venerdì 27 dicembre 2019

Predicazione di Natale 2019 su Tito 3,4-7 a cura di Marco GIsola

Tito 3,4-7

4 Ma quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, 5 egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, 6 che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, 7 affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna.

«La bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati». Ecco riassunto in poche parole l’evangelo, il nucleo e il centro dell’evangelo. Leggiamo, oggi, a Natale, questo testo che non parla della nascita di Gesù, ma che comunque parla della sua venuta nel mondo, della sua manifestazione (in greco “epifania”).
Leggere oggi questo testo significa affermare: con la nascita di Gesù la bontà di Dio e il suo amore per gli esseri umani sono stati manifestati. Quando si dice che qualcosa è manifesto si intende dire che tutti lo possono vedere o che tutti lo possono sapere, che è una cosa evidente.
Ma la nascita di Gesù è tutt’altro che una manifestazione pubblica, è una semplice e banale nascita come ne avvengono migliaia tutti i giorni da che mondo è mondo. Anzi, è una nascita che avviene in condizioni non proprio ideali, in una sistemazione di fortuna – la famosa stalla o grotta di Betlemme – senza nemmeno la presenza di una levatrice, di una ostetrica.
Una nascita anonima di un bambino, che allora era assolutamente anonimo; come le migliaia di bambini che nascono oggi, 25 dicembre 2019, in tutto il mondo, come tutti quelli che nascono in condizioni non ideali, anzi magari in circostanze proibitive, non in una sala parto sterile, ma in una casa nella polvere, nel fango o addirittura sotto le bombe di una delle tante guerre che insanguinano il nostro mondo.
Oggi nascono migliaia di bambini che per noi sono e rimarranno totalmente anonimi, come lo era Gesù in quella notte a Betlemme.
Eppure egli era ed è la manifestazione della bontà di Dio e del suo amore per gli esseri umani. Non lo sa nessuno, solo Maria e Giuseppe, a cui lo ha detto direttamente Dio stesso, solo gli angeli del cielo che cantano il “Gloria”, solo i magi avvertiti e guidati da una stella. Solo loro. Il resto del mondo non sa nulla.
La manifestazione di Dio avviene dunque nel nascondimento. Nulla di spettacolare, nulla di eclatante, nulla che sia neppure evidente. Anzi: sub contraria specie;
scusate il latino, ma è Lutero: sotto la specie contraria, ovvero la manifestazione di Dio avviene nel modo contrario a quello che ci aspetteremmo. Lutero parlava soprattutto della croce, ma tra la stalla di Betlemme e la croce di Gerusalemme c’è un collegamento diretto e una coerenza evidente.
Dio viene nel mondo nel modo contrario a quello che ci aspetteremmo: ce lo aspetteremmo potente, e lui viene impotente; ce lo aspetteremmo grande e lui viene piccolo; ce lo aspetteremmo forte e lui viene debole.
Si potrebbe obiettare che Gesù ha poi fatto miracoli e prodigi; ma quanti miracoli hanno generato fraintendimento e non fede? E quante volte Gesù ha rimproverato chi cercava da lui solo miracoli?
Dio viene in Gesù nell’umanità e nella debolezza. Dio viene nella debolezza e si lascia respingere e infatti Gesù è stato respinto, torturato, crocifisso. Chi avrebbe mai visto Dio in un uomo crocifisso? E chi dunque avrebbe mai riconosciuto Dio in un neonato nato in una stalla?
Solo coloro a cui Dio stesso lo dice capiscono che Gesù è un bambino speciale, il figlio di Dio. È così anche per noi: solo se ce lo dice Dio stesso possiamo credere che Gesù è il Figlio di Dio, solo se viene lui stesso con la sua Parola a annunciarcelo possiamo credere, solo l’evangelo ci può convincere di questo grazie all’opera dello Spirito Santo: «che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore»
Perché il fatto che Gesù è il figlio di Dio, che questo neonato è il messia di Israele venuto per tutta l’umanità, che la sua nascita e la sua morte sono il modo in cui Dio stesso si dà a noi e prende su di sé le nostre colpe, per darci perdono e speranza, tutto ciò lo possiamo solo credere.
Non lo possiamo verificare scientificamente, non lo possiamo provare o dimostrare con dei fatti evidenti a tutti, lo possiamo solo credere.
Lo crediamo perché Dio stesso ce lo dice, non servendosi di stelle o parlandoci attraverso angeli, ma parlandoci attraverso la sua Parola scritta nella Bibbia, che lo Spirito rende Parola vivente per noi.
E che cosa possiamo credere? Che questa venuta, questa manifestazione, che culminerà nella croce ma che inizia nella stalla di Betlemme, è la nostra salvezza, è la nostra giustificazione, come dice l’apostolo: «affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna».
Gesù viene per salvarci, per giustificarci, per donarci speranza. Anzi: ci ha salvato, ci ha giustificato, ci ha donato speranza. Questo è il motivo per cui Gesù viene, per cui è nato a Betlemme.
L’evento della nascita di Gesù, dell’incarnazione della Parola, la decisione di Dio di venire in mezzo a noi come uno di noi, è una evento di salvezza, una decisione di salvezza.
Natale è la decisione di Dio di salvare l’umanità. La venuta di Gesù non è una decisione che Dio ha preso per metterci alla prova, per vedere come l’umanità avrebbe trattato Gesù, se gli avesse creduto oppure no, se avesse messo in pratica ciò che egli ha detto oppure no.
La venuta di Gesù non è un metterci alla prova da parte di Dio, semplicemente perché se quella fosse stata una prova, dovremmo concludere che l’umanità non ha superato la prova. Gesù infatti non è stato accolto, ma è stato respinto, rifiutato, abbandonato, ucciso.
La manifestazione, quella visibile a tutti, a chi non ha gli occhi della fede, è tutta qui. Rifiuto e morte. Invece chi ha ricevuto in dono gli occhi della fede vede salvezza, giustificazione, speranza.
Se la nostra salvezza dipendesse da quanto e da come noi accogliamo Gesù e mettiamo in pratica ciò che egli ha detto, di certo la salvezza noi non l’avremmo ottenuta; con le nostre sole forze non l'avremmo ottenuta. È così ci raccontano i Vangeli ed è ciò che vediamo in ciò che accade quotidianamente intorno a noi.
La salvezza, invece, viene, come dice la lettera a Tito, viene da fuori di noi, viene da Dio; non per niente il testo parla dell’opera dello Spirito e di Gesù, è lui il “Salvatore”, è lui che ci salva.
La venuta di Gesù è già un evento di salvezza fin dalla stalla di Betlemme.
Per questo Natale è una festa gioiosa, che non ha nulla che fare con il fatto che noi siamo buoni o ‘più’ buoni, ma ha a che fare esclusivamente con “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”.
Questo evento di salvezza ha come prospettiva la vita eterna: “affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna”. L’irruzione di Dio nella storia umana ha come conseguenza la speranza. Speranza di vita eterna, ovvero speranza di essere un giorno cittadini del regno di Dio, ma speranza anche che Dio regni e la sua volontà sia fatta già qui ed ora.
La vita eterna non è soltanto un’altra vita, in un aldilà e che dura per sempre, ma è una vita altra da vivere qui ed ora. Una vita che qui ed ora riserva spesso fatiche e dolore ma che è erede della vita eterna, cioè che guarda e si orienta, a quella vita dove dolore non ci sarà più. Una vita che qui ed ora è vissuta in un mondo pieno di ingiustizia, ma che guarda a quella vita dove non ci sarà ingiustizia.
Siamo in speranza, eredi della vita eterna. Ovvero abbiamo qualcosa che ci è promesso – e ce lo abbiamo perché ci è promesso - ma che non abbiamo ancora pienamente e quindi viviamo avendolo lì davanti agli occhi e questo cambia tutto, cambia tutta la nostra vita.
Questa è la speranza cristiana, che è certezza, non vaga speranza affidata al caso, come nel linguaggio comune, ma certezza fondata sulla promessa di Dio.
E come abbiamo bisogno che qualcuno ci venga a dire che Gesù, contro tutte le evidenze, è il figlio di Dio, così abbiamo bisogno di qualcuno che ci venga a dire che, contro tutte le evidenze, possiamo fondare la nostra vita sulla speranza, che possiamo vivere sperando.
Ce lo dice ogni domenica, e ogni volta che la apriamo, la Parola di Dio, che ci porta la buona notizia della venuta di Cristo e della misericordia infinita di Dio.
Quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati, ci ha giustificati, ci ha donato speranza.
Oggi noi, riuniti insieme nel suo nome, riceviamo questa parola che parla a noi e parla di noi. Noi siamo stati salvati e giustificati, a noi è data speranza, tu sei stato salvato, a te è data speranza.
Possa questo evangelo accompagnarci non solo il giorno di Natale, ma accompagnarci e darci gioia e speranza ogni giorno della nostra vita.

lunedì 16 dicembre 2019

Predicazione di domenica 15 dicembre 2019 (terza di avvento) su Luca 3,1-14 a cura di Marco Gisola

Luca 3,1-14
1 Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, quando Ponzio Pilato era governatore della Giudea, ed Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell'Abilene, 2 sotto i sommi sacerdoti Anna e Caiafa, la parola di Dio fu diretta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.
3 Ed egli andò per tutta la regione intorno al Giordano, predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati, 4 come sta scritto nel libro delle parole del profeta Isaia: «Voce di uno che grida nel deserto: "Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.
5 Ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle sarà spianato; le vie tortuose saranno fatte diritte e quelle accidentate saranno appianate; 6 e ogni creatura vedrà la salvezza di Dio"».
7 Giovanni dunque diceva alle folle che andavano per essere battezzate da lui: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l'ira futura? 8 Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento, e non cominciate a dire in voi stessi: "Noi abbiamo Abraamo per padre!" Perché vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere dei figli ad Abraamo. 9 Ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero dunque che non fa buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». 10 E la folla lo interrogava, dicendo: «Allora, che dobbiamo fare?» 11 Egli rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». 12 Vennero anche dei pubblicani per essere battezzati e gli dissero: «Maestro, che dobbiamo fare?» 13 Ed egli rispose loro: «Non riscotete nulla di più di quello che vi è ordinato». 14 Lo interrogarono pure dei soldati, dicendo: «E noi, che dobbiamo fare?» Ed egli a loro: «Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denuncie, e contentatevi della vostra paga».


Il lezionario ci propone oggi la predicazione di Giovanni il battista, il “precursore” colui che precede la venuta di Gesù e la preannuncia.
Gesù si fa battezzare da Giovanni e questo è il segno della sua partecipazione alla nostra umanità, anzi alla parte più bassa della nostra umanità. Gesù, che è senza peccato, fa porre su di sé il segno del battesimo che è segno di conversione, benché non ne abbia bisogno, come per dire: sono con voi, sono come voi, sono qui per voi.
Questo brano ci è proposto ora, in tempo di avvento, perché come Giovanni attende la venuta di Gesù e la prepara, così in avvento si attende il Natale, cioè la nascita, la venuta di Gesù nel mondo e quindi questo brano è un invito a prepararci ad accoglierlo.
Vediamo allora che cosa ci dice questo racconto. Partiamo dai luoghi, che in questo brano non sono secondari:
Giovanni il battista predica nel deserto. Non lo incontriamo a Gerusalemme, nel tempio, nei luoghi del potere politico o religioso. Lo incontriamo nel deserto, dove la tradizione voleva che abitassero i demoni, cioè i nemici di Dio, dove stanno le bestie feroci, dove forse c’erano monaci ed eremiti.
Giovanni è lì, lontano dal centro, dai centri del potere, del commercio, del sacro. E la gente va lì, va da lui. Il deserto nella storia ebraica è anche legato inscindibilmente all’Esodo e allora è come se Giovanni invitasse la gente a un piccolo esodo, a un esodo da sè stessi, a un viaggio fuori di sé per andare ad ascoltare una parola diversa, forse scomoda, ma estremamente liberante.
Ma non solo: il testo ci dice che Giovanni “andò per tutta la regione intorno al Giordano”, cioè Giovanni non sta fermo in un posto, non ha una “sede”, vaga, si sposta, è un profeta itinerante. E la regione intorno a Giordano è regione di confine – e che confine – tra Israele e i territori pagani.
La predicazione di Giovanni non si rivolge solo ed esclusivamente agli ebrei, ma a tutti quelli che cogliono ascoltarlo, come sarà per l’evangelo dopo la Pentecoste e già tante volte durante il ministero di Gesù.
Una predicazione sul confine, lontano dal centro, che chiama a un esodo. Giovanni predica un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. Giovanni chiama al cambiamento. La parola tradotta con “ravvedimento” significa “cambiamento di mentalità” e quindi cambiamento di vita.
Non è ravvedimento nel senso di pentirsi per aver fatto qualcosa di male (benché se uno ha fatto qualcosa di male, ovviamente pentirsene è positivo), nel senso di chiedere scusa (benché chiedere scusa sia sempre un atto di sincerità e di umiltà), ma è proprio un cambiamento, nel senso di cambiare modo di vedere gli altri e se stessi.
È questo che chiede Giovanni, è questo che chiederà Gesù tante volte alle molte persone che incontra. Lui che era capace di vedere l’altro con occhi diversi, con gli occhi di Dio. A noi è chiesto di cambiare sguardo e cambiare vita.
È necessario cambiare, dice Giovanni. E perché? Perché sta arrivando il Signore. E cita il profeta Isaia: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle sarà spianato; le vie tortuose saranno fatte diritte e quelle accidentate saranno appianate; e ogni creatura vedrà la salvezza di Dio”
Potremmo chiederci: ma c’era proprio bisogno di Giovanni? Non bastava Gesù? Non saranno abbastanza chiare le parole che Gesù dirà, i gesti che compirà? che cosa aggiunge Giovanni a quello che Gesù dirà e farà?
Al ministero di Gesù, Giovanni non aggiunge nulla. Giovanni viene per il suo popolo e per tutti noi ad annunciare la venuta di Cristo e per insegnarci ad accoglierlo.
E poi potremmo chiederci: che cosa vuol dire: “Preparate la via del Signore”? Siamo noi che prepariamo la via al Signore? Siamo noi che accogliamo lui o è lui che accoglie noi? Siamo noi che gli spianiamo la strada? Dio ha bisogno di me e di noi per poter venire?
Dio viene anche senza di noi, anche senza la nostra collaborazione, viene anche se io non gli preparo la strada, se la fa da solo la strada. Dio viene anche senza di me e se è necessario viene anche contro di me, viene anche se io, anziché preparargli la strada, dovessi mettere degli ostacoli alla sua venuta.
La sua venuta non dipende certo da me. Dio viene comunque e nonostante tutti gli ostacoli che noi possiamo mettergli in mezzo alla strada.
Ma non è che Dio ha bisogno di essere accolto per poter venire, viene comunque. Non ha bisogno di essere accolto, ma vuole essere accolto, vuole essere ricevuto. I racconti del Natale ci raccontano subito che Gesù viene accolto e viene respinto. Viene accolto dai pastori e dai magi d’Oriente, viene respinto, per esempio dal re Erode, come ci racconta Matteo. Quando Dio viene lo si può accogliere o respingere.
Perché viene deboli fra i deboli, povero fra i poveri. E non ricco fra i ricchi, non potente fra i potenti. Per questo lo si può respingere, si lascia respingere.
E invece per accoglierlo, è necessario cambiare, farci trasformare dalla Parola e lavorare su noi stessi, su ciò che facciamo e su ciò che abbiamo. Giovanni infatti dà delle indicazioni molto pratiche. Ma prima di vedere che cosa dice, chiediamoci: a chi dà queste indicazioni pratiche?
A quelli che venivano per farsi battezzare. Ovviamente non sappiamo e non possiamo giudicare, ma forse qualcuno di loro avrà pensato che quel battesimo, quel rito, sarebbe stato sufficiente per ottenere il perdono.
E infatti da Giovanni ci vanno le folle. Se avessero pensato che sarebbe stata un cosa difficile, impegnativa, forse non sarebbero accorsi così in tanti. E Giovanni li accoglie così:
«Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l'ira futura? Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento, e non cominciate a dire in voi stessi: "Noi abbiamo Abraamo per padre!" Perché vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere dei figli ad Abraamo.
È molto duro Giovanni, ha parole pesanti, ma offre anche una possibilità, la possibilità di cambiare, di fare frutti degni di ravvedimento, ovvero di fare – appunto – delle cose che dimostrino il cambiamento.


Non basta il rito – noi diremmo: non basta il sacramento – non basta nemmeno essere figli di Abramo, appartenere al popolo eletto. Non basta l'appartenenza, né al popolo ebraico, né a una chiesa cristiana. Perché Dio può far nascere dei figli ad Abramo – noi diremmo dei discepoli e delle discepole – persino da delle pietre!
E allora gli chiedono che cosa debbano fare. Forse ci stupisce che le richieste di Giovanni non siano poi così radicali. Almeno due richieste su tre non sono molto radicali: partiamo dagli ultimi, dai soldati: forse noi ci aspetteremmo che Giovanni chiedesse loro di cambiare mestiere, di deporre le armi.
Ci sembrerebbe più coerente con il messaggio che ci ha lasciato Gesù. Nell’antichità si sa che alcuni cristiani rifiutarono di fare parte dell’esercito dell’impero romano per non dover portare armi. E invece Giovanni chiede loro di fare il loro lavoro onestamente e in pratica di non abusare del loro potere.
Nemmeno ai pubblicani Giovanni dice di cambiare mestiere, di non collaborare più con i romani, ma chiede loro di non riscuotere più di quanto devono riscuotere. Chiede quindi loro onestà. Ci sembra poco, ma in fondo se tutti fossero onesti e corretti e nessuno abusasse del suo potere o della sua posizione, il mondo sarebbe già molto diverso.
E invece alla folla che chiede che cosa debba fare Gesù risponde così: «Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Questo non è chiesto a una categoria particolare di persone, è chiesto a tutti. È la condivisione, ma non la condivisione del poco o del superfluo, ma della metà. Questa sì che è una richiesta radicale. Se hai due tuniche, danne una a chi non ne ha.
Se ne ho cinque e ne do una a chi non ne ha, quello ora ne ha una, è vestito e non è più nudo. È già un bel passo avanti.
Ma io ne ho ancora quattro e non c’è quindi uguaglianza tra me e lui. Io ne ho sempre tre in più, quattro volte tanto. La condivisione che propone Giovanni porta all'uguaglianza. La stessa uguaglianza espressa dall’immagine di Isaia, la strada che si apre abbassando i colli e riempiendo le valli, ovvero appianando le differenze tra forti e deboli, tra potenti e emarginati, tra ricchi e poveri, tra degni e indegni...
Per accogliere Dio, per accogliere Gesù bisogna fare qualcosa, bisogna cercare e creare onestà e giustizia, eliminare gli abusi di potere e tutto ciò allo scopo di cercare e creare uguaglianza.
Giovanni il battista vuole dirci che Dio non viene solo a darci delle coccole, e nemmeno a proporci dei riti che lo facciano contento. Ma vuole entrare nella nostra vita e cambiarla, renderla più giusta, affinché rendendo la nostra vita più giusta, possiamo contribuire a rendere il mondo più giusto.
Questo vuole il Dio che viene, questo ci chiede. Poi lui viene lo stesso, viene e verrà a ripeterci le stesse cose che ha detto Giovanni e a dirne di altre, di nuove.
Viene e verrà ad offrirci il suo perdono e il suo amore, ma mai senza la sua parola che chiama al cambiamento: “fate frutti degni del ravvedimento”, fate frutti di onestà, di giustizia, di uguaglianza.
Questo è il programma di Gesù che Giovanni il battista ha anticipato. Questo è il dono di Gesù, che Giovanni ha preannunciato. Il cambiamento è possibile, la scelta di onestà, di giustizia, di uguaglianza è possibile.
È possibile perché Dio viene, perché Dio è venuto in Gesù di Nazaret, il Cristo. Non ha trovato strade spianate, ha ancora trovato tanti colli e tanti avvallamenti, tante ingiustizie, tanti squilibri; eppure è venuto lo stesso a continuare a chiamarci al cambiamento.
Noi non siamo meglio di quella folla che andava da Giovanni il battista. Ma ogni volta che ascoltiamo colui che Giovanni preannunciava, ogni volta che ascoltiamo Gesù riceviamo una parola di grazia e un appello al cambiamento. Ogni volta che lo ascoltiamo può iniziare qualcosa di nuovo.
Per questo ringraziamo il Dio che viene e non smette di venire nelle nostre vite, per cambiarle e riempirle di gioia e speranza.

domenica 1 dicembre 2019

Predicazione di domenica 1 dicembre 2019 (prima di Avvento) su Romani 13,8-12 a cura di Marco Gisola

Romani 13,8-12

Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». L'amore non fa nessun male al prossimo; l'amore quindi è l'adempimento della legge. E questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.


1. La parola debito non piace a nessuno, eppure Paolo usa proprio questa parola, il cui significato va dal classico debito da pagare e si estende fino all’idea di dovere, dell’essere tenuto a fare o dare qualcosa.
Siamo debitori, dunque, o siamo tenuti a dare qualcosa al prossimo. Che cosa? Amore, dice Paolo; e agape è la parola greca che Paolo usa.
Siamo debitori di amore. Debitori perché abbiamo ricevuto amore in modo sovrabbondante da Dio e Dio ci chiede di “restituirlo” al nostro prossimo. “Restituirlo” tra virgolette, perché restituire vuol dire ridare qualcosa a chi ce l’ha data, e noi questo amore ovviamente non lo restituiamo a chi ce l’ha donato, cioè a Dio, ma a chi non ce l’ha donato, al prossimo.
Dio ci ha donato questo amore gratuitamente, questa è l’agape, l’amore gratuito, perché – lo diciamo sempre – l’amore o è gratuito o non è. O meglio: l’agape o è gratuita o non è agape. C’è un amore, molto umano, che spera sempre di essere ricambiato ed è normale, è umano, perché ciascuno ha bisogno di essere amato.
Ma l’amore che ci chiede di vivere il Signore – l’agape, appunto – questo non si aspetta il contraccambio. Quindi Dio ti ama gratuitamente e ti chiede di amare gratuitamente. È chiaro che tutti noi speriamo che da amore nasca altro amore e spesso accade, grazie a Dio.
Ma anche se non accade, anche quando non accade rimane valido il comandamento, perché rimane il debito che abbiamo anche verso chi non ci ama. L’amore del prossimo in senso biblico cerca non la soddisfazione di chi ama, ma quella di chi è amato.
E se siamo debitori significa che non siamo creditori. Paolo vuole che vediamo noi stessi come debitori prima che come creditori.
Noi spesso tendiamo a mettere al primo posto ciò di cui noi abbiamo bisogno, ciò che noi desideriamo, ciò che gli altri potrebbero o (secondo noi) dovrebbero fare per noi. La Parola di Dio ci invita a mettere al primo posto ciò che noi possiamo dare e fare per gli altri.
Anzi, sembra addirittura che qui Paolo dica che sia l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci: non abbiate altro debito se non di amarvi gli uni gli altri. Letteralmente: “A nessuno di nulla siate debitori, se non…”.
Nessun altro debito. Agli altri dovete amore – dice Paolo – non dovete sottomissione, non dovete farvi dominare, non dovete cieca obbedienza a nessuno, non dovete adulare nessuno, davanti a nessuno dovete rinunciare alla vostra dignità e alla vostra libertà. Tutto ciò non lo dovete a nessuno. Quello che dovete a tutti, quello di cui siete debitori a tutti è l’agape, l’amore gratuito.


2. Noi leggiamo questo brano la prima domenica di avvento che ci spinge a mettere questo comandamento dell’amore nell’ottica dell’incarnazione. Gesù viene per amore, per amarci, e come ci ama? Prendendo la nostra umanità, diventando come noi, scendendo al nostro livello.
Noi non siamo il figlio di Dio, non possiamo incarnarci nel prossimo, rimane per forza di cose una distanza tra noi e le persone che amiamo, anche dalle persone che amiamo più di ogni altra, anche dai genitori, dai figli, dal compagno o dalla compagna di vita rimane una distanza, diciamo pure una salutare distanza, non possiamo immedesimarci nel prossimo come ha fatto Gesù.
Rimane però l’indicazione di un criterio, che ci dice che per amare bisogna scendere e avvicinarsi, come il figlio di Dio è disceso dai cieli sulla terra, dalla divinità all’umanità. Che ci dice che per amare qualcuno bisogna cambiare, trasformarsi, come ha fatto Gesù con noi.
Anche noi per amare dobbiamo scendere e avvicinarci, ben sapendo che non possiamo e non dobbiamo identificarci, anche noi per amare dobbiamo cambiare.
Amare è andare verso l’altro e lasciarsi trasformare dall’incontro con l’altro, con quell’altro che abbiamo davanti, non un altro generico, non “tutti” gli altri, ma il prossimo che Dio fa incrociare il nostro cammino.
Se si sta fermi, se non si è disposti a scendere, cioè a cambiare, a scendere dai nostri preconcetti e dall’idea di sapere a priori quel che c’è da fare, si rimane lontani e l’amore non è gratuito, non è agape.


3. Dopo aver affermato che siamo in debito e che il debito che abbiamo verso il prossimo è quello dell’amore, Paolo parla del tempo che stanno vivendo, lui e la sua generazione, la prima generazione cristiana.
Il momento è cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Il tempo cruciale è quello che separa il presente che Paolo e i cristiani di Roma stanno vivendo dal momento del ritorno di Gesù. Sappiamo bene che loro si attendevano un ritorno imminente di Gesù, e che per loro era davvero un tempo speciale.
Il tempo cruciale è il tempo dell’avvento di Cristo, nel senso del suo secondo avvento, del suo ritorno, e per questo è il tempo dell’amore, dell’amore come unico debito verso il prossimo.
E per noi? Per noi il tempo non sembra più essere cruciale, sembra diventato normale; per noi il tempo si è dilatato, e si è dilatato così tanto che il rischio è che non aspettiamo nemmeno più.
E invece no, anche se sono passati duemila anni, anche per noi è sempre ancora il momento dell'attesa, dell'avvento (il secondo) di Cristo, e quindi è ancora sempre il tempo dell’amore, dell’amore come unico debito verso il nostro prossimo.
Il fatto che il tempo di attesa non sia più breve, non significa che non sia più il tempo cruciale, che non sia più il tempo dell'amore. Lo è ancora, è ancora il tempo dell’amore.
Perdere la consapevolezza che il tempo è cruciale, che il tempo è quel tempo lì, in cui ci si aspetta il ritorno di Gesù, in cui ci si aspetta il suo regno significa perdere il tempo dell’amore, dimenticare che viviamo nel tempo dell’amore. Questo ci sta dicendo oggi Paolo, lo dice a noi come lo diceva ai cristiani di Roma quasi duemila anni fa.
Perché noi potremmo pensare – e molti lo pensano – che non vale la pena amare, non vale la pena vivere azioni di amore, compiere scelte di amore, perché tanto non cambia nulla, tanto domani sarà come ieri, tanto tutto è inutile.
Al massimo cerchiamo di amare, di agire, di preoccuparci di quelle relazioni in cui alla fine ci torna indietro qualcosa, in cui vi è un po’ di contraccambio. Ma l’amore gratuito no, quello è amore sprecato, fatica sprecata, tempo sprecato. Questo è ciò che pensano molti.
Queste però sono le tenebre, questo è il sonno di cui parla Paolo, il tempo senza amore, senza agape, senza quell’amore gratuito che Gesù ha avuto per noi e che ci ha insegnato.
Ma è ora ormai che vi svegliate dal sonno, dice Paolo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. La notte è avanzata, a noi forse sembra avanzata troppo, sembra non finire più, ma finirà, ci è promesso e quindi siamo chiamati a svegliarci e a indossare le armi della luce.
Le armi della luce sono le armi di Cristo, che, come è noto, non ha usato armi se non la parola, e non ha avuto altri obiettivi se non il perdono, se non la guarigione, se non la liberazione, se non il riscatto degli emarginati.
Ogni volta che qualcuno viene perdonato, che qualcuno guarisce – non solo nel corpo ma anche nell’animo – che qualcuno viene liberato, che qualcuno viene riscattato, lì splende la luce di Cristo, lì splende l’agape di Cristo.
Ci aiuti il Signore a non avere altro debito se non l’amore, perché questo tempo che ci è dato di vivere è un lungo tempo di avvento, e quindi un lungo tempo per amare.