza e segue Paolo, chi apprezza e segue Apollo, e sono magari in contrasto tra di loro come due partiti opposti.

È quello che con una bruttissima parola si potrebbe definire oggi il “leaderismo”, il bisogno di un leader, di una guida, per non dire di un capo. La nostra chiesa ha molti antidoti per prevenire il leaderismo, ma non possiamo essere sicuri di esserne immuni. Gli antidoti sono il fatto che i pastori e le pastore stanno per un periodo non troppo lungo in una chiesa, il fatto che ogni decisione viene presa non da singoli ma da gruppi di persone che sono elette da un’assemblea, il fatto che qualunque compito si abbia lo si ha per un tempo e non per sempre.

Ma ciononostante, il rischio c’è. C’è il rischio che alcuni membri di chiesa vadano a simpatie (,“se c’è quel pastore/a o predicatore/predicatrice vado al culto se c’è quell’altro o quell’altra non ci vado…”) e c’è il rischio che pastori e pastore coltivino le loro simpatie. Il rischio c’è da entrambe le parti.

Ciò che Paolo è scrive è molto interessante: senza pensare che qualcuno voglia costruire su altri fondamenti, Paolo dice che sul fondamento già posto, che è Cristo, si può costruire bene oppure male. Sullo stesso fondamento, quello “giusto” (diciamo così) si può costruire bene o male. Paolo usa l’immagine del costruire e quando deve parlare dei materiali di costruzione va un po’ oltre la realtà e parla di «oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia», che non sono tutti materiali da costruzione comuni, ma Paolo usa queste materiali perché introduce poi l’immagine del fuoco che mette alla prova le varie materie prime. Alcune materie resistono al fuoco, altre – come chiaramente fieno e paglia – non resistono.

È possibile che, tornando sempre al contesto dell’inizio del discorso di Paolo, costruire male sia un riferimento alle divisioni, ai gruppetti che ci sono nella chiesa di Corinto. Chi costruisce, cioè chi predica Cristo, deve costruire la comunità, non ognuno la sua comunità, cioè il proprio gruppetto. Costruire è un compito di grande responsabilità, perché – dice Paolo alla chiesa di Corinto - «siete il tempio di Dio e … lo Spirito di Dio abita in voi». La chiesa è il tempio di Dio; ma non l’istituzione “Chiesa”, bensì la comunità dei credenti, perché è ai credenti che Dio ha dato il suo Spirito. L’istituzione è necessaria, è una forma organizzativa che cerca di essere coerente con l’evangelo anche nella sua organizzazione, ma sono i credenti raccolti nelle comunità che sono il tempio di Dio. Paolo si rivolge alla comunità locale di Corinto, comunità tutt’altro che perfetta, anzi Paolo è molto critico nei confronti di questa chiesa, non ha parole di lode per questa comunità, eppure, ciononostante essa è il tempio di Dio. E anche nelle sue parole di giudizio, Paolo distingue chiaramente tra il costruttore e la costruzione: «Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi». Chi guasta il tempio di Dio sarà guastato da Dio, ovvero Dio non permetterà che il suo tempio sia guastato, perché il tempio di Dio – i credenti, coloro che Dio ha scelto e chiamato a far parte della sua chiesa - è santo, è cioè appunto scelto da Dio e quindi è di Dio.

Sembra che questo discorso riguardi soltanto coloro che hanno un compito di predicazione o di istruzione all’interno della comunità, perché Paolo si rivolge a chi a Corinto è venuto dopo di lui e sta istruendo la comunità. Penso però che queste parole di Paolo valgano per tutti, perché tutti abbiamo un compito nella comunità, chi più istituzionale e chi meno, chi con un qualche incarico e chi no, ma tutti contribuiamo alla costruzione della chiesa e quindi del tempio di Dio. Tenere ben a mente che la comunità di cui si fa parte è il tempio di Dio è importante anche per chi non ha particolari ruoli dentro la chiesa (ma potrebbe un giorno averli...). La chiesa di Biella non è tua, non è nostra, è di Dio, è sua, è lui che l’ha creata. Qualcuno, circa un secolo e mezzo fa, ha fatto come Paolo a Corinto, è arrivato qui e ha posto il fondamento, Gesù Cristo, che alcuni hanno accolto e così facendo hanno costituito questa chiesa.

Da allora stiamo tutti cercando di continuare questa costruzione, ognuno con il suo compito, e ognuno sapendo che non costruiamo qualcosa di nostro, ma qualcosa che appartiene a Dio. Cerchiamo di costruire bene, con oro, argento e pietre di valore, con la predicazione dell’evangelo, con la catechesi, la cura pastorale, le relazioni con le altre chiese e con la società, nella consapevolezza che il fondamento è già posto, non siamo noi, non è la nostra storia, ma è Cristo Gesù e nient’altro.

Continuare a costruire bene su questo fondamento, con cura, con amore, nell’ascolto reciproco, con sincerità, con la voglia di scoprire ancora molte cose che l’evangelo ha da dirci qui ed ora è la sfida e il compito che Dio dona a tutti e tutte noi. Siamo tutti e tutte collaboratori e collaboratrici di Dio, nel senso di suoi servitori, impegnati a lavorare per costruire il suo tempio, che siamo noi stessi, quindi a costruire passo dopo passo la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore.

Nella responsabilità di costruire bene, con i materiali giusti, e nella certezza che il fondamento è già posto e nessuno lo può togliere, perché è Cristo Gesù.



domenica 16 agosto 2020

Predicazione di domenica 16 agosto 2020 (Domenica di Israele) su Romani 11,25-32 a cura di Marco Gisola

 

Romani 11,25-32

25 Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d'Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; 26 e tutto Israele sarà salvato, così come è scritto:
«
Il liberatore verrà da Sion.27 Egli allontanerà da Giacobbe l'empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati».
28 Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l'elezione, sono amati a causa dei loro padri; 29 perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili. 30 Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31 così anch'essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch'essi misericordia. 32 Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti.
33 Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie! 34 Infatti
«
chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato suo consigliere?
35 O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì da riceverne il contraccambio
36 Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen.



Il testo proposto per oggi è la conclusione del capitolo 11 della lettera ai Romani, che è anche la conclusione del lungo discorso che Paolo ha fatto nei capp. 9-11 sul rapporto tra Dio e Israele. Tre capitoli complessi e intensi che qui porta a conclusione.

1. Paolo inizia parlando di un «mistero» che non vuole che i cristiani di Roma ignorino; se quindi il mistero non deve essere ignorato, se cioè bisogna che si sappia in che cosa consiste, non è più un mistero, almeno secondo il nostro linguaggio comune. Una cosa misteriosa è per definizione una cosa che non si conosce e invece qui Paolo dice che vuole che i romani conoscano questo mistero.

Qualcuno ha quindi proposto che “mistero nel linguaggio dell’apostolo Paolo può equivalere a quello che noi chiamiamo paradosso” (Barth, L’epistola ai romani, Roma, Feltrinelli, 1962, p. 395). Il comportamento di Dio non è misterioso nel senso che è nascosto, ma è paradossale, cioè non è secondo logiche umane.

Il mistero, o paradosso, che Dio ha messo in atto è quello che Paolo descrive nella frase seguente: «un indurimento si è prodotto in una parte d’Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; e tutto Israele sarà salvato».

Paolo vuole spiegare perché non tutti gli ebrei hanno riconosciuto Gesù come messia di Israele mandato da Dio e hanno creduto in lui; la ragione è che si è prodotto un indurimento in una parte di Israele. In altri brani di questa lettera Paolo utilizza questa immagine dell’indurimento, che viene dall’Antico Testamento, e spesso dice chiaramente che Dio ha indurito il suo popolo.

Che cosa significa? Che Dio fa sì che qualcuno non creda o non obbedisca alla sua parola? Nel gruppo di studio biblico che stavamo portando avanti su questa lettera abbiamo detto più volte che l’interpretazione più probabile non è che Dio limiti la libertà dell’essere umano e gli faccia fare quello che vuole, ma al contrario, che Dio lascia l’essere umano libero, anche di prendere la strada sbagliata e non lo ferma.

Una parte di Israele non crede in Gesù e Dio lascia che sia così perché ha un obiettivo: questo accade «finché non sia entrata la totalità degli stranieri». Non è ben chiaro perché Paolo usi il verbo “entrare” e dove pensi che gli stranieri, cioè i pagani, debbano entrare, ma è comunque chiaro che il significato è che tutti i pagani prima o poi crederanno in Cristo.

Fino ad allora, e solo fino ad allora, c’è questo indurimento in Israele. Dopo, quando tutti i pagani avranno fede in Cristo, «tutto Israele sarà salvato». Secondo Paolo è questione di tempo, l’indurimento di Israele è temporaneo ed è funzionale a che tutti i pagani trovino la fede e poi tutto Israele sarà salvato.

Notate l’insistenza di Paolo sul “tutti”: la «totalità degli stranieri» e «tutto Israele», ovvero tutti gli esseri umani, perché allora l’umanità nella concezione ebraica si divideva in ebrei e pagani, che erano tutti gli altri.

Questo Paolo lo scrive ai cristiani di Roma che in prevalenza provenivano dal paganesimo, «affinché non siate presuntuosi», cioè in fondo affinché non pensiate – dice Paolo ai cristiani di Roma - che Dio ha scelto voi al posto degli ebrei.

Pensate quanto azzeccate sono state queste parole di Paolo, che ha previsto che cosa poteva accadere ed è accaduto: cioè che i cristiani provenienti dal paganesimo avessero sostituito Israele. Quanto azzeccate e quanto inascoltate sono rimaste queste parole dell’apostolo Paolo! E quanto presuntuosi i cristiani sono stati nei confronti di Israele.

Per dire questo Paolo inserisce due citazioni di due brani del profeta Isaia che hanno come tema il perdono; Paolo presenta quindi qui questo Dio paradossale, o Dio del paradosso, come il Dio che ha l’obiettivo di perdonare tutta l’umanità.

Un brano di Isaia viene un po’ modificato da Paolo, che scrive «Il liberatore verrà da Sion» anziché “per Sion”, ed è un chiaro riferimento a Gesù, che in Sion – cioè Gerusalemme – è morto e risorto.

C’è una interpretazione interessante del nostro fratello pastore Daniel Attinger, secondo cui quando Paolo usa il verbo entrare pensa che i pagani, credendo in Cristo, entrino così in Israele e che l’espressione «tutto Israele sarà salvato» si riferisca al nuovo Israele, composto dagli ebrei e dai pagani che hanno creduto in Cristo. In Cristo tutta l’umanità sarà Israele. Una interpretazione molto interessante che volevo condividere con voi.


2. Una frase di Paolo in questi versetti ha gettato, in questi ultimi settant’anni, una nuova luce sui rapporti tra la chiesa e Israele, quando Paolo dice che «i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili».

Come dicevamo prima, i cristiani hanno spesso pensato che Dio avesse invece revocato i suoi doni che aveva fatto a Israele e avesse rinnegato la vocazione che gli aveva rivolta fin dai tempi di Abramo.

Questo pensiero ha contribuito notevolmente alle persecuzioni di cui gli ebrei sono state vittime lungo i secoli e hanno aiutato a creare il clima che ha reso possibile la Shoah.

Invece no, Dio non revoca, non rinnega. Non ha abbandonato Israele, ma in Cristo ha voluto includere il resto dell’umanità. Anzi, se vogliamo, possiamo dire che in Cristo ha voluto realizzare la promessa che aveva fatto proprio ad Abramo di essere benedizione per tutte le nazioni.

È dunque importante che teniamo a mente questa affermazione riferita a Israele «i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili» ogni volta che pensiamo agli ebrei o parliamo di loro o con loro. Dio non li ha abbandonati perché la vocazione che ha loro rivolta non è venuta meno, e i doni che ha fatti a Israele non glieli ha tolti.



3. Al v. 32 Paolo parla poi della disubbidienza dei pagani ieri e di Israele oggi e della misericordia di Dio e scrive quella affermazione importante: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti».


Ecco il mistero e il paradosso del comportamento di Dio. Teniamo presente quello che abbiamo detto prima: Dio «ha rinchiuso tutti nella disubbidienza» non vuol dire che ci fa disobbedire, ma che Dio ci lascia disobbedire, ci lascia liberi e lascia che usiamo male la nostra libertà per disobbedire. Tutti, ebrei e pagani, come ha detto fin dall’inizio della sua lettera.

La disobbedienza è ciò che accomuna tutti gli esseri umani, tutta l’umanità. Ma è fondamentale come prosegue questa frase di Paolo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti». l’obiettivo di Dio è la sua misericordia, è fare misericordia a tutti, ebrei e pagani.

Tutti uguali nella disobbedienza ma sopratutto tutti uguali nella misericordia. Anche questo lo aveva già detto all’inizio della lettera quando ha scritto che «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio - ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù» (3,23-24).



Il «mistero» è dunque la grazia, che è paradossale ed è conseguenza della scelta di Dio di vincere in questo modo, e non in un altro, non con la punizione – la nostra disobbedienza, che invece non è un mistero, perché è sotto gli occhi di tutti. Ma la disobbedienza, dice Paolo, è per un tempo (anche se a noi questo tempo sembra troppo lungo…), mentre la grazia è per sempre.

Per questo Paolo conclude questa parte della sua lettera con un inno di gloria a Dio, i cui giudizi sono inscrutabili e le sue vie ininvestigabili.

Ma è invece rivelato l’obiettivo delle vie di Dio: «far misericordia a tutti». In questo “tutti” ci siamo sia noi, sia il nostro prossimo e non ci siamo noi senza il nostro prossimo. Per questo non c’è ragione di essere presuntuosi ma piuttosto pieni di gioia e gratitudine.

Possiamo dunque davvero anche noi, come Paolo, lodare Dio per tutto questo, e dire: a lui sia la gloria in eterno. Amen.

Predicazione di domenica 9 agosto 2020 su Geremia 1,4-10 a cura di Marco Gisola

La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni». Io risposi: «Ahimè, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono un ragazzo”, perché tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. Non li temere, perché io sono con te per liberarti», dice il Signore. Poi il Signore stese la mano e mi toccò la bocca; e il Signore mi disse: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca. Vedi, io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare».


Geremia
è un profeta fra quelli più importanti dell’Antico Testamento. È un profeta che opera in un momento difficile e che è andato a dire al popolo d’Israele cose scomode. Potremmo quindi immaginarci una grande personalità, un grande oratore, un uomo forte.

I versetti che abbiamo letto sono spesso chiamati la vocazione di Geremia, ma come avete sentito più che una vocazione sembra una semplice “comunicazione”. Geremia racconta qui come Dio gli abbia appunto comunicato che è stato scelto per un compito molto particolare e importante ma anche difficile, ovvero annunciare al popolo d’Israele il suo imminente esilio in Babilonia.

Siamo negli anni che precedono la sconfitta del Regno di Giuda, la parte meridionale di quello che era stato il regno di Davide. La parte settentrionale era già stata conquistata dagli Assiri cento anni prima, ora il regno di Giuda è pizzicato tra gli Egiziani e i Babilonesi, due superpotenze che insidiano la libertà del piccolo regno di Giuda e della sua capitale Gerusalemme. Vinceranno i Babilonesi e conquisteranno il regno di Giuda, deportandone la popolazione.

In questo contesto, Geremia è mandato a dire che non c’è speranza di resistere ai babilonesi, che essi conquisteranno il paese, che non serve a nulla cercare alleanze, per esempio con l’Egitto, nemico storico dei babilonesi.

E anzi Geremia è mandato a dire che questa disfatta sarà la conseguenza della disobbedienza del popolo alla volontà di Dio. Il popolo ha messo la sua fiducia nei popoli stranieri e nei loro dèi e non nel Dio di Israele.

La personalità di Geremia in questi versetti viene fuori solo un attimo nella obiezione che Geremia oppone a Dio:«Ahimè, Signore, Dio, io non so parlare, perché non sono che un ragazzo». Le uniche parole di Geremia di questi versetti.

Però “Obiezione respinta!” si direbbe nella scena di un processo di un film: a Dio non interessa che Geremia sia un ragazzo e non gli interessa che non sappia parlare; perché in fondo farà tutto lui e Geremia non sarà che uno strumento nelle sue mani. Geremia non può dire di no.

La Parola di Dio si impossessa di lui, anzi, prima ancora che Geremia nascesse, Dio lo aveva già scelto per farlo diventare “profeta delle Nazioni”. Profeta delle Nazioni significa che Geremia non deve rivolgersi soltanto al suo popolo, Israele, ma anche ad altri popoli.

Il soggetto di questo brano infatti non è lui, ma è «la Parola del Signore»; è la Parola del Signore che viene rivolta a Geremia, è la Parola del Signore che determinerà non solo la sua predicazione, ma la sua intera vita, vita appunto di “strumento della Parola”, strumento scomodo che incontrerà molte ostilità e difficoltà (Geremia sarà messo in prigione).

Ostilità e difficoltà perché la parola di cui Geremia è strumento è in questo momento una cattiva notizia: l'esilio, dunque la fine. Ci sarà poi anche il ritorno dall’esilio, dunque la buona notizia, ma intanto Geremia deve annunciare - e il popolo deve ricevere - la cattiva notizia.

Quello che Dio dice accadrà, perché la Parola di Dio è più forte dell'infedeltà di Israele e dei suoi re e delle loro strategie. Quello che Dio dice accadrà, ma non per merito di Geremia, che è solo un ragazzo e non sa parlare.

Dio si serve di chi, di suo, non sarebbe in grado di adempiere il compito che gli viene affidato. Dio stende la mano e tocca la bocca di Geremia e gli dice: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca». La bocca è quella di Geremia, ma le parole sono quelle di Dio.

Dunque, la Parola di Dio è efficace non perché Geremia è bravo, ma – potremmo dire - nonostante Geremia. La parola di Dio è efficace nonostante noi, nonostante chiunque tenti di annunciarla, nonostante la chiesa e le chiese. L’efficacia della Parola non si fonda sulle nostre qualità.

Per questo Dio non accetta l’obiezione di Geremia e non accetta le nostre obiezioni: tu andrai da tutti quelli ai quali ti manderò, e dirai tutto quello che io ti comanderò. Andrai e dirai. Punto. Senza se e senza ma.

Ma insieme all’ordine, c’è la promessa: «Non li temere, perché io sono con te per liberarti». Geremia non deve avere paura, soprattutto non deve avere paura di coloro ai quali è mandato a dire cose scomode e spiacevoli.

Geremia ha buone ragioni per avere paura, perché le persone che dovranno ascoltare le parole di giudizio che Dio lo manda ad annunciare sono i re, i potenti, quelli che infatti avranno il potere di metterlo in prigione perché egli non dica le cose che essi non vogliono sentire e non vogliono che il popolo senta.

Il profeta dovrà dire cose scomode; è successo a molti profeti, è successo per esempio a Natan con il re Davide; è successo a Giovanni il battista, che è stato anche lui imprigionato e poi decapitato dal re Erode. E successo ovviamente a Gesù.

«Io sono con te» è la promessa che Dio fa a Geremia, il quale avrà un compito scomodo e difficile, ma sarà accompagnato dalla promessa di Dio, che lo libererà. Geremia sarà, grazie a Dio e alla sua promessa, un uomo libero, anche quando sarà in prigione sarà un uomo libero, più libero di chi lo ha imprigionato, ed è a sua volta prigioniero delle sue illusioni presuntuose.

Dio manda e accompagna chi dice le sue parole, chi annuncia la sua Parola. Un messaggio molto incoraggiante per chiunque tenti di testimoniare la Parola di Dio, che è efficace, nonostante noi.


L’ultimo versetto che abbiamo letto contiene il compito vero e proprio che Dio dà a Geremia: «io ti stabilisco oggi sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare».

Sei verbi definiscono il compito di Geremia, quattro di essi negativi e solo due positivi. È una predicazione in tempo di crisi, non in tempi normali e tranquilli. Stanno per accadere cose che cambieranno la storia di Israele e che la sconvolgeranno.

Sradicare, demolire, abbattere e distruggere lo faranno i babilonesi, quando nell’anno 587 a.C. conquisteranno Gerusalemme e deporteranno i suoi abitanti.

Geremia deve dire che questo accadrà a causa dell’infedeltà del suo popolo.

In questi quattro verbi negativi è prefigurata tutta la drammaticità dell’esilio, mentre nei due verbi positivi si intravvede un po’ di luce, la luce del ritorno e del nuovo inizio che seguirà all’esilio. Cinquant’anni Israele sarà esiliato in Babilonia e quando poi i Persiani sconfiggeranno i Babilonesi, il loro re, Ciro, permetterà agli ebrei di tornare a casa.

Sono quindi verbi molto concreti che si riferiscono a eventi molto concreti, che ci dicono però una cosa: la Parola di Dio non è solo una parola che consola, che coccola, che incoraggia; a volte è una parola che sradica e che demolisce.

Sradica le nostre idolatrie, demolisce i falsi dèi in cui a volte ci rifugiamo, abbatte i nostri pregiudizi, distrugge le nostre umane sicurezze. È come una ruspa che demolisce orrendi edifici abusivi per costruire qualcosa di nuovo.

Geremia – a partire dal racconto della sua cosiddetta chiamata – ci viene a dire che non possiamo avere il vecchio e il nuovo contemporaneamente; se il nuovo deve farsi spazio, il vecchio deve sparire. Se lì dove sorge un palazzo abusivo deve nascere un giardino pubblico, il palazzo va prima abbattuto.

La Parola di Dio fa questo con noi: abbatte ciò che ci separa da Dio e non ci rende liberi. La promessa che Dio fa a Geremia è «io sono con te per liberarti» (e pensiamo – appunto - che Geremia starà anni in prigione…!).

Questo brano di oggi ci vuole ricordare che anche questo è compito della Parola di Dio: demolire tutto ciò che è falso, tutto ciò che ci allontana da Dio (e dal prossimo, possiamo aggiungere).

Essa distrugge tutto ciò che ci dà l’illusione di essere liberi ma in realtà ci imprigiona: preconcetti, pregiudizi, a volte persino idee sbagliate che abbiamo su Dio e sul prossimo.

Distrugge per poi ricostruire, per far tornare anche noi dall’esilio delle nostre illusioni alla terra promessa della sua misericordia e della sua libertà.

Che il Signore continui a operare in mezzo a noi con la sua Parola efficace, con la sua promessa di essere con noi, e continui a demolire le nostre illusioni e a ricostruirci secondo la sua volontà.

domenica 2 agosto 2020

Predicazione di domenica 2 agosto 2020 su Giovanni 9,1-7 a cura di Macro Gisola

Giovanni 9,1-7

1 Passando vide un uomo, che era cieco fin dalla nascita. 2 I suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» 3 Gesù rispose: «Né lui ha peccato, né i suoi genitori; ma è così, affinché le opere di Dio siano manifestate in lui. 4 Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato mentre è giorno; la notte viene in cui nessuno può operare. 5 Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo».
6 Detto questo, sputò in terra, fece del fango con la saliva e ne spalmò gli occhi del cieco, 7 e gli disse: «Va', làvati nella vasca di Siloe» (che significa «mandato»). Egli dunque andò, si lavò, e tornò che ci vedeva.



Il brano di oggi ci mette davanti un aspetto dell’esistenza umana a cui siamo tutti molto sensibili: la sofferenza. La sofferenza e le ragioni della sofferenza. Il perché sulla sofferenza è senz’altro la domanda che più interroga e spesso tormenta gli esseri umani, anche i credenti, anzi a volte più i credenti che i non credenti, perché la domanda sulla sofferenza diventa immediatamente la domanda su Dio, su che cosa faccia Dio davanti alla sofferenza.

Questo racconto elimina una delle credenze più diffuse ai tempi di Gesù, ma in parte ancora oggi: che la sofferenza sia conseguenza di una colpa e sia dunque mandata da Dio come punizione per la colpa. Se soffri, devi per forza aver commesso qualche colpa grave; questa idea era molto diffusa ed è anche, ricorderete, la tesi degli amici di Giobbe, che tentano di convincere il loro povero amico precipitato nella sofferenza estrema che la colpa di quella sofferenza è sua. Questo libro dell’Antico Testamento, che, è stato scritto apposta per confutare la tesi che la sofferenza sia conseguenza della colpa. Sapete che nel libro di Giobbe Dio darà torto ai suoi amici che insistevano con questa idea.

Se soffri, devi aver commesso qualche colpa e se un bambino nasce con quello che oggi chiameremmo un handicap o una disabilità, allora è possibile che questa sia la punizione per la colpa dei suoi genitori o per una colpa che lui avrebbe commesso! È questa la domanda dei discepoli di Gesù: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» la risposta di Gesù è netta: «Né lui ha peccato, né i suoi genitori». Ovvero: non c’entra nessuna colpa, la cecità di quest’uomo non è conseguenza di una colpa, di nessuno!

Questa è da un lato una grande liberazione, liberazione dalla paura di soffrire a causa di una colpa di cui si è colpevoli, liberazione da un’idea di Dio che punisce il peccatore, liberazione dal dover vivere il rapporto con Dio fondandolo sulla paura e non sulla fiducia. Il che non significa ovviamente che Dio sia contento delle nostre colpe, ma vuol dire che davanti alla colpa Dio non mette in atto la nostra punizione, ma cerca la nostra conversione.

Se questo è vero ed è davvero liberante, d’altro lato però la domanda dei discepoli (e la nostra domanda) rimane senza risposta: di chi è la colpa della sofferenza? Perché è molto umano voler trovare un colpevole, a volte preferiamo dare la colpa a noi stessi piuttosto che non sapere di chi sia…. almeno ce la si può prendere con qualcuno…!

Invece Gesù non indica un colpevole, non c’è colpa per la cecità di quell’uomo, non c’è colpa per la sofferenza causata da malattie o disgrazie. E mentre la prima parte della risposta di Gesù è chiara (né lui né i suoi genitori sono colpevoli), la seconda non è così chiara: «è così, affinché le opere di Dio siano manifestate in lui».

Che cosa vuol dire? A me sembra che si possa interpretare così: Dio non c’entra con la sofferenza – cioè non è lui che la manda, non ne è lui la causa – ma c’entra con la guarigione. Dio non c’entra con il male, ma con il bene, non c’entra con ciò che fa stare male, ma con ciò che fa stare bene.

E la sofferenza allora? Noi vorremmo sapere da dove viene, quale ne è la causa… perché se ne conoscessimo la causa – tipo la colpa di qualcuno – sapremmo chi ne è responsabile. E invece no, non lo sappiamo. Vi sono sofferenze senza responsabilità, e la cecità o un’altra malattia congenita, che ci si porta dietro dalla nascita, è l’esempio più eclatante e più chiaro di quello che possiamo chiamare un mistero. Di molte malattie – anche congenite - conosciamo la causa scientifica e da questo punto di vista non sono un mistero, ma lo sono dal punto di vista della giustizia. È una ingiustizia, un’enorme ingiustizia il fatto che un bambino nasca cieco o con altra disabilità. E questa ingiustizia non ha ragioni.

Forse accettare che è un mistero e che non possiamo trovare un colpevole può, alla fine, essere liberante. È difficile, va contro la nostra voglia di sapere chi è responsabile di tutto, ma può liberarci da questa continua ricerca del colpevole – che non troveremo mai…! - che in fondo ci tormenta l’esistenza.

La parola di Gesù non risolve il mistero, ma ci dice chiaramente da che parte sta Dio: non dalla parte della sofferenza ingiusta, ma dalla parte della guarigione. Detto in altre parole: non solo Dio non ha mandato la cecità a quell’uomo, ma non la vuole; non solo Dio non manda la sofferenza, ma non la vuole. Dio è dalla parte di quell’uomo che soffre, non dalla parte della sofferenza. Lo dimostra la guarigione che Gesù opera, ma Dio è dalla parte anche dei sofferenti che non guariscono. Come ha detto qualcuno, la Bibbia non risponde alla domanda sul perché della sofferenza, sulla origine della sofferenza, ma ci dice quale è la sua fine: essa è sconfitta da Dio, il male è sconfitto dal bene, persino la morte è sconfitta dalla vita, nella resurrezione di Gesù. Il male c’è, per molti versi è un mistero, ma per la fede la sua fine è segnata, perché vince Dio e quindi vince il bene.



Ma c’è poi una seconda cosa da dire su questo brano, che non tratta solo il tema della sofferenza e della “colpa” della sofferenza ingiusta, ma ha come secondo grande tema Gesù stesso. Il racconto di miracolo è l'inizio di un lungo brano che andrebbe letto per intero, cosa che vi invito a fare a casa, che va fino alla fine del capitolo 9. I versetti che abbiamo letto sono il “fatto”, l’evento della guarigione, preceduto da questo breve botta e risposta tra i discepoli e Gesù sulla causa della sofferenza. Ma poi Giovanni ci racconta tutte le reazioni a questo fatto: prima un breve dialogo tra l’uomo che era cieco con la gente che è lì e lo vede guarito; poi egli viene portato dai farisei che criticano Gesù perché ha guarito in giorno di sabato; poi un dialogo tra i farisei e i genitori dell’uomo; poi un altro scambio tra lui e i farisei che lo interrogano di nuovo e alla fine lo cacciano via; infine l’incontro dell’uomo guarito con Gesù, in cui l’uomo confessa la sua fede.

La chiusura del capitolo è un altro breve dialogo tra Gesù e i farisei in cui questi chiedono: «Siamo ciechi anche noi?» Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

Questa guarigione del cieco nato è uno dei cosiddetti “segni” del vangelo di Giovanni. Segni è il nome con cui Giovanni chiama i miracoli. Segni perché Giovanni non è solo interessato al miracolo in sé, ma ogni miracolo “segnala”, cioè dice chi Gesù è e ha l’obiettivo di far nascere la fede in lui. E già nel brano che abbiamo letto Gesù dice «Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo», riprendendo quella affermazione «io sono la luce del mondo» che aveva detto nel capitolo precedente. Gesù ridona la vista a un cieco perché è la luce del mondo, questo è il senso del miracolo. Gesù è venuto a portare la luce agli esseri umani, non soltanto la vista ai ciechi, la vista ai ciechi è solo un segno della luce che Gesù porta a tutti e a tutte.

Quindi il cieco siamo noi; questo è il secondo significato del racconto, che dura tutto il capitolo. Siamo ciechi dalla nascita e lo siamo finché non incontriamo Gesù. Perché lui è la luce e vederci è credere in lui e mettere la nostra vita nelle sue mani. Altrimenti non ci vediamo, siamo come ciechi, anche quando – come i farisei – crediamo di vederci.

Perché il peccato dei farisei è proprio quello di pensare di vederci bene, anzi meglio degli altri. l’uomo cieco invece non sa nemmeno che cosa voglia dire vederci, perché è cieco fin dalla nascita, non ha mai visto.

Vorrei concludere sottolineando un piccolo dettaglio di questo brano: l’uomo cieco non chiede nulla a Gesù, nei sette versetti che abbiamo letto non chiede nulla e non dice nulla. È totalmente passivo. L’iniziativa è di Gesù. L’uomo non chiede la guarigione, forse non pensava assolutamente che un giorno avrebbe potuto vederci. Questo siamo noi secondo Giovanni. Esseri umani che non hanno luce e non hanno speranza, rassegnati a vivere nel buio.

Ma passa Gesù, luce del mondo, e ci dona la vista che è la fede. L’uomo guarito infatti alla fine confesserà la sua fede in lui. Ogni incontro con Gesù è luce, ad ogni incontro rinasce la fede e rinasce la vita. Solo chi pensa di vederci già bene non riesce ad incontrarlo. Ma per tutti i ciechi, c’è luce, c’è vita e c’è speranza.