venerdì 27 dicembre 2019

Predicazione di Natale 2019 su Tito 3,4-7 a cura di Marco GIsola

Tito 3,4-7

4 Ma quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, 5 egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, 6 che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, 7 affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna.

«La bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati». Ecco riassunto in poche parole l’evangelo, il nucleo e il centro dell’evangelo. Leggiamo, oggi, a Natale, questo testo che non parla della nascita di Gesù, ma che comunque parla della sua venuta nel mondo, della sua manifestazione (in greco “epifania”).
Leggere oggi questo testo significa affermare: con la nascita di Gesù la bontà di Dio e il suo amore per gli esseri umani sono stati manifestati. Quando si dice che qualcosa è manifesto si intende dire che tutti lo possono vedere o che tutti lo possono sapere, che è una cosa evidente.
Ma la nascita di Gesù è tutt’altro che una manifestazione pubblica, è una semplice e banale nascita come ne avvengono migliaia tutti i giorni da che mondo è mondo. Anzi, è una nascita che avviene in condizioni non proprio ideali, in una sistemazione di fortuna – la famosa stalla o grotta di Betlemme – senza nemmeno la presenza di una levatrice, di una ostetrica.
Una nascita anonima di un bambino, che allora era assolutamente anonimo; come le migliaia di bambini che nascono oggi, 25 dicembre 2019, in tutto il mondo, come tutti quelli che nascono in condizioni non ideali, anzi magari in circostanze proibitive, non in una sala parto sterile, ma in una casa nella polvere, nel fango o addirittura sotto le bombe di una delle tante guerre che insanguinano il nostro mondo.
Oggi nascono migliaia di bambini che per noi sono e rimarranno totalmente anonimi, come lo era Gesù in quella notte a Betlemme.
Eppure egli era ed è la manifestazione della bontà di Dio e del suo amore per gli esseri umani. Non lo sa nessuno, solo Maria e Giuseppe, a cui lo ha detto direttamente Dio stesso, solo gli angeli del cielo che cantano il “Gloria”, solo i magi avvertiti e guidati da una stella. Solo loro. Il resto del mondo non sa nulla.
La manifestazione di Dio avviene dunque nel nascondimento. Nulla di spettacolare, nulla di eclatante, nulla che sia neppure evidente. Anzi: sub contraria specie;
scusate il latino, ma è Lutero: sotto la specie contraria, ovvero la manifestazione di Dio avviene nel modo contrario a quello che ci aspetteremmo. Lutero parlava soprattutto della croce, ma tra la stalla di Betlemme e la croce di Gerusalemme c’è un collegamento diretto e una coerenza evidente.
Dio viene nel mondo nel modo contrario a quello che ci aspetteremmo: ce lo aspetteremmo potente, e lui viene impotente; ce lo aspetteremmo grande e lui viene piccolo; ce lo aspetteremmo forte e lui viene debole.
Si potrebbe obiettare che Gesù ha poi fatto miracoli e prodigi; ma quanti miracoli hanno generato fraintendimento e non fede? E quante volte Gesù ha rimproverato chi cercava da lui solo miracoli?
Dio viene in Gesù nell’umanità e nella debolezza. Dio viene nella debolezza e si lascia respingere e infatti Gesù è stato respinto, torturato, crocifisso. Chi avrebbe mai visto Dio in un uomo crocifisso? E chi dunque avrebbe mai riconosciuto Dio in un neonato nato in una stalla?
Solo coloro a cui Dio stesso lo dice capiscono che Gesù è un bambino speciale, il figlio di Dio. È così anche per noi: solo se ce lo dice Dio stesso possiamo credere che Gesù è il Figlio di Dio, solo se viene lui stesso con la sua Parola a annunciarcelo possiamo credere, solo l’evangelo ci può convincere di questo grazie all’opera dello Spirito Santo: «che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore»
Perché il fatto che Gesù è il figlio di Dio, che questo neonato è il messia di Israele venuto per tutta l’umanità, che la sua nascita e la sua morte sono il modo in cui Dio stesso si dà a noi e prende su di sé le nostre colpe, per darci perdono e speranza, tutto ciò lo possiamo solo credere.
Non lo possiamo verificare scientificamente, non lo possiamo provare o dimostrare con dei fatti evidenti a tutti, lo possiamo solo credere.
Lo crediamo perché Dio stesso ce lo dice, non servendosi di stelle o parlandoci attraverso angeli, ma parlandoci attraverso la sua Parola scritta nella Bibbia, che lo Spirito rende Parola vivente per noi.
E che cosa possiamo credere? Che questa venuta, questa manifestazione, che culminerà nella croce ma che inizia nella stalla di Betlemme, è la nostra salvezza, è la nostra giustificazione, come dice l’apostolo: «affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna».
Gesù viene per salvarci, per giustificarci, per donarci speranza. Anzi: ci ha salvato, ci ha giustificato, ci ha donato speranza. Questo è il motivo per cui Gesù viene, per cui è nato a Betlemme.
L’evento della nascita di Gesù, dell’incarnazione della Parola, la decisione di Dio di venire in mezzo a noi come uno di noi, è una evento di salvezza, una decisione di salvezza.
Natale è la decisione di Dio di salvare l’umanità. La venuta di Gesù non è una decisione che Dio ha preso per metterci alla prova, per vedere come l’umanità avrebbe trattato Gesù, se gli avesse creduto oppure no, se avesse messo in pratica ciò che egli ha detto oppure no.
La venuta di Gesù non è un metterci alla prova da parte di Dio, semplicemente perché se quella fosse stata una prova, dovremmo concludere che l’umanità non ha superato la prova. Gesù infatti non è stato accolto, ma è stato respinto, rifiutato, abbandonato, ucciso.
La manifestazione, quella visibile a tutti, a chi non ha gli occhi della fede, è tutta qui. Rifiuto e morte. Invece chi ha ricevuto in dono gli occhi della fede vede salvezza, giustificazione, speranza.
Se la nostra salvezza dipendesse da quanto e da come noi accogliamo Gesù e mettiamo in pratica ciò che egli ha detto, di certo la salvezza noi non l’avremmo ottenuta; con le nostre sole forze non l'avremmo ottenuta. È così ci raccontano i Vangeli ed è ciò che vediamo in ciò che accade quotidianamente intorno a noi.
La salvezza, invece, viene, come dice la lettera a Tito, viene da fuori di noi, viene da Dio; non per niente il testo parla dell’opera dello Spirito e di Gesù, è lui il “Salvatore”, è lui che ci salva.
La venuta di Gesù è già un evento di salvezza fin dalla stalla di Betlemme.
Per questo Natale è una festa gioiosa, che non ha nulla che fare con il fatto che noi siamo buoni o ‘più’ buoni, ma ha a che fare esclusivamente con “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”.
Questo evento di salvezza ha come prospettiva la vita eterna: “affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna”. L’irruzione di Dio nella storia umana ha come conseguenza la speranza. Speranza di vita eterna, ovvero speranza di essere un giorno cittadini del regno di Dio, ma speranza anche che Dio regni e la sua volontà sia fatta già qui ed ora.
La vita eterna non è soltanto un’altra vita, in un aldilà e che dura per sempre, ma è una vita altra da vivere qui ed ora. Una vita che qui ed ora riserva spesso fatiche e dolore ma che è erede della vita eterna, cioè che guarda e si orienta, a quella vita dove dolore non ci sarà più. Una vita che qui ed ora è vissuta in un mondo pieno di ingiustizia, ma che guarda a quella vita dove non ci sarà ingiustizia.
Siamo in speranza, eredi della vita eterna. Ovvero abbiamo qualcosa che ci è promesso – e ce lo abbiamo perché ci è promesso - ma che non abbiamo ancora pienamente e quindi viviamo avendolo lì davanti agli occhi e questo cambia tutto, cambia tutta la nostra vita.
Questa è la speranza cristiana, che è certezza, non vaga speranza affidata al caso, come nel linguaggio comune, ma certezza fondata sulla promessa di Dio.
E come abbiamo bisogno che qualcuno ci venga a dire che Gesù, contro tutte le evidenze, è il figlio di Dio, così abbiamo bisogno di qualcuno che ci venga a dire che, contro tutte le evidenze, possiamo fondare la nostra vita sulla speranza, che possiamo vivere sperando.
Ce lo dice ogni domenica, e ogni volta che la apriamo, la Parola di Dio, che ci porta la buona notizia della venuta di Cristo e della misericordia infinita di Dio.
Quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati, ci ha giustificati, ci ha donato speranza.
Oggi noi, riuniti insieme nel suo nome, riceviamo questa parola che parla a noi e parla di noi. Noi siamo stati salvati e giustificati, a noi è data speranza, tu sei stato salvato, a te è data speranza.
Possa questo evangelo accompagnarci non solo il giorno di Natale, ma accompagnarci e darci gioia e speranza ogni giorno della nostra vita.

lunedì 16 dicembre 2019

Predicazione di domenica 15 dicembre 2019 (terza di avvento) su Luca 3,1-14 a cura di Marco Gisola

Luca 3,1-14
1 Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, quando Ponzio Pilato era governatore della Giudea, ed Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell'Abilene, 2 sotto i sommi sacerdoti Anna e Caiafa, la parola di Dio fu diretta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.
3 Ed egli andò per tutta la regione intorno al Giordano, predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati, 4 come sta scritto nel libro delle parole del profeta Isaia: «Voce di uno che grida nel deserto: "Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.
5 Ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle sarà spianato; le vie tortuose saranno fatte diritte e quelle accidentate saranno appianate; 6 e ogni creatura vedrà la salvezza di Dio"».
7 Giovanni dunque diceva alle folle che andavano per essere battezzate da lui: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l'ira futura? 8 Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento, e non cominciate a dire in voi stessi: "Noi abbiamo Abraamo per padre!" Perché vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere dei figli ad Abraamo. 9 Ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero dunque che non fa buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». 10 E la folla lo interrogava, dicendo: «Allora, che dobbiamo fare?» 11 Egli rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». 12 Vennero anche dei pubblicani per essere battezzati e gli dissero: «Maestro, che dobbiamo fare?» 13 Ed egli rispose loro: «Non riscotete nulla di più di quello che vi è ordinato». 14 Lo interrogarono pure dei soldati, dicendo: «E noi, che dobbiamo fare?» Ed egli a loro: «Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denuncie, e contentatevi della vostra paga».


Il lezionario ci propone oggi la predicazione di Giovanni il battista, il “precursore” colui che precede la venuta di Gesù e la preannuncia.
Gesù si fa battezzare da Giovanni e questo è il segno della sua partecipazione alla nostra umanità, anzi alla parte più bassa della nostra umanità. Gesù, che è senza peccato, fa porre su di sé il segno del battesimo che è segno di conversione, benché non ne abbia bisogno, come per dire: sono con voi, sono come voi, sono qui per voi.
Questo brano ci è proposto ora, in tempo di avvento, perché come Giovanni attende la venuta di Gesù e la prepara, così in avvento si attende il Natale, cioè la nascita, la venuta di Gesù nel mondo e quindi questo brano è un invito a prepararci ad accoglierlo.
Vediamo allora che cosa ci dice questo racconto. Partiamo dai luoghi, che in questo brano non sono secondari:
Giovanni il battista predica nel deserto. Non lo incontriamo a Gerusalemme, nel tempio, nei luoghi del potere politico o religioso. Lo incontriamo nel deserto, dove la tradizione voleva che abitassero i demoni, cioè i nemici di Dio, dove stanno le bestie feroci, dove forse c’erano monaci ed eremiti.
Giovanni è lì, lontano dal centro, dai centri del potere, del commercio, del sacro. E la gente va lì, va da lui. Il deserto nella storia ebraica è anche legato inscindibilmente all’Esodo e allora è come se Giovanni invitasse la gente a un piccolo esodo, a un esodo da sè stessi, a un viaggio fuori di sé per andare ad ascoltare una parola diversa, forse scomoda, ma estremamente liberante.
Ma non solo: il testo ci dice che Giovanni “andò per tutta la regione intorno al Giordano”, cioè Giovanni non sta fermo in un posto, non ha una “sede”, vaga, si sposta, è un profeta itinerante. E la regione intorno a Giordano è regione di confine – e che confine – tra Israele e i territori pagani.
La predicazione di Giovanni non si rivolge solo ed esclusivamente agli ebrei, ma a tutti quelli che cogliono ascoltarlo, come sarà per l’evangelo dopo la Pentecoste e già tante volte durante il ministero di Gesù.
Una predicazione sul confine, lontano dal centro, che chiama a un esodo. Giovanni predica un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. Giovanni chiama al cambiamento. La parola tradotta con “ravvedimento” significa “cambiamento di mentalità” e quindi cambiamento di vita.
Non è ravvedimento nel senso di pentirsi per aver fatto qualcosa di male (benché se uno ha fatto qualcosa di male, ovviamente pentirsene è positivo), nel senso di chiedere scusa (benché chiedere scusa sia sempre un atto di sincerità e di umiltà), ma è proprio un cambiamento, nel senso di cambiare modo di vedere gli altri e se stessi.
È questo che chiede Giovanni, è questo che chiederà Gesù tante volte alle molte persone che incontra. Lui che era capace di vedere l’altro con occhi diversi, con gli occhi di Dio. A noi è chiesto di cambiare sguardo e cambiare vita.
È necessario cambiare, dice Giovanni. E perché? Perché sta arrivando il Signore. E cita il profeta Isaia: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle sarà spianato; le vie tortuose saranno fatte diritte e quelle accidentate saranno appianate; e ogni creatura vedrà la salvezza di Dio”
Potremmo chiederci: ma c’era proprio bisogno di Giovanni? Non bastava Gesù? Non saranno abbastanza chiare le parole che Gesù dirà, i gesti che compirà? che cosa aggiunge Giovanni a quello che Gesù dirà e farà?
Al ministero di Gesù, Giovanni non aggiunge nulla. Giovanni viene per il suo popolo e per tutti noi ad annunciare la venuta di Cristo e per insegnarci ad accoglierlo.
E poi potremmo chiederci: che cosa vuol dire: “Preparate la via del Signore”? Siamo noi che prepariamo la via al Signore? Siamo noi che accogliamo lui o è lui che accoglie noi? Siamo noi che gli spianiamo la strada? Dio ha bisogno di me e di noi per poter venire?
Dio viene anche senza di noi, anche senza la nostra collaborazione, viene anche se io non gli preparo la strada, se la fa da solo la strada. Dio viene anche senza di me e se è necessario viene anche contro di me, viene anche se io, anziché preparargli la strada, dovessi mettere degli ostacoli alla sua venuta.
La sua venuta non dipende certo da me. Dio viene comunque e nonostante tutti gli ostacoli che noi possiamo mettergli in mezzo alla strada.
Ma non è che Dio ha bisogno di essere accolto per poter venire, viene comunque. Non ha bisogno di essere accolto, ma vuole essere accolto, vuole essere ricevuto. I racconti del Natale ci raccontano subito che Gesù viene accolto e viene respinto. Viene accolto dai pastori e dai magi d’Oriente, viene respinto, per esempio dal re Erode, come ci racconta Matteo. Quando Dio viene lo si può accogliere o respingere.
Perché viene deboli fra i deboli, povero fra i poveri. E non ricco fra i ricchi, non potente fra i potenti. Per questo lo si può respingere, si lascia respingere.
E invece per accoglierlo, è necessario cambiare, farci trasformare dalla Parola e lavorare su noi stessi, su ciò che facciamo e su ciò che abbiamo. Giovanni infatti dà delle indicazioni molto pratiche. Ma prima di vedere che cosa dice, chiediamoci: a chi dà queste indicazioni pratiche?
A quelli che venivano per farsi battezzare. Ovviamente non sappiamo e non possiamo giudicare, ma forse qualcuno di loro avrà pensato che quel battesimo, quel rito, sarebbe stato sufficiente per ottenere il perdono.
E infatti da Giovanni ci vanno le folle. Se avessero pensato che sarebbe stata un cosa difficile, impegnativa, forse non sarebbero accorsi così in tanti. E Giovanni li accoglie così:
«Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire l'ira futura? Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento, e non cominciate a dire in voi stessi: "Noi abbiamo Abraamo per padre!" Perché vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere dei figli ad Abraamo.
È molto duro Giovanni, ha parole pesanti, ma offre anche una possibilità, la possibilità di cambiare, di fare frutti degni di ravvedimento, ovvero di fare – appunto – delle cose che dimostrino il cambiamento.


Non basta il rito – noi diremmo: non basta il sacramento – non basta nemmeno essere figli di Abramo, appartenere al popolo eletto. Non basta l'appartenenza, né al popolo ebraico, né a una chiesa cristiana. Perché Dio può far nascere dei figli ad Abramo – noi diremmo dei discepoli e delle discepole – persino da delle pietre!
E allora gli chiedono che cosa debbano fare. Forse ci stupisce che le richieste di Giovanni non siano poi così radicali. Almeno due richieste su tre non sono molto radicali: partiamo dagli ultimi, dai soldati: forse noi ci aspetteremmo che Giovanni chiedesse loro di cambiare mestiere, di deporre le armi.
Ci sembrerebbe più coerente con il messaggio che ci ha lasciato Gesù. Nell’antichità si sa che alcuni cristiani rifiutarono di fare parte dell’esercito dell’impero romano per non dover portare armi. E invece Giovanni chiede loro di fare il loro lavoro onestamente e in pratica di non abusare del loro potere.
Nemmeno ai pubblicani Giovanni dice di cambiare mestiere, di non collaborare più con i romani, ma chiede loro di non riscuotere più di quanto devono riscuotere. Chiede quindi loro onestà. Ci sembra poco, ma in fondo se tutti fossero onesti e corretti e nessuno abusasse del suo potere o della sua posizione, il mondo sarebbe già molto diverso.
E invece alla folla che chiede che cosa debba fare Gesù risponde così: «Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Questo non è chiesto a una categoria particolare di persone, è chiesto a tutti. È la condivisione, ma non la condivisione del poco o del superfluo, ma della metà. Questa sì che è una richiesta radicale. Se hai due tuniche, danne una a chi non ne ha.
Se ne ho cinque e ne do una a chi non ne ha, quello ora ne ha una, è vestito e non è più nudo. È già un bel passo avanti.
Ma io ne ho ancora quattro e non c’è quindi uguaglianza tra me e lui. Io ne ho sempre tre in più, quattro volte tanto. La condivisione che propone Giovanni porta all'uguaglianza. La stessa uguaglianza espressa dall’immagine di Isaia, la strada che si apre abbassando i colli e riempiendo le valli, ovvero appianando le differenze tra forti e deboli, tra potenti e emarginati, tra ricchi e poveri, tra degni e indegni...
Per accogliere Dio, per accogliere Gesù bisogna fare qualcosa, bisogna cercare e creare onestà e giustizia, eliminare gli abusi di potere e tutto ciò allo scopo di cercare e creare uguaglianza.
Giovanni il battista vuole dirci che Dio non viene solo a darci delle coccole, e nemmeno a proporci dei riti che lo facciano contento. Ma vuole entrare nella nostra vita e cambiarla, renderla più giusta, affinché rendendo la nostra vita più giusta, possiamo contribuire a rendere il mondo più giusto.
Questo vuole il Dio che viene, questo ci chiede. Poi lui viene lo stesso, viene e verrà a ripeterci le stesse cose che ha detto Giovanni e a dirne di altre, di nuove.
Viene e verrà ad offrirci il suo perdono e il suo amore, ma mai senza la sua parola che chiama al cambiamento: “fate frutti degni del ravvedimento”, fate frutti di onestà, di giustizia, di uguaglianza.
Questo è il programma di Gesù che Giovanni il battista ha anticipato. Questo è il dono di Gesù, che Giovanni ha preannunciato. Il cambiamento è possibile, la scelta di onestà, di giustizia, di uguaglianza è possibile.
È possibile perché Dio viene, perché Dio è venuto in Gesù di Nazaret, il Cristo. Non ha trovato strade spianate, ha ancora trovato tanti colli e tanti avvallamenti, tante ingiustizie, tanti squilibri; eppure è venuto lo stesso a continuare a chiamarci al cambiamento.
Noi non siamo meglio di quella folla che andava da Giovanni il battista. Ma ogni volta che ascoltiamo colui che Giovanni preannunciava, ogni volta che ascoltiamo Gesù riceviamo una parola di grazia e un appello al cambiamento. Ogni volta che lo ascoltiamo può iniziare qualcosa di nuovo.
Per questo ringraziamo il Dio che viene e non smette di venire nelle nostre vite, per cambiarle e riempirle di gioia e speranza.

domenica 1 dicembre 2019

Predicazione di domenica 1 dicembre 2019 (prima di Avvento) su Romani 13,8-12 a cura di Marco Gisola

Romani 13,8-12

Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti il «non commettere adulterio», «non uccidere», «non rubare», «non concupire» e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». L'amore non fa nessun male al prossimo; l'amore quindi è l'adempimento della legge. E questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.


1. La parola debito non piace a nessuno, eppure Paolo usa proprio questa parola, il cui significato va dal classico debito da pagare e si estende fino all’idea di dovere, dell’essere tenuto a fare o dare qualcosa.
Siamo debitori, dunque, o siamo tenuti a dare qualcosa al prossimo. Che cosa? Amore, dice Paolo; e agape è la parola greca che Paolo usa.
Siamo debitori di amore. Debitori perché abbiamo ricevuto amore in modo sovrabbondante da Dio e Dio ci chiede di “restituirlo” al nostro prossimo. “Restituirlo” tra virgolette, perché restituire vuol dire ridare qualcosa a chi ce l’ha data, e noi questo amore ovviamente non lo restituiamo a chi ce l’ha donato, cioè a Dio, ma a chi non ce l’ha donato, al prossimo.
Dio ci ha donato questo amore gratuitamente, questa è l’agape, l’amore gratuito, perché – lo diciamo sempre – l’amore o è gratuito o non è. O meglio: l’agape o è gratuita o non è agape. C’è un amore, molto umano, che spera sempre di essere ricambiato ed è normale, è umano, perché ciascuno ha bisogno di essere amato.
Ma l’amore che ci chiede di vivere il Signore – l’agape, appunto – questo non si aspetta il contraccambio. Quindi Dio ti ama gratuitamente e ti chiede di amare gratuitamente. È chiaro che tutti noi speriamo che da amore nasca altro amore e spesso accade, grazie a Dio.
Ma anche se non accade, anche quando non accade rimane valido il comandamento, perché rimane il debito che abbiamo anche verso chi non ci ama. L’amore del prossimo in senso biblico cerca non la soddisfazione di chi ama, ma quella di chi è amato.
E se siamo debitori significa che non siamo creditori. Paolo vuole che vediamo noi stessi come debitori prima che come creditori.
Noi spesso tendiamo a mettere al primo posto ciò di cui noi abbiamo bisogno, ciò che noi desideriamo, ciò che gli altri potrebbero o (secondo noi) dovrebbero fare per noi. La Parola di Dio ci invita a mettere al primo posto ciò che noi possiamo dare e fare per gli altri.
Anzi, sembra addirittura che qui Paolo dica che sia l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci: non abbiate altro debito se non di amarvi gli uni gli altri. Letteralmente: “A nessuno di nulla siate debitori, se non…”.
Nessun altro debito. Agli altri dovete amore – dice Paolo – non dovete sottomissione, non dovete farvi dominare, non dovete cieca obbedienza a nessuno, non dovete adulare nessuno, davanti a nessuno dovete rinunciare alla vostra dignità e alla vostra libertà. Tutto ciò non lo dovete a nessuno. Quello che dovete a tutti, quello di cui siete debitori a tutti è l’agape, l’amore gratuito.


2. Noi leggiamo questo brano la prima domenica di avvento che ci spinge a mettere questo comandamento dell’amore nell’ottica dell’incarnazione. Gesù viene per amore, per amarci, e come ci ama? Prendendo la nostra umanità, diventando come noi, scendendo al nostro livello.
Noi non siamo il figlio di Dio, non possiamo incarnarci nel prossimo, rimane per forza di cose una distanza tra noi e le persone che amiamo, anche dalle persone che amiamo più di ogni altra, anche dai genitori, dai figli, dal compagno o dalla compagna di vita rimane una distanza, diciamo pure una salutare distanza, non possiamo immedesimarci nel prossimo come ha fatto Gesù.
Rimane però l’indicazione di un criterio, che ci dice che per amare bisogna scendere e avvicinarsi, come il figlio di Dio è disceso dai cieli sulla terra, dalla divinità all’umanità. Che ci dice che per amare qualcuno bisogna cambiare, trasformarsi, come ha fatto Gesù con noi.
Anche noi per amare dobbiamo scendere e avvicinarci, ben sapendo che non possiamo e non dobbiamo identificarci, anche noi per amare dobbiamo cambiare.
Amare è andare verso l’altro e lasciarsi trasformare dall’incontro con l’altro, con quell’altro che abbiamo davanti, non un altro generico, non “tutti” gli altri, ma il prossimo che Dio fa incrociare il nostro cammino.
Se si sta fermi, se non si è disposti a scendere, cioè a cambiare, a scendere dai nostri preconcetti e dall’idea di sapere a priori quel che c’è da fare, si rimane lontani e l’amore non è gratuito, non è agape.


3. Dopo aver affermato che siamo in debito e che il debito che abbiamo verso il prossimo è quello dell’amore, Paolo parla del tempo che stanno vivendo, lui e la sua generazione, la prima generazione cristiana.
Il momento è cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.
Il tempo cruciale è quello che separa il presente che Paolo e i cristiani di Roma stanno vivendo dal momento del ritorno di Gesù. Sappiamo bene che loro si attendevano un ritorno imminente di Gesù, e che per loro era davvero un tempo speciale.
Il tempo cruciale è il tempo dell’avvento di Cristo, nel senso del suo secondo avvento, del suo ritorno, e per questo è il tempo dell’amore, dell’amore come unico debito verso il prossimo.
E per noi? Per noi il tempo non sembra più essere cruciale, sembra diventato normale; per noi il tempo si è dilatato, e si è dilatato così tanto che il rischio è che non aspettiamo nemmeno più.
E invece no, anche se sono passati duemila anni, anche per noi è sempre ancora il momento dell'attesa, dell'avvento (il secondo) di Cristo, e quindi è ancora sempre il tempo dell’amore, dell’amore come unico debito verso il nostro prossimo.
Il fatto che il tempo di attesa non sia più breve, non significa che non sia più il tempo cruciale, che non sia più il tempo dell'amore. Lo è ancora, è ancora il tempo dell’amore.
Perdere la consapevolezza che il tempo è cruciale, che il tempo è quel tempo lì, in cui ci si aspetta il ritorno di Gesù, in cui ci si aspetta il suo regno significa perdere il tempo dell’amore, dimenticare che viviamo nel tempo dell’amore. Questo ci sta dicendo oggi Paolo, lo dice a noi come lo diceva ai cristiani di Roma quasi duemila anni fa.
Perché noi potremmo pensare – e molti lo pensano – che non vale la pena amare, non vale la pena vivere azioni di amore, compiere scelte di amore, perché tanto non cambia nulla, tanto domani sarà come ieri, tanto tutto è inutile.
Al massimo cerchiamo di amare, di agire, di preoccuparci di quelle relazioni in cui alla fine ci torna indietro qualcosa, in cui vi è un po’ di contraccambio. Ma l’amore gratuito no, quello è amore sprecato, fatica sprecata, tempo sprecato. Questo è ciò che pensano molti.
Queste però sono le tenebre, questo è il sonno di cui parla Paolo, il tempo senza amore, senza agape, senza quell’amore gratuito che Gesù ha avuto per noi e che ci ha insegnato.
Ma è ora ormai che vi svegliate dal sonno, dice Paolo. La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. La notte è avanzata, a noi forse sembra avanzata troppo, sembra non finire più, ma finirà, ci è promesso e quindi siamo chiamati a svegliarci e a indossare le armi della luce.
Le armi della luce sono le armi di Cristo, che, come è noto, non ha usato armi se non la parola, e non ha avuto altri obiettivi se non il perdono, se non la guarigione, se non la liberazione, se non il riscatto degli emarginati.
Ogni volta che qualcuno viene perdonato, che qualcuno guarisce – non solo nel corpo ma anche nell’animo – che qualcuno viene liberato, che qualcuno viene riscattato, lì splende la luce di Cristo, lì splende l’agape di Cristo.
Ci aiuti il Signore a non avere altro debito se non l’amore, perché questo tempo che ci è dato di vivere è un lungo tempo di avvento, e quindi un lungo tempo per amare.




domenica 3 novembre 2019

Predicazione di Domenica 3 Novembre 2019 (Giornata della Riforma) su Deuteronomio 6,4-9 a cura di Marco Gisola

Deuteronomio 6,4-9
Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l'unico SIGNORE.Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città.


Ascolta Israele! In ebraico: Shemà Israel. Il testo per la domenica della Riforma di quest’anno – chiamato appunto lo Shemà - è quel brano che è diventato la confessione di fede degli ebrei, che un ebreo è chiamato a ripetere tutti i giorni due volte al giorno.
Ascolta Israele! E ascolta anche tu, discepolo o discepola di Gesù di Nazaret! Ascoltiamo anche noi, perché Dio ha qualcosa da dirci. Ascolta, perché la fede nasce dall’ascolto. Ascolta, perché tutto nasce dalla Parola, tutto ciò che esiste, tutto ciò che siamo, tutto ciò che Dio vuole che noi siamo.
Ascolta, perché non soltanto la fede nasce dall’ascolto. Anche la gioia nasce dall’ascolto di quella parola di liberazione che Dio ha pronunciato in Gesù Cristo. Perché il Dio che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù non vuole che nessuno sia schiavo e continua a liberare e a portare la sua parola di liberazione nel mondo.
Ascolta, perché anche la comunione nasce dall’ascolto della Parola che chiama non solo te, non solo me, ma chiama noi e chiama molti e ci chiama insieme, abbattendo i muri e portando riconciliazione, e dunque comunione.
Ascolta, perché anche la speranza nasce dall’ascolto dell’evangelo della resurrezione, perché quella Parola fa risorgere e fa rinascere a nuova vita i colpevoli, gli scoraggiati, gli oppressi. Rialza chi è curvo sotto i pesi della vita o del dolore; apre gli occhi a chi è cieco e non sa più vedere alcun futuro; rimette in marcia chi è stanco e rassegnato.
Ascolta, perché anche l’amore nasce dall’ascolto di quella Parola, che ci parla dell’amore di cui Dio ci ama e che ci ha rivelato nel suo figlio, quella Parola che ci insegna ad amare, a noi che non saremmo capaci di amare, o che vorremmo amare chi ci ama, che vorremmo decidere noi chi amare e come amarlo.
E invece quella Parola ci insegna ad amare chi il Signore sceglie per noi, a partire da chi ha più bisogno di amore, forse a partire proprio da chi meno sa amare.
Ascolta, perché tu hai bisogno, noi abbiamo bisogno di fede, di fiducia, di gioia, di comunione, di speranza e di amore e tutto questo lo incontriamo, lo riceviamo e lo impariamo nell’ascolto della Parola di Dio.
Ascolta, perché è Dio che ci parla, che ci parla di sé, ci dice chi lui è, ci dice che cosa ha fatto e che cosa fa, che cosa ha promesso e che cosa manterrà. È Dio che ci parla e ci dice chi siamo noi, donne e uomini che senza quella parola rischiano di ascoltare soltanto la propria voce e di vedere soltanto se stessi e i proprio bisogni, quando non i propri capricci.
Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l'unico SIGNORE. In queste parole c’è tutta la storia di Dio con Israele, nel suo nome – perché in questa frase c’è il nome di Dio: la parola tradotta con “Signore” è il tetragramma, le quattro lettere del nome di Dio – nel suo nome c’è in fondo tutto l’Esodo, c’è la liberazione e c’è il patto sul monte Sinai, c’è la Torah.
Ascolta è la prima parola; che ci mette in relazione con Dio, che fa nascere un dialogo, perché all’ascolto di Dio e della sua parola segue la risposta, la risposta che siamo chiamati a dare con la nostra parola, con la nostra preghiera, con la nostra gratitudine, con la nostra richiesta, a volte anche con il nostro lamento e spesso anche con le nostre domande.
Ascolta, perché fiducia, gioia, comunione, speranza e amore non nascono spontaneamente dentro di noi ma vengono da fuori di noi, ci vengono donate, sono dono di Dio, sono il suo regalo che ci ha fatto chiamandoci alla fede nel suo figlio Gesù.

Ascolta è la prima parola, e la seconda è Ama: Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze.
Ascolta Dio e Ama Dio. Ma che cosa vuol dire amare Dio? Non è una questione di sentimento. Amare Dio significa – tra le tante altre cose – affidarsi e seguire la sua Parola. Affidarsi al Dio liberatore, al Dio che ha liberato Israele dall’Egitto, affidarsi a Gesù che ci ha liberati dalla colpa e dalla paura.
Affidarsi a colui che ha liberato e che ci vuole liberi, affidarsi a lui per rimanere liberi.
E poi seguire la sua Parola, ovvero mettere in pratica i suoi comandamenti, cioè la sua volontà.
Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; il cuore per l’ebraismo è l’organo non del sentimento, ma della volontà: questi comandamenti vogliono diventare la volontà di chi li riceve, vogliono diventare la nostra volontà.
Dio vuole che la sua volontà diventi la nostra; questa è la conversione a cui hanno chiamato i profeti, a cui ha chiamato Giovanni il battista, a cui ha chiamato Gesù proprio all'inizio della sua predicazione.
Questi comandamenti li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.
I comandamenti di Dio vogliono riempire tutto il tempo e tutto lo spazio della vita dell’ebreo, come la Parola di Dio vuole riempire tutto il tempo e tutto lo spazio della nostra vita; nel senso che vuole accompagnarci, guidarci, sostenerci e incoraggiarci in ogni luogo e in ogni tempo, in casa o per via, nel privato e nel pubblico.
Questi comandamenti Te li legherai alla mano come un segno, cioè li legherai a ciò che la tua mano fa, alle tue azioni, alle tue decisioni. Tutto ciò che la tua mano fa deve tenere presente i comandamenti di Dio. E nulla di ciò che la tua mano possa fare è escluso dal seguire i comandamenti di Dio e dal metterli in pratica.
Questi comandamenti Te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi, cioè tutto ciò che guarderai, lo guarderai con gli occhi guidati e trasformati dai comandamenti, lo guarderai con gli occhi di Dio. Tu ebreo liberato dalla schiavitù, guarderai il tuo fratello ebreo o la tua sorella ebrea come colui o colei, che come te, è stato liberato dall’Egitto, dalla casa di schiavitù. Lo/la guarderai come una persona libera e liberata come te.
E tu, discepolo e discepola di Gesù, guarderai tua sorella e tuo fratello con gli occhi di Cristo, come colui o colei per il/la quale egli ha dato la sua vita, come l’ha data per te; come colui o colei per il/la quale è risorto e ha vinto la morte, come per te.
Questi comandamenti li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città. Ti guideranno nella tua vita privata – gli stipiti della tua casa – e nella tua vita pubblica – le porte della tua città.
Perché Dio vuole che la sua volontà sia fatta nel privato come nel pubblico, nella vita familiare e amicale e nella vita sociale e pubblica. Perché Dio è il Signore della tua vita privata e della tua vita pubblica.
Dunque ascolta Dio e ama Dio. E il prossimo? Già nell’ebraismo contemporaneo di Gesù, al comandamento di amare Dio era unito il comandamento dell’amore per il prossimo.
Quando nel vangelo di Luca (10,27), Gesù interroga il dottore della legge e gli chiede che cosa sia scritto nella legge, egli risponde: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il tuo prossimo come te stesso».
E Paolo affermerà che «chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti tutti i comanda-menti si riassumono in questa parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Rom 13,9).
Potremmo dire che il contenuto dei comandamenti è l’amore per il prossimo e che l’amore per il prossimo è la sintesi e l’apice di tutti i comandamenti. Quindi in fondo nello Shemà, nell’Ascolta Israele, il prossimo c’è, anche se non è nominato, perché ci sono i comandamenti.
Non c’è amore per Dio senza amore per il prossimo, semplicemente perché Dio, nei suoi comandamenti, chiede di amare il prossimo.
Oggi è la domenica della Riforma, che sicuramente ha rimesso al centro l’ “ascolta”. Ma ha anche sottolineato l’ “ama”. E ha detto che per imparare ad amare è necessario ascoltare.
Perché la Parola che siamo chiamati ad ascoltare è la Parola che ci dice che Dio ci ama e che per questo ci chiede di amarlo e di riporre in lui la nostra fiducia.
E che ci dice che amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza e con tutta la mente significa affidarci a lui e con lui andare verso il nostro prossimo per amare anche lui con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza e con tutta la mente.
Per imparare questo è necessario ascoltare la sua Parola; perché la nostra volontà sia convertita e diventi simile alla sua è necessario ascoltare la sua Parola; per trovare la forza, la passione e la gioia per fare questo è necessario ascoltare la sua Parola.
Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l'unico SIGNORE.
È l’unico che ti ha amato così tanto da arrivare alla croce di Gesù, per te, per amor tuo e perché tu imparassi a amarlo e ad amare il prossimo.
Ama, dunque. E per amare, ascolta la sua Parola d’amore.


lunedì 28 ottobre 2019

Predicazione di domenica 27 ottobre 2019 su Matteo 14,22-33 a cura del predicatore locale Giuseppe Sgroi

Matteo 14,22-33
22 Subito dopo, Gesù obbligò i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, mentre egli avrebbe congedato la gente. 23 Dopo aver congedato la folla, si ritirò in disparte sul monte a pregare. E, venuta la sera, se ne stava lassù tutto solo. 24 Frattanto la barca, già di molti stadi lontana da terra, era sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. 25 Ma alla quarta vigilia della notte, Gesù andò verso di loro, camminando sul mare. 26 E i discepoli, vedendolo camminare sul mare, si turbarono e dissero: «È un fantasma!» E dalla paura gridarono. 27 Ma subito Gesù parlò loro e disse: «Coraggio, sono io; non abbiate paura!» 28 Pietro gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire da te sull'acqua». 29 Egli disse: «Vieni!» E Pietro, sceso dalla barca, camminò sull'acqua e andò verso Gesù. 30 Ma, vedendo il vento, ebbe paura e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!» 31 Subito Gesù, stesa la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» 32 E, quando furono saliti sulla barca, il vento si calmò. 33 Allora quelli che erano nella barca lo adorarono, dicendo: «Veramente tu sei Figlio di Dio!»


Tu sei veramente il Figlio di Dio
Questa è la frase che era alla base del credo della chiesa delle origini…. e chiaramente anche della chiesa di oggi.
Ma proprio nell’oggi che viviamo, questo tipo di confessione di fede non è facilmente comprensibile da tutti e quindi anche la sua accettazione crea, alcune volte dei problemi, per differenti ragioni che però appaiono logicamente valide
Un giorno un uomo si reca dal suo barbiere come tutti i mesi. I due uomini si conoscono da molto tempo. Durante il lavoro del barbiere, l’uomo che aveva con sé una bibbia, leggeva. Il barbiere non gli disse nulla, lo lasciò nella sua lettura e continuò il suo lavoro. Una volta finito, l’uomo pagò come sempre; a quel momento, il barbiere gli disse: “ho visto che mentre io ti tagliavo i capelli, tu leggevi la bibbia; beh volevo dirti che io non credo e non potrò mai credere ad un dio e nemmeno al Dio biblico. Si perché – continuò il barbiere – se Dio esistesse veramente, allora il male che vediamo tutti i giorni nel mondo non esisterebbe, né le malattie, né le guerre, né la cattiveria, né la morte né il dolore.
No! Dio non esiste!
L’uomo non seppe rispondere a questa posizione così chiara, franca, netta; lo salutò e si avviò verso l’uscita. Uscendo però, sul marciapiede davanti la porta d’ingresso al salone del barbiere, c’era un ragazzo, uno di quelli girovaghi e un po’ barboni, con una chitarra e un piattino per raccogliere gli spiccioli; aveva i capelli lunghi, barba lunga e incolta.
L’uomo si fermò un istante e poi chiese al ragazzo di entrare con lui nel salone del barbiere, solo alcuni istanti.
Stranamente il ragazzo accettò e così entrarono. A quel punto l’uomo disse al barbiere: “sai amico mio, i barbieri non esistono!” La risposta del barbiere fu attonita ma anche secca: “Impossibile, i barbieri esistono, io sono un barbiere e sono qui in carne e ossa e tu sei nel mio salone”.
No” – rispose l’uomo – “il fatto che tu sia qui e che questo sia un salone da barbiere, non vuole assolutamente dire che i barbieri esistano. No! I barbieri non esistono, perché se esistessero non ci sarebbero delle persone come questo giovane con i capelli lunghi e la barba incolta”
A quel punto il barbiere rispose: “questo non vuol dire che i barbieri non esistano ma semplicemente, sono le persone come questo ragazzo che non vengono da noi.
Ecco” - rispose l’uomo – “per quanto riguarda Dio è la stessa cosa: non è Lui che non esiste ma sono gli uomini che non si rivolgono a Lui”!
Questa storiella semplifica molto e se si vuole, banalizza certe domande aperte, pensieri, argomenti seri che riguardano Dio e la sfera del divino.
Ma la frase “Tu sei veramente il Figlio di Dio” ritorna indirettamente in questo discorso.
Esattamente come ritorna la questione dell’esistenza di Dio tout court.
È anche vero che molte persone (anche se non si può generalizzare ovviamente), nominano Dio solo nei momenti di difficoltà peggiori. Viene nominato solo quando il fragore della tempesta della vita è veramente forte, quando le avversità sono significative, quando le ondate arrivano ad inondare la vita, ad affondare l’esistenza.
Nella maggior parte dei casi quindi, Dio è il tappabuchi dell’esistenza umana.
Spesso dunque, le persone, uomini e donne, credenti compresi, noi ci si ritrova quasi come il racconto dei discepoli nella loro navicella.
Occorre dire che i vangeli e generalmente tutti gli scritti neotestamentari, erano indirizzati a dei lettori cristiani e quindi la chiesa nel suo complesso, era la destinataria verso la quale anche questo vangelo era inizialmente indirizzato.
Infatti, in questo testo la barca è stata individuata, durante tutta la storia del cristianesimo, alcune volte come il simbolo della chiesa, della sua vita e delle sue difficoltà, altre volte come simbolo della vita spirituale dell’uomo, della donna, dell’umanità insomma.
Leggendo questo racconto che si trova anche nell’evangelo di Marco, anche se con accenti differenti, non è la prima volta che i discepoli si ritrovano in mezzo ad una tempesta; già al capitolo 8 di questo stesso Vangelo è raccontato dei discepoli sulla loro navicella, nella loro piccola barca sballottati dalle onde e dai venti e il Maestro con loro ma dormiente; nel testo odierno invece, il Maestro è assente.
In ambedue i casi, Gesù era inattivo. Non faceva nulla oppure non era con loro.
In questo passaggio, Gesù dice ai suoi discepoli, di passare all’altra riva; Lui personalmente avrebbe congedato le folle, in modo da poter riservare un piccolo spazio tutto per sé, per salire sul monte e pregare in disparte.
Un’immagine molto romantica se si vuole, qualcuno potrebbe dire spirituale, io direi importante in quanto la sua assenza e la sua riapparizione in maniera sbalorditiva, è di fatto l’obiettivo di questo racconto.
È proprio nell’assenza che i discepoli sperimentano il bisogno e nel suo ritorno sulla scena, con la sua voce rassicurante, che possono realizzare le proprie speranze.
Ed è proprio ciò che i discepoli avrebbero dovuto provare, ma il racconto ci dice che non andò esattamente così
Al capitolo 8 la scena è simile: anche in quel caso viene raccontato che c’è una forte tempesta; nel testo greco quando si trova la parola tradotta con “tempesta” è invece “sisma”. Tempesta e sisma, terremoto divengono sinonimi d’avversità. I nostri concittadini del centro Italia ne sanno qualcosa in proposito.
Questo terremoto arriva quando nessuno ci pensa, quando le vite scorrono felicemente o se non vogliamo esagerare, scorrono tranquillamente.
Ed ecco, ad un bel momento, quando non né attesa né prevista, la tempesta arriva, le onde sono forti, un terremoto che distrugge tutto ciò che c’è intorno a noi, e in noi anche. E allora, si cerca di reagire, di resistere alle ondate impetuose, ai venti contrari, ai terremoti dell’anima. Ed è esattamente la stessa cosa che i discepoli stavano cercando di fare in quei momenti dove tutto appariva compromesso.
E quando il Maestro appare, per loro non è che un fantasma, si un fantasma.
Invece di essere contenti di vederlo, al contrario, ebbero paura, un’ulteriore paura, sommata alla paura della tempesta: lo vedevano camminare sulla acque, sulle onde che non lo affondavano…. “non è possibile, è sicuramente un fantasma! Non può essere Lui! No! ”
Non serve a nulla sentire la sua voce familiare che li rassicura: “non abbiate paura, sono io”
Sono io” dice Gesù messo in evidenza come l’“Io Sono” dei testi veterotestamentari, del tetragramma ebraico del nome divino, sinonimo dunque di potenza e di forza.
La risposta di Pietro è altrettanto sbalorditiva: “Signore se sei tu, allora ordinami di camminare sulle acque e di venire verso di te come se niente fosse, come se le onde non esistessero. Perché se tu me lo dici allora vuol dire che ciò è veramente possibile, perché mi ricordo di te, quando hai calmato i venti e le acque quando noi ti abbiamo svegliato durante la tempesta nel mentre che tu dormivi. Quindi se tu me lo dici allora vuol dire che posso farlo!”. Questo è ciò che Pietro richiede.
Quante volte abbiamo sentito e sentiamo richieste dello stesso tenore, non importa se a farle siano dei credenti oppure no.
Quante volte l’evidenza è trasformata in un fantasma dagli occhi e anche dalla volontà di non voler vedere la realtà.
Quante volte questa realtà è dura da guardare in tutto il suo peso.
Quante volte questo peso fa sì che richiediamo delle prove di fede estreme.
Come abbiamo detto, secondo molti commentatori, soprattutto cattolici, la barca è il simbolo della chiesa, una chiesa che è sballottata.
Si, se pensiamo a tutti quei posti del mondo dove i cristiani vivono delle difficoltà reali, delle limitazioni alla propria libertà di celebrare il proprio culto, si! È così. La navicella è la chiesa.
Oppure laddove la chiesa ha una voce molto flebile nella denuncia delle ingiustizie umane, si! Questa piccola barca è la chiesa.
O ancora, laddove nelle situazioni opposte, si ritrova d’accordo con il governo del proprio paese che intende o addirittura costruisce muri di filo spinato, e non importa se ciò blocca il passaggio di disperati, così come accade in Ungheria, dove delle personalità ecclesiastiche di alto rilievo, si dicono d’accordo con la politica di chiusura del proprio governo, si! Anche in questo caso quella navicella è la chiesa!
E allora questa chiesa, come la navicella, è sbattuta dai venti contrari ai quali non è capace d’opporsi e il Maestro non appare che come un fantasma e la sua voce non è più riconosciuta.
Gesù disse: “non abbiate paura sono io”! E ancora oggi questo messaggio è reale, come se Gesù ancora oggi ci dicesse di persona: “state tranquilli, fratelli e sorelle, amici miei, le mie braccia sono aperte, le mie mani sono pronte ad aiutarvi. Stai tranquilla cara chiesa, perché laddove ci sono coloro che lavorano per il proprio prossimo, io sono lì con loro con le mie mani sempre operanti e le mie braccia accoglienti”.
Ma ritornando al nostro racconto, c’è Pietro. È sempre il primo a parlare, esprime spesso ciò che gli altri non sanno esprimere o forse è solo la sua impulsività che lo fa parlare.
Il dubbio di Pietro è chiaramente espresso nella frase “se sei tu”…. Si perché è difficile, nel bel mezzo della tempesta, del terremoto, di riconoscere il Maestro o come abbiamo detto, la sua voce; perché il dubbio è molto forte…. “e se non fosse lui? E se si trattasse veramente di un fantasma”?
E allora questo “se sei tu” diventa l’inizio, l’introduzione ad una relazione, un dubbio che non si risolve ma che prospetta una soluzione nell’invito di Gesù “vieni”!
Vieni perché sono qui, vieni perché sono pronto ad aiutarti, vieni perché stai ascoltando la mia voce rassicurante, vieni perché sono io che te lo dico”.
Non sono quindi le acque calme o agitate che possono fare la differenza. E in effetti, Pietro era illogico nelle sue paure; non è possibile per un essere umano di camminare sulle delle acque calme come sul mare agitato, e quindi questo “se sei tu” può essere compreso solo in un quadro di fede dove l’anima da un lato domanda per risolvere i propri problemi e dall’altro lato, accoglie la soluzione proposta dal Maestro che ritroviamo nell’invito “vieni”!
Pietro individualmente quindi, presenta questa fede che, abbandonando la comodità terrestre della navicella, va all’incontro di Gesù, Pietro cammina sull’acqua – impresa ardita – ma basata sulla parola di Gesù: “vieni”!
Non ci sono appoggi, non c’è alcuna possibilità di camminare, l’uomo in quanto tale affonda per il fatto stesso di trovarsi in una simile situazione e posizione.
D’altronde la tempesta non cambia nulla: chi affonda, affonda sia che l’acqua sia calma, sia che l’acqua sia agitata, sia nella bella giornata come nella tempesta.
Dunque niente lo può sostenere sulle acque, salvo che la parola di Gesù: “vieni”!
E anche se per la forza di questa parola Pietro fa una cosa eccezionale, cammina sull’acqua, le circostanze gli fanno perdere di vista quello che è lo scopo. Allora affonda, la parola “vieni”, diventa nuovamente una parola lontana. Ed ecco il grido: “Signore salvami!”.
Gesù, il Maestro, quello al quale ha chiesto la salvezza, ritorna al centro ma ancora una volta come tappabuchi.
Bonhoeffer in una delle sue lettere scritte dal carcere disse:
mi piacerebbe parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nella debolezza ma nella forza, non in relazione alla morte e al dolore ma nella vita e nel benessere dell’uomo”.
Molte volte si parla di Dio in relazione allo sconforto, alla tristezza, alle difficoltà, come la soluzione di ogni problema; ma altrettanto spesso coloro che ci ascoltano, sono toccati da questi problemi; non è facile per costoro credere esattamente come il barbiere della nostra storiella.
Forse occorrerebbe parlare di Dio non come la soluzione dei problemi ma come la base della gioia; non come l’obbligo di cambiamento ma come la possibilità di un cambiamento, un cambiamento che ci porta una soluzione il cui risultato è una condizione di benessere intimo.
Gesù è là e tende la mano a Pietro, un uomo di poca fede; poca fede non significa senza fede, ma significa avere una fede che non è cresciuta molto o non molto se si vuole, una fede paralizzata. Questa era la condizione dei cristiani della seconda o terza generazione ai quali questo evangelo era inizialmente indirizzato.
Ma forse, questa è la condizione di una parte dei cristiani di oggi.
Gesù è là e ci tende la mano; anche se siamo uomini e donne di poca fede, o chiesa sballottolata, o credenti con poche forze, Lui sale con noi nella nostra navicella, sul piccolo battello della nostra vita, sulla barca della nostra esistenza e, per la gioia e il piacere d’averlo con noi nella nostra vita, la tempesta si calma, il terremoto, i venti e le onde, anche se continuano a creare subbuglio, per noi è come se cessassero.
Allora non abbiamo più paura di andare verso ciò che è sconosciuto, uscendo fuori dalla nostra barca, dal perimetro della nostra esistenza, andando verso l’altro, verso i nostri fratelli e sorelle, il nostro prossimo, perché Gesù è lì, con le mani aperte e braccia accoglienti.
Allora, in questo modo, noi potremo dire ancora una volta: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!” Amen