sabato 30 maggio 2020

Predicazione della domenica di Pentecoste (31 maggio 2020) su Atti 2 a cura di Marco Gisola

Atti 2,1-13
1 Quando il giorno della Pentecoste giunse, tutti erano insieme nello stesso luogo. 2 Improvvisamente si fece dal cielo un suono come di vento impetuoso che soffia, e riempì tutta la casa dov'essi erano seduti. 3 Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro. 4 Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi.
5 Or a Gerusalemme soggiornavano dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 Quando avvenne quel suono, la folla si raccolse e fu confusa, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7 E tutti stupivano e si meravigliavano, dicendo: «Tutti questi che parlano non sono Galilei? 8 Come mai li udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natìa? 9 Noi Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, 10 della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia cirenaica e pellegrini romani, 11 tanto Giudei che proseliti, Cretesi e Arabi, li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue». 12 Tutti stupivano ed erano perplessi chiedendosi l'uno all'altro: «Che cosa significa questo?» 13 Ma altri li deridevano e dicevano: «Sono pieni di vino dolce».


1. Pentecoste è il racconto di un miracolo, miracolo inteso come intervento di Dio; in questo caso si tratta del dono dello Spirito Santo, che cambia le cose, che trasforma la realtà. Il miracolo, come sempre sono i miracoli, è un dono: lo Spirito scende sui discepoli perché è donato ai discepoli, è un dono, un dono promesso, perché Gesù lo aveva detto, un dono forse atteso, ma pur sempre un dono e un miracolo, ovvero qualcosa che non sta nelle mani e nelle forze degli esseri umani.
Qual è il miracolo che accade a Pentecoste? Il racconto non è così chiaro: sono i discepoli che parlano in altre lingue o gli ascoltatori che li sentono parlare nelle loro lingue natìe? Detto altrimenti: sono i discepoli che “imparano” improvvisamente tutte le lingue delle popolazioni elencate in questi versetti oppure sono queste persone che sentono la loro lingua indipendentemente da come si esprimano i discepoli?
Forse il racconto è volutamente ambiguo, affinché non siamo tentati di “classificare” o “sistematizzare” il miracolo che accade, o forse il miracolo ne comprende due, ovvero riguarda sia il parlare, sia l’ascoltare. O forse il miracolo è nel suo risultato: chi parla viene capito da chi ascolta, o detto altrimenti chi ascolta comprende chi parla; insomma il miracolo è la comunicazione riuscita, il miracolo è capirsi. E ce ne rendiamo ben conto, vedendo quanta fatica facciamo a capirci anche quando parliamo la stessa lingua…!
Lo Spirito agisce dunque sia in chi parla sia in chi ascolta, è un dono che Dio ci fa per aiutarci a parlare e per aiutarci ad ascoltare. Possiamo metterci tutto il nostro impegno a costruire un discorso il più possibile chiaro, possiamo fare il massimo sforzo per concentrarci nell’ascolto, ma il miracolo della comunicazione dell’evangelo avviene soltanto grazie al dono dello Spirito.
E la “comunicazione” non consiste, appunto, soltanto nel capire la lingua che l’altro parla, non consiste soltanto nel comprendere le parole, ma nel riconoscere che quelle parole sono lo strumento che Dio ha scelto per farci giungere l’evangelo. Riconoscere l’evangelo nelle parole umane (in questo caso di Pietro) è il miracolo della Pentecoste; molti di coloro che ascoltano il lungo discorso di Pietro «furono compunti nel cuore, e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Fratelli, che dobbiamo fare?» (2,37). E alla fine «quelli che accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone» (2,41). Lo Spirito trasforma le parole (umane) in Parola (di Dio), in evangelo, buona notizia che tocca i cuori e converte. Questo è il miracolo/dono della Pentecoste.

2. Un aspetto importante di questo racconto è la pluralità di coloro che ricevono e riconoscono l’evangelo: «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua». Esseri umani tutti diversi tra loro ascoltano l’evangelo “ciascuno nella propria lingua”. “Ciascuno”: Parti, Medi, Elamiti… e esseri umani di molti altri popoli. La provenienza geografica e culturale ci dice che i primi destinatari della prima predicazione degli apostoli sono, già allora, persone tutte diverse tra loro. La diversità degli ascoltatori dell’evangelo è un dato di fatto già il giorno stesso della Pentecoste e lo sarà sempre di più col procedere dell’evangelizzazione. Coloro che ascoltano la predicazione di Pietro a Pentecoste sono tutti ebrei o proseliti, cioè simpatizzanti della fede ebraica. Più avanti l’annuncio dell’evangelo arriverà anche ai pagani.
Questa diversità e questa pluralità è dunque costitutiva della primissima comunità cristiana. Questa diversità intrinseca alla prima comunità, che qui è descritta come diversità linguistica, geografica e culturale, non è forse il segno del fatto che la comunità cristiana tout-court è in sé diversa e plurale? Non solo "Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia...”. Non solo – poco più tardi – ebrei e pagani. Ma anche uomini e donne, schiavi e liberi (vedi Galati 3,28), e poi giovani e anziani, persone con più o meno istruzione, persone del nord e del sud del mondo, persone etero e persone omosessuali, e così via…
La diversità degli ascoltatori della prima predicazione degli apostoli non contiene forse in sé tutte le diversità umane esistenti? Le differenze umane – ci dice questo racconto - non sono un ostacolo al ricevere il dono dall’evangelo, perché «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua». Ciascuno, cioè tutti e tutte, uno per uno, una per una. Nessuno e nessuna esclusa. Forse proprio la parola di Paolo che ho citato poco fa è uno dei più bei commenti all’evento della Pentecoste: «Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28). Tante persone e tanto diverse le une dalle altre, ma “uno” (unite) in Cristo Gesù, oppure “uno” (unite) nello Spirito Santo, che è la presenza di Gesù dopo la sua salita al Padre e che suscita in noi la fede in Gesù Cristo.
La diversità non è un ostacolo all’evangelo; questo è sempre stato difficile da accettare anche e proprio da chi ha creduto in Cristo. Per motivi storici, politici e culturali (soprattutto il fatto che nel terzo secolo l’impero romano diventa cristiano e il cristianesimo diventa imperiale) il cristianesimo ha sempre cercato piuttosto l’uniformità e mal tollerato – e spesso combattuto! - la pluralità. A Pentecoste invece – cioè all’inizio della storia della chiesa! - la pluralità è una realtà che va insieme all’unità. A unire è l’annuncio del Cristo morto e risorto per tutti; tutto il resto passa in secondo piano. Questo annuncio è uguale per tutti e unisce tutti nella fiducia in Gesù e nella chiamata al discepolato.
Le rotture nella chiesa sono quasi sempre avvenute perché si intendeva in modo diverso che cosa sia l’evangelo, in che cosa consista e che conseguenze abbia nella dottrina e nella prassi della chiesa. È stato così per le cosiddette “eresie” dei primi secoli, è stato così per la Riforma protestante: pur partendo dallo stesso evangelo (sintetizzato dottrinalmente nei Credo Apostolico e Niceno) si sono tratte conseguenze molto diverse che hanno impedito la comunione. Per cercare l’unità nella diversità - e senza annullare o cancellare le diversità - l’unica strada è rimettersi costantemente all’ascolto di quell’evangelo che è e rimane uno: Gesù crocifisso e risorto per noi, Signore e Dio, che Pietro annuncia nella sua predicazione di Pentecoste.

3. L’evangelo non cancella le diversità e nemmeno le individualità: E «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua», ovvero l’evangelo è per ciascuno di loro, ha da dire qualcosa a ciascuno di loro non solo nella sua propria lingua, ma nella sua propria realtà, nella sua propria situazione, nella sua propria storia. L’evangelo ha qualcosa da dire a tutti e a tutte, ha qualcosa da dire a me e a te, nella mia e nella tua situazione, in ciò che sto e stai vivendo adesso.
Levangelo non è una parola astratta e teorica, ma una parola concreta, che ti raggiunge nella tua esistenza e la vuole trasformare. Molti di coloro che ascoltarono la predicazione di Pietro furono «compunti nel cuore» (v. 37). Il cuore - è bene ricordarlo - nella cultura ebraica non è, come nella nostra, la sede dei sentimenti, ma la sede delle decisioni. Coloro che ascoltano Pietro non sono “commossi” o “emozionati” (forse anche, ma non è questo ciò che il testo vuol dire…), ma sono convinti e portati a prendere una decisione, sono convertiti, cioè portati ad affidarsi alla parola ricevuta e a confidare in questo Gesù che è stato loro annunciato.
Pentecoste non è dunque un evento spettacolare (benché ci sia descritto anche così), ma è il miracolo e il dono dell’annuncio dell’evangelo ascoltato e riconosciuto, evangelo che converte, cioè trasforma. È dunque Pentecoste ogni volta che Gesù Cristo morto e risorto per noi viene annunciato con fragili parole umane, che lo Spirito trasforma in Parola di Dio e porta chi l’ascolta a riconoscervi l’evangelo, la buona notizia che trasforma la nostra esistenza donandole gioia e speranza.




sabato 23 maggio 2020

Predicazione di domenica 24 maggio 2020 (Ascensione di Gesù ) su Giovanni 17,20-26 a cura di Marco Gisola

24 maggio 2020 – Ascensione di Gesù
Giovanni 17,20-26
20 Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 21 che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. 22 Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 23 io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me. 24 Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo. 25 Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 26 e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l’amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro».


Questa domenica ricordiamo l’ascensione di Gesù al cielo, la sua “salita” al padre. Gesù è asceso al cielo “proprio per essere più vicino a tutti noi, per essere e per venire più vicino a noi. Per essere invocato da tutti gli angoli della terra, in tutte le lingue della terra” come ha scritto il pastore Emanuele Fiume sul settimanale Riforma della settimana scorsa.
Il nostro lezionario ci propone per ricordare l’ascensione di Gesù un brano della lunga preghiera di Gesù del cap. 17 del vangelo di Giovanni. Una preghiera che si trova tra il discorso di addio di Gesù (iniziato con la lavanda dei piedi del cap. 13) e la sua passione che inizia subito dopo. Gesù in questo discorso parla della sua “glorificazione” che è il tipico termine usato da Giovanni per indicare la crocifissione-resurrezione-ascensione di Gesù, come fossero un unico evento.
L’ascensione non è una ricorrenza molto sentita, eppure è la conclusione e l’esito della venuta di Gesù nel mondo, dell’incarnazione della Parola di Dio. Gesù torna da dove è venuto, torna al Padre che lo ha mandato, e questo significa che il suo compito in mezzo a noi non solo è terminato, ma è compiuto, portato a termine. Ma non solo: Gesù non è solo andato al Padre, e quindi andato via da noi; Gesù siede alla destra del Padre, non è scomparso, c’è, è lì, il risorto è il glorificato, veglia su di noi, insieme al padre e in unità con lui. E prega per noi. Infatti, nella sua preghiera del cap. 17 sembra proprio che da un lato parli il Gesù che deve ancora andare verso la croce, ma dall’altro egli sembra essere già con il Padre; chi parla è il Gesù uomo che deve ancora affrontare la passione e allo stesso tempo il Gesù glorificato che sa di essere tutt’uno con il Padre.
1) la prima riflessione che possiamo fare è proprio questa: Gesù prega per noi. È una cosa bellissima, è un dono che egli ci fa e che secondo l’apostolo Paolo Gesù continua a fare proprio dopo la sua ascensione, essendo alla destra del Padre: «Cristo Gesù è colui che è morto e, ancor più, è risuscitato, è alla destra di Dio e anche intercede per noi» (Rom. 8,34). Gesù intercede per noi.
Nel brano che abbiamo letto prega proprio per noi, non cioè per i dodici, per i discepoli che lui ha chiamato e lui stesso ha istruito (per loro ha pregato nella prima parte della preghiera), ma per «quelli che credono in me per mezzo della loro parola», ovvero per quelli che credono grazie alla predicazione degli apostoli e poi grazie alla predicazione di coloro che sono venuti dopo, di generazione in generazione. Qualcuno li ha definiti “discepoli di seconda mano”, perché non hanno ascoltato la Parola direttamente dalla bocca di Gesù. Noi tutti siamo “discepoli di seconda mano” perché dopo la sua ascensione non possono esserci che “discepoli di seconda mano”. Gesù prega per i discepoli che verranno e questa è una cosa bellissima, per questo possiamo ritenerci compresi nella sua preghiera. Prega anche per chi ancora non c’è e ancora non lo ha conosciuto.
2) E come si diventa discepoli? I discepoli che verranno «credono in me per mezzo della loro parola», cioè della parola degli apostoli. Noi forse lo diamo per scontato ma non lo era affatto: si può credere non solo ascoltando le parole di Gesù, che escono dalla sua bocca, ma anche ascoltando le parole su Gesù pronunciate da fragili e contraddittorie bocche umane.
Questo è il miracolo che avviene per opera dello Spirito Santo, che giungerà a Pentecoste. Non si crede certo grazie alle parole più o meno belle o più o meno chiare di un predicatore o di una predicatrice, di un o di una testimone. Non è il predicatore/la predicatrice, non è il/la testimone che porta alla fede, ma è colui che è predicato, colui che è testimoniato, cioè Gesù Cristo. È lo Spirito che dalla predicazione e dalla testimonianza umane sa trarre fuori il Signore predicato, il redentore testimoniato. La fede - lo ha detto anche Paolo – nasce dalla Parola ascoltata. E, ripeto: che Dio, attraverso il suo Spirito, si serva della parola umana per far giungere la sua Parola non era affatto scontato, ma è anch’esso un dono della grazia.
3) Per che cosa prega Gesù? Prega per i suoi discepoli e per i discepoli che verranno ma in modo particolare per la loro unità. Questa preghiera di Gesù è diventata – a ragione - uno dei fondamenti biblici del movimento ecumenico. Gesù vuole l’unità dei suoi discepoli e delle sue discepole, prega per essa. Gesù non conosceva la divisione che ci sarebbe stata tra le chiese (possiamo chiederci se se l’aspettava o se l’immaginava….), ma conosceva bene la divisione che corre tra gli esseri umani e i gruppi di esseri umani (Paolo, per esempio, conosce bene le divisioni che ci sono all’interno della chiesa di Corinto… 1 Cor. 1,10ss.). Per questo Gesù ha ben motivo di pregare per l’unità dei suoi discepoli e delle sue discepole.
Ma per quale unità prega? Non per una unità istituzionale: nulla è più lontano dal vangelo di Giovanni, o dal Gesù che Giovanni ci racconta, dell’istituzione. E nemmeno per una unità sentimentale. Il modello di unità a cui Gesù pensa è nientemeno che l’unità tra lui e il Padre: «affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell’unità», dice Gesù. Parole non facili da capire.
Giovanni usa qui l’espressione “essere in” come l’ha usata anche prima: «che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi». L’unità dei cristiani discende e deriva dall’unità di Cristo col Padre e accade quando Gesù è nei cristiani e i cristiani sono in Gesù. Qualunque sia il significato preciso di queste parole di Gesù, è chiaro che l’unità dei cristiani è in Cristo. Coloro che sono in Cristo e Cristo in loro sono anche uniti fra loro.
Certo sono parole non facili da trasformare in dottrina o in prassi. Anzi forse è impossibile trasformarle in dottrina o in prassi e forse è molto meglio così: l’unità per cui Gesù prega non è dottrinale, non è pratica, non è istituzionale e non è sentimentale. È cristiana, nel senso che ha il suo fondamento e la sua ragion d’essere in Cristo. E basta. Non siamo noi ad unirci tra noi, ma è lui ad unirci a lui e, di conseguenza (ma solo di conseguenza!), tra di noi. La nostra è un’unità che deriva dall’azione di grazia di Dio e non dai nostri sforzi o dalle nostre buone intenzioni (che ovviamente non sono negativi, ma non sono determinanti).
4) L’unità tra i discepoli/e per cui Gesù prega non è fine a se stessa. L’unità dei discepoli/e ha uno scopo: «affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» (v. 21). Al v. 23 Gesù dice la stessa cosa (solo che usa il verbo «conoscere» anziché credere) e fa un’aggiunta interessante: «… affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me».
Il mondo – cioè tutti coloro che non credono – deve venire a sapere due cose: 1) che Dio ha mandato Gesù nel mondo come suo figlio redentore; e 2) che Dio ama coloro che si affidano a lui. I discepoli/e di Gesù sono quindi chiamati a testimoniare attraverso la loro unità il Figlio di Dio e l’amore di Dio. Potremmo anche dire: l’amore che Dio ha rivelato mandando suo figlio. La rivelazione che l’unità dei discepoli/e testimonia è la rivelazione dell’amore di Dio nel figlio e attraverso il figlio. La prima cosa quindi che siamo chiamati a testimoniare è il fatto di essere amati, è l’amore di Dio per noi. Prima dell’amore che riusciamo (o non riusciamo) a dare, siamo chiamati a essere testimoni dell’amore che abbiamo ricevuto. La prima caratteristica del nostro essere cristiani sta nell’essere amati. Tutto il resto nasce da lì.
5) Nella seconda parte del brano Gesù guarda direttamente al Regno di Dio, anzi parla come se fosse già nel Regno di Dio, come se – appunto – la sua ascensione (che Giovanni chiama “innalzamento” o “glorificazione”) sia già avvenuta: «Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati». Gesù usa una parola forte nella sua preghiera: «voglio». La sua richiesta è che i suoi discepoli (di prima e di seconda mano…) siano con lui dove lui è, cioè appunto con il padre nel suo regno. Ma poiché il volere di Gesù è identico a quello del Padre (il vangelo di Giovanni lo dice ripetutamente) la richiesta di Gesù è in realtà una promessa: i suoi discepoli saranno con lui.
È la promessa che aveva già lasciato ai suoi discepoli nella prima parte del discorso di addio, dopo la lavanda dei piedi: «Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi» (14,3). La promessa che Gesù ci fa è che dove sarà lui – nel regno di amore e giustizia del Padre – ci saremo anche noi.
Gesù prega per noi e per la nostra unità, si serve di noi per far arrivare nel mondo la sua Parola, Gesù è l’amore incarnato del Padre e questo amore, che il mondo deve vedere, è per noi promessa che Egli non ci lascia e non ci lascerà, finché la sua promessa sarà compiuta nel regno del Padre suo dove saremo sempre con lui. Tutto questo ci dice il brano di oggi e tutto questo significa l’ascensione di Gesù al Padre. Tutto questo per amore di Dio, tutto questo per la nostra gioia, consolazione e speranza.

sabato 16 maggio 2020

Predicazione di domenica 17 maggio 2020 su Matteo 6,5-15 a cura di Marco Gisola

Domenica 17 maggio 2020 – quinta dopo Pasqua
Matteo 6,5-15
5 «Quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. 6 Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.
7 Nel pregare non usate troppe parole come fanno i pagani, i quali pensano di essere esauditi per il gran numero delle loro parole. 8 Non fate dunque come loro, poiché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate. 9 Voi dunque pregate così:
“Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome;
10 venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche in terra. 11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano; 12 rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori; 13 e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno.”
14 Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; 15 ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.


In questo brano Gesù insegna ai suoi discepoli come pregare e che cosa chiedere.
Sul come pregare, Gesù fa riferimento sopratutto alle preghiera che gli ebrei erano tenuti a fare in determinate ora della giornata. Poteva capitare che in quei momenti, persone che Gesù chiama “ipocriti” pregassero in pubblico, lì dove si trovavano, in sinagoga o in piazza. Pregavano per farsi vedere, per mostrare agli altri che erano bravi credenti e pregavano puntualmente. Gesù polemizza poi con chi usa molte parole nella sua preghiera, come se il numero delle parole rendesse la preghiera migliore, come se una preghiera fosse tanto migliore quanto più lunga. Tutto ciò che trasforma la preghiera in spettacolo, in messa in mostra, e dunque in vanto, in opera orgogliosa da mostrare agli altri è condannato da Gesù.
Non si prega per essere osservati dagli altri. La preghiera – la preghiera personale, ovviamente, non quella che si svolgeva nel tempio durante le funzioni o le feste – è un fatto intimo tra il credente e Dio, una questione a tu per tu con Dio. Trasformarla in evento pubblico, significa avere un secondo fine, significa che essa non è più dialogo con Dio ma è un mettersi in mostra. Anzi: così Dio stesso viene usato per mettersi in mostra! Al centro della preghiera c’è Dio, se essa diventa spettacolo o esibizione, al centro della preghiera non c’è più Dio ma c’è chi prega. Pregare è de-centrarsi, non mettere al centro se stessi, ma Dio, che ascolta la nostra preghiera.

Gesù dà per scontato che il credente preghi, ovvero dialoghi con Dio, ovvero chieda e il Padre Nostro insegna che cosa chiedere. Ma prima di tutto va sottolineato che per Gesù pregare equivale proprio a chiedere! Non come la preghiera del fariseo di Luca 18,9ss che ringrazia Dio, sì, ma così facendo si mette di nuovo in mostra, proprio come Gesù dice di non fare. Quel fariseo non chiede nulla e forse ci vorrebbe da dire: “che bravo, non chiede nulla a Dio, lo ringrazia soltanto!”. E invece no, non è bravo, perché lui non chiede nulla perché pensa di non avere bisogno di nulla da Dio. Invece la preghiera che ci insegna Gesù ci insegna proprio a chiedere perché abbiamo bisogno di tutto da Dio.
Il credente è innanzitutto davanti a Dio come colui che chiede, cioè come colui che NON ha, ma che anzi ha bisogno, che è privo, che è a mani vuote, che non ha nulla da dare ma solo – appunto – da chiedere e ricevere. Potremmo dire che la preghiera è una confessione di NON fede in se stessi: chi prega non ripone la propria fiducia in se stesso, ma in Dio soltanto.
Preghiera è consapevolezza non solo di avere bisogno, ma di non considerare scontato di avere ciò che si chiede. La preghiera non è rivendicazione di un diritto, ma invocazione di un dono. Di un dono promesso, certo, quindi richiesto con fiducia. Gesù infatti dice: «il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate»(6,8). Non si prega per informare Dio su ciò di cui abbiamo bisogno, perché lui lo sa già, prima che glielo chiediamo.
Anzi qui la prospettiva è rovesciata: è Dio che ci insegna di che cosa abbiamo bisogno. Si prega per invocare il dono promesso, si prega per manifestare la propria consapevolezza di essere nulla-tenenti ma tutto-riceventi, ovvero di non ricevere nulla che non sia donato.


Non si può entrare nel dettaglio del Padre Nostro in una predicazione – bisognerebbe vedere le richieste una per una – e allora mi limito a due pensieri.
1) La prima cosa la riprendo da un Padre della Chiesa, Origene (III secolo), che sosteneva che la frase «come in cielo, anche in terra» non si riferisca soltanto alla richiesta «sia fatta la tua volontà», ma anche alle precedenti, cioè «sia santificato il tuo nome» e «venga il tuo regno». E anche biblisti moderni dicono che questa lettura è possibile.
Nei cieli, cioè in Dio, il nome di Dio è santificato, il suo regno è presente, la sua volontà è fatta (che in fondo sono tre modi diversi ma simili di dire la stessa cosa). Nel Padre Nostro noi chiediamo che questo accada anche in terra. Perché in terra, cioè in mezzo a questa umanità per certi versi fragile e sofferente, per altri versi complicata e malvagia, il nome di Dio non è santificato, Dio non regna, la sua volontà non è fatta.
In terra non è santificato il nome di Dio (cioè Dio stesso), ma il nome degli idoli che esistono da quando esiste l’umanità: ovvero la ricchezza, il potere e la fama (che oggi si chiama “successo”). Loro vengono adorati, nel senso che molte persone vivono e operano per avere più ricchezza, più potere, più fama. E non solo i ricchi e i potenti vorrebbero sempre più ricchezza e sempre più potere, ma anche i poveri o i non ricchi vorrebbero più ricchezza e più potere.
In terra non regna Dio, ma regna l’essere umano e come ha detto Paolo Ricca “il mondo nel quale l’uomo è re non sopporta il mondo nel quale Dio è re”. E dunque non è fatta la volontà di Dio, ma la volontà dell’essere umano, che non è sempre (anzi, purtroppo raramente….) improntata alla giustizia e alla pace, ma spesso all’ingiustizia e alla sopraffazione.
Nella prima parte del Padre Nostro quindi chiediamo che avvenga sulla terra quello che avviene nel cielo; quello che nel cielo è reale, sulla terra è invocato e sperato. La gioia, la pace, l’armonia che in cielo sono un fatto, sulla terra sono una speranza, per cui si prega e per cui ci si impegna. Tutto ciò - che il suo nome sia santificato, che il suo regno venga, che la sua volontà sia fatta - lo chiediamo a Dio perché non possiamo farlo accadere noi, ma mentre glielo chiediamo, gli chiediamo anche di servirsi di noi per fare accadere tutto ciò. Noi non possiamo essere soggetti della santificazione del suo nome, della venuta del suo regno e del realizzarsi della sua volontà, ma possiamo essere strumenti, strumenti nelle sue mani e la preghiera di servirsi (anche) di noi è implicita nelle prime tre richieste del Padre Nostro.


2) Nella seconda parte del Padre Nostro Gesù ci insegna di che cosa abbiamo bisogno e ci insegna a chiederlo a Dio. Abbiamo bisogno di pane, di perdono e di bene.
Il pane è ciò che ci serve per vivere, e non è solo il nutrimento: Lutero ci includeva anche il coniuge, il buon governo, la salute, gli amici e i vicini… Il perdono significa buone relazioni con gli altri improntate alla ricerca della riconciliazione e non al rancore o alla vendetta. Il bene è declinato chiedendo a Dio di evitarci due aspetti del male: in quella frase (non indurci/esporci alla tentazione), che ci crea sempre molti problemi e che ora non possiamo approfondire, riconosciamo che la tentazione è un fatto: essa è confessata come possibile e probabile e dunque si chiede a Dio di evitarcela. Il male è tutto ciò che fa male al corpo e alle relazioni che abbiamo con il prossimo. Da questo male chiediamo a Dio di essere liberati.


Come è evidente queste tre (o quattro) richieste sono al plurale. Non si prega per sé, ma per tutti; non prego per “me”, ma per “noi”. Questo è molto significativo e lo è tanto più se si pensa, come dicevamo all'inizio, che Gesù chiede di pregare questa preghiera da soli nella propria “stanzetta”: Gesù ci chiede di pregare al plurale (per “noi” e non per “me”) quando siamo soli. Il Padre Nostro è diventata la preghiera liturgica per eccellenza, non c’è culto o incontro di preghiera che non includa il Padre Nostro, e lo è diventato (oltre che per il fatto che è l’unica preghiera che Gesù stesso ha insegnato) anche grazie a questo “noi”. Ma non dobbiamo dimenticare che Gesù l’ha insegnato come preghiera individuale e al singolo che prega ha insegnato a pregare per “noi”, non solo per sé ma anche per gli altri.
Posso pregare da solo o da sola, ma non posso pregare solo per me. Non c’è nulla che io chieda per me che chieda soltanto per me; non posso chiedere il pane solo per me; non posso chiedere il perdono solo per me; non posso chiedere solo il mio bene; Gesù mi insegna a chiedere queste cose anche per gli altri. Anzi: non posso chiedere queste cose per me se non le voglio chiedere anche per gli altri. Se questo principio spirituale diventasse anche un principio sociale, il nostro mondo darebbe completamente diverso.

L’istruzione di Gesù termina con un'altra parola sul perdono, segno di quanto ritenesse importante questo aspetto proprio nella preghiera. In questa frase i due “se” possono farci paura: “se” il perdono di Dio dipende (dipendesse) dal perdono che siamo capaci di dare noi agli altri, saremmo veramente nei guai!
Nel Padre Nostro Gesù ha detto «rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori» e un noto biblista morto alcuni anni fa (Oscar Cullmann) ha detto che la frase «come anche noi...» “non riguarda assolutamente l’esaudimento da parte di Dio della nostra richiesta, bensì la nostra stessa richiesta umana...” (La preghiera nel Nuovo Testamento, Torino, Claudiana, 1995, pp. 100-101).
Ovvero: non è il fatto che Dio ci perdoni che dipende dalla nostra capacità di perdonare, ma è il nostro stesso chiedere perdono che non ha senso se non siamo disposti a perdonare. Possiamo quindi intendere anche questa ultima frase di Gesù in questo senso: non ha senso chiedere a Dio il perdono che non siamo disposti a dare al prossimo.

E infine, per concludere: a chi ci rivolgiamo in preghiera? Al Padre nostro. Che è certo il Signore, il Creatore, il Liberatore… ma che ci invita a chiamarlo Padre. O meglio, è Gesù che ci invita a chiamare Padre suo padre. Il Padre Nostro è la preghiera dei figli adottivi e fratelli e sorelle di Gesù, in Gesù e grazie a Gesù. Nel Padre Nostro non c’è il nome di Gesù, ma Gesù c’è al suo inizio, in quella invocazione “Padre” che senza di lui non sarebbe pensabile.
E si invoca il Padre nostro: fin dall’inizio è una preghiera al plurale. La preghiera che Gesù ti invita a pregare nella tua stanzetta, da solo/a con Dio, è la preghiera che comprende tutti i figli e tutte e le figlie di Dio che pregando come te, ovunque siano, sono in Cristo tuoi fratelli e tue sorelle.
Ringraziamo il Signore Gesù che ci ha donato questa preghiera e ci ha donato anche le sorelle e i fratelli con cui pregarla, insieme oppure ognuno nella sua “stanzetta”, ma comunque insieme nel suo nome.

sabato 9 maggio 2020

Predicazione di domenica 10 maggio 2020 su 2 Cronache 5 a cura di Pietro Magliola

1Così fu compiuta tutta l'opera che Salomone fece eseguire per la casa del SIGNORE. Salomone fece portare l'argento, l'oro e tutti gli utensili che Davide suo padre aveva consacrati, e li mise nei tesori della casa di Dio.
2Allora Salomone convocò a Gerusalemme gli anziani d'Israele e tutti i capi delle tribù, cioè i grandi delle famiglie patriarcali dei figli d'Israele, per portare su l'arca del patto del SIGNORE, dalla città di Davide, cioè da Sion.
3Tutti gli uomini d'Israele si radunarono presso il re per la festa che cadeva il settimo mese.
4Arrivati che furono tutti gli anziani d'Israele, i Leviti presero l'arca;5e portarono su l'arca, la tenda di convegno, e tutti gli utensili sacri che erano nella tenda. I sacerdoti e i Leviti eseguirono il trasporto.6Il re Salomone e tutta la comunità d'Israele, convocata presso di lui, si raccolsero davanti all'arca, e sacrificarono pecore e buoi in tal quantità da non potersi contare né calcolare.7 I sacerdoti portarono l'arca del patto del SIGNORE al luogo destinatole, nel santuario della casa, nel luogo santissimo, sotto le ali dei cherubini;8poiché i cherubini avevano le ali spiegate sopra il posto dell'arca, e coprivano dall'alto l'arca e le sue stanghe.9 Le stanghe avevano una tale lunghezza che le loro estremità si vedevano sporgere dall'arca, davanti al santuario, ma non si vedevano dal di fuori. Esse sono rimaste là fino a oggi.10 Nell'arca non c'era altro se non le due tavole di pietra che Mosè vi aveva deposte sull'Oreb, quando il SIGNORE fece il patto con i figli d'Israele, dopo che questi furono usciti dal paese d'Egitto.
11Mentre i sacerdoti uscivano dal luogo santo - poiché tutti i sacerdoti presenti si erano santificati senza osservare l'ordine delle classi,12e tutti i Leviti cantori, Asaf, Eman, Iedutun, i loro figli e i loro fratelli, vestiti di bisso, con cembali, saltèri e cetre stavano in piedi a oriente dell'altare, e con loro centoventi sacerdoti che suonavano la tromba -13mentre, dico, quelli che suonavano la tromba e quelli che cantavano, come un sol uomo, fecero udire all'unisono la voce per lodare e per celebrare il SIGNORE, e alzarono la voce al suono delle trombe, dei cembali e degli altri strumenti musicali, per lodare il SIGNORE «perch'egli è buono, perché la sua bontà dura in eterno!», avvenne che la casa, la casa del SIGNORE, fu riempita di una nuvola.14 I sacerdoti non poterono rimanervi per svolgere il loro servizio a causa della nuvola; poiché la gloria del SIGNORE riempiva la casa di Dio.

 

Salomone ha finalmente portato a compimento la sua opera. Il Tempio, che suo padre Davide aveva desiderato costruire, ma era stato fermato da Dio, è costruito. Il Signore ha dato compimento alla sua promessa. Manca però una cosa, quella fondamentale. Dio non abita ancora il Tempio.
Così com’è, il tempio è soltanto una costruzione di uomini, bella e ricca fin che si vuole, ma comunque un’opera umana.
Tutto il rituale descritto nel testo è in realtà finalizzato alla discesa di Dio (della sua gloria) nel Tempio.
Nel tempio viene trasportata l’arca dell’alleanza, nella quale, secondo la tradizione del cronista, erano conservate le tavole della legge, simbolo del patto tra Dio e Israele. Secondo un’altra tradizione, invece, nell’arca vi erano anche la verga di Aronne e un vaso contenente della manna. Al di là di questi dettagli, quel che importa è che Dio non era contenuto nell’arca. I cherubini dovevano fungere da trono, sul quale Dio si sarebbe seduto.
La processione avanza tra canti di lode. Israele loda il Signore perché è buono, e la sua bontà dura per tutti i secoli. La parola ebraica tradotta con bontà ha in realtà un significato più ampio e più pregnante; vuol significare la fedeltà e il rispetto del patto da parte di uno dei contraenti. E l’unico contraente fedele nel patto tra Dio e Israele (e gli uomini) non può essere che Dio.
Israele dà come per scontato che Dio farà l’ultimo passo necessario affinché il Tempio possa veramente essere la sua casa, e cioè scenderà e prenderà possesso della sua dimora. Quello che Israele, spera, fondandosi sulla promessa divina, lo dà per scontato, come se fosse già avvenuto. Che bell’esempio di fede!
E Dio scende nel Tempio con la sua gloria. La Gloria di Dio è, potremmo dire, ciò che si può vedere di Dio quando questi vuole manifestarsi. Una nuvola, richiamo evidente alla nuvola che guidava e proteggeva Israele durante il suo esodo dall’Egitto.
Dio occupa il Tempio, e non c’è più spazio per l’uomo. I sacerdoti devono uscire. Il Tempio è diventato un luogo santo, cioè separato.
La buona notizia, l’evangelo che ci viene presentato oggi da questo testo vecchio di quasi tremila anni è proprio questa: Dio è un partner sicuro, si può esser certi in anticipo che manterrà le sue promesse, al di là di ogni prestazione umana.
Dio rimane però sovranamente libero, è il Tempio che è vincolato a Dio, Dio non è vincolato al Tempio. Il profeta Ezechiele vedrà la gloria di Dio abbandonare il Tempio, e ciò significherà la caduta di Gerusalemme e il conseguente esilio in Babilonia; ma vedrà anche il ritorno della gloria di Dio nel nuovo Tempio.
Dio non abbandona il suo popolo. Può esercitare, anche in maniera drammatica, il suo giudizio su di lui, ma al giudizio segue e seguirà sempre il perdono. Dio giudica non per condannare definitivamente, ma per ristabilire la sua giustizia. Anche in questo si manifesta il suo amore e la sua bontà (nel senso detto prima).
Sono concetti questi che non ci sono più molto familiari. Abbiamo sistemato Dio comodamente seduto nell’alto dei cieli, il suo giudizio lo abbiamo allontanato ad un giorno indefinito che verrà, sì, ma chissà quando.
La Scrittura ci richiama ad una visione più dinamica del rapporto tra Dio e l’uomo, ci richiama alla nostra responsabilità nel patto. Dio è, lo abbiamo detto, un contraente affidabile, l’uomo invece no. Dio certamente rimane e rimarrà fedele alla sua promessa indipendentemente dalla fedeltà dell’uomo al patto, ma questo agire non gli è indifferente, l’uomo è sempre sotto il giudizio di Dio. Il Tempio non è una garanzia della presenza divina in mezzo a noi. Dio è libero di lasciare che il tempio ritorni ad essere soltanto un edificio splendidamente costruito e riccamente ornato, ma non più la Sua casa.
Certamente per noi cristiani il Tempio ha perduto la pregnanza e il significato che aveva per Israele. Lo stesso Israele continua ad esistere duemila anni dopo la distruzione del tempio. Per noi, come per Israele, Dio è presente nella sua parola, letta, studiata e masticata quotidianamente. Per noi cristiani, tutte le promesse di Dio hanno avuto compimento in Cristo. Ma questa affermazione non è un salvacondotto, un lasciapassare definitivo e buono in ogni circostanza. Chiama in causa quotidianamente la nostra responsabilità. Dio rimane sovranamente libero, libero di mandare sulla chiesa il suo spirito così come di ritirarlo, se lo ritiene opportuno. Potremmo dire che Dio può far sorgere cristiani da ogni pietra, per parafrasare Gesù. Quello che ci viene dato oggi è un messaggio scomodo, ma non per questo ci è lecito metterlo da parte e non tenerne conto.
Questo doveroso richiamo non deve però scoraggiarci. Dio è fedele, il suo figlio si è incarnato in Gesù, prendendo su di sé i nostri carichi, il nostro peccato, per darci la sua giustizia. Far buon uso di questo annuncio di libertà sta, questo sì, in noi.
Amen.