domenica 23 novembre 2014

Predicazione di domenica 23 novembre 2014 su 2 Pietro 3,8-13 di Marco Gisola

8 Ma voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. 9 Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. 10 Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate.
11 Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi, per santità di condotta e per pietà, 12 mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio, in cui i cieli infocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si scioglieranno! 13 Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia.


La prima riflessione a cui ci porta il testo di oggi è sul tempo. Mi sembra che tutti noi, o almeno quelli che hanno superato i quarant’anni, viviamo particolarmente male il tempo che passa; invecchiare ci fa paura. Chi già è anziano vede le sue forze diminuire con tutti i problemi che questo si porta dietro. Chi è adulto sente magari i primi “sintomi” dell’invecchiamento, i primi capelli bianchi, un po’ di stanchezza e così via. Ma basta vedere i propri figli crescere e trasformarsi per percepire che il tempo passa inesorabilmente... Questo ci porta a misurare il tempo, a contare, non dico i giorni, ma sicuramente gli anni. E a farlo con una certa preoccupazione.
L’apostolo Pietro viene stamattina a dirci che “per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno”. Relativizza la misura del tempo. Un'affermazione che francamente mi ha sempre lasciato un po’ perplesso, perché mi è sempre sembrata una facile soluzione al problema del ritardo del ritorno di Cristo.
Il problema della generazione di chi ha scritto questa lettera - è infatti probabile che l’autore non sia l’apostolo Pietro, il discepolo e quindi contemporaneo di Gesù, ma qualcuno che scrive usando il suo nome verso la fine del primo secolo o all’inizio del secondo – è sì il tempo che passa, ma non nel senso che intendiamo noi; per quella generazione il problema è che il tempo passa e Cristo non ritorna.
Un giorno come mille anni e mille anni come un giorno. Questa frase mi lascia perplesso anche perché istintivamente mi verrebbe da dire: va bene per Dio sarà così, ma per me no! Per me i giorni sono giorni e possono essere giorni felici, giorni spensierati oppure giorni di angoscia e di dolore. Ogni giorno per me ha un senso e un valore. Perché il mio giorno deve essere relativizzato? E i miei anni sono i miei anni, e sappiamo che c’è un’età in cui pensiamo sia troppo presto per morire e per soffrire, ci sono casi in cui davvero il tempo che è dato di vivere è troppo poco. E ci sono casi in cui il tempo della sofferenza e del dolore è invece troppo. Come ci aiuta l'affermazione che per Dio mille anni sono come un giorno?
Il tempo, che ci assilla così tanto e che contiamo e misuriamo... che cos’è il tempo secondo Dio? L’autore di questa lettera ci dice che il tempo per Dio è espressione della sua pazienza: “Il Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento”. All’obiezione di chi dice che il ritardo di Cristo è ormai troppo lungo e che magari questo ritardo vuol dire che Cristo non tornerà, l’apostolo risponde affermando che non si tratta di ritardo, ma di pazienza, affinché tutti giungano al ravvedimento.
Dopo quasi duemila anni il nostro punto di vista è certamente diverso, ma l’idea che il tempo che Dio ci dà sia espressione della sua pazienza rimane importante per noi oggi come per i cristiani del primo secolo allora. Il tempo che hai è tempo di ravvedimento, tempo per ravvederti, ma non nel senso negativo e tenebroso che ha a volte questa parola, ma nel senso positivo che il tempo che ti è dato è una opportunità che Dio ti dà per cambiare, per convertirti, per costruire diversamente la tua vita. Penso a errori a cui si può rimediare, penso a scelte sbagliate da cui si può tornare indietro, a relazioni interrotte che potrebbero essere recuperate, a ferite che possono guarire.
E allora anche il fatto che il tempo per Dio sia relativo ha il suo senso profondo.
Forse vuol dire che non importa quanto tempo hai davanti a te, e quanto tempo hai dietro di te, non importa se hai 25 anni o ne hai 80. Ciò che importa è che a 25 anni come a 80 oggi è il tempo che Dio ti dà, oggi è l’opportunità che Dio ti dà di cambiare, di rimodellare la tua vita secondo la sua volontà.
Questa è la pazienza di Dio, che in fondo è un altro modo per dire: questa è la grazia di Dio. Dal punto di vista del tempo la grazia di Dio si chiama pazienza di Dio. Dal punto di vista del tempo che passa, la pazienza di Dio significa che non è troppo tardi.
È vero che a viste umane e nelle relazioni umane a volte succede che sia troppo tardi per fare qualcosa, è vero che l’occasione di ricostruire, di riconciliarsi, di chiedere o di concedere perdono passa magari un po’ di volte e poi non passa più. È vero che nelle nostre relazioni a volte bisogna rassegnarsi che è troppo tardi. Ma con Dio non è troppo tardi e nel futuro del suo regno forse chissà, anche gli errori e le fratture a cui non siamo riusciti a porre rimedio qui, là nelle mani di Dio saranno trasfigurati e troveranno riconciliazione e guarigione.
Il tempo passa, perché Dio è paziente e dunque non è troppo tardi.

Al centro del brano c’è una breve descrizione, diciamo così, apocalittica (i cieli che passano stridendo, gli elementi infiammati, la terra che brucia), c’è un’esortazione alla santità per accelerare i tempi della venuta del regno di Dio e infine viene ribadita la promessa: “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia”.
In quest'ultimo versetto ci sono due grosse parole che tornano lungo tutta la Bibbia: promessa e giustizia. La nostra vita, e dunque anche il nostro tempo, di cui parlavamo prima, non è lasciata al caso, non è nemmeno lasciata completamente nelle nostre mani, che come si sa sono capaci di fare molti danni, ma è sotto una promessa, che è una promessa di grazia e non di condanna.
La promessa del regno non riguarda soltanto il nostro futuro, ma il nostro presente. Oggi noi stiamo sotto questa promessa, oggi attendiamo nuovi cieli e nuova terra. Che questo sia il nostro futuro, anche il tuo futuro è una grande consolazione che può dare senso e serenità alle nostre giornate. Questa promessa è anche un grosso stimolo a vivere del futuro che ci è promesso. Di che cosa vivi tu, cristiano? Ovvero: che cosa dà senso alla tua esistenza oggi? Alla tua esistenza di oggi dà senso la promessa di Dio sul tuo futuro. Il cristiano vive del suo futuro; e dal futuro promesso da Dio nella croce e nella resurrezione di Cristo il cristiano trae senso, forza, speranza, trae un progetto per la sua vita e la sua fede.
Il progetto è vivere già ora, anche se solo frammentariamente, a sprazzi, la giustizia che ci attende nei nuovi cieli e nella nuova terra che Dio ci ha promessi, cioè che Dio ha preparati per noi. Il futuro che Dio ci ha preparato orienta e guida il nostro presente.
Noi viviamo aspettando nuovi cieli e nuova terra, cioè qualcosa di completamente nuovo rispetto a ciò che viviamo ora, qualcosa di nuovo caratterizzato dalla giustizia, dalla giustizia di Dio, cioè dalla volontà di Dio. Nuova è la giustizia che abita nei cieli e nella terra che Dio ci ha preparati, vecchia è l'ingiustizia che regna nel nostro mondo. Nuova è la riconciliazione e la pace che vivremo con tutti in presenza di Dio, mentre vecchio è il conflitto che spesso viviamo nei rapporti umani e vecchia è la guerra che non smette di mietere vittime nel nostro mondo. E così via, potremmo fare molti altri esempi...
Viviamo aspettando, ma non nel senso passivo e noioso che ha a volte il verbo aspettare nella nostra esperienza (tipo aspettare in coda a qualche sportello...!). Viviamo aspettando nel senso che viviamo aspettandoci qualcosa di bello che deve venire, che deve accadere per noi, ci aspettiamo qualcosa dal futuro che non sia solo la ripetizione del presente, perché il futuro che Dio ci ha promesso è nuovo.
Nell’ottica della promessa di Dio vivere aspettando vuol dire vivere sperando e confidando in questa promessa che ci dice che la nostra vita non è in balìa del caso e nemmeno del caos, ma è orientata - potremmo dire: predestinata – ai nuovi cieli e alla nuova terra dove abita la giustizia di Dio.
Viviamo allora con fiducia e con gratitudine questa attesa, sapendo che il Signore è paziente e che il Signore è fedele.

giovedì 20 novembre 2014

Predicazione di domenica 16 novembre su 2 Corinzi 5,1-10 di Massimiliano Zegna

Corinto è una città della Grecia centro meridionale del Peloponneso la cui prima chiesa cristiana fu fondata da Paolo nel 51 dopo Cristo.
Tra la prima e seconda lettera di Paolo ai Corinzi vi sono stati dei fatti drammatici sia per quanto riguarda Paolo che probabilmente finì in carcere, mentre era in Asia, sia per quanto riguarda la chiesa di Corinto che, a causa di “falsi apostoli” come li considera lo stesso Paolo, ebbe discussioni molto accese.
La lettera, come la definiscono alcuni commentatori, è molto emotiva e presenta alcune disorganicità: e così il tono di Paolo passa dall'amaro e sarcastico a quello magnanimo e fiducioso.
C'è da aggiungere, infatti, che la situazione della chiesa di Corinto dopo che il discepolo Tito che, probabilmente era il latore della lettera, si era andata riappacificandosi con Paolo.
Le difficoltà derivavano comunque da quelle che erano le abitudini di una città greca e influenzata dal paganesimo a quelli che erano gli insegnamenti Gesù portati attraverso Paolo.
Paolo infatti usa la metafora del matrimonio per descrivere il suo stesso ruolo. Così come i profeti avevano spesso descritto Israele come sposa di Jahvè così Paolo descrive la chiesa di Corinto come la fidanzata di Cristo.
E egli si era autodefinito come... il padre della sposa. Vi sono quindi toni di rimprovero e toni di grande amore per dimostrare l'affetto che Paolo aveva nei confronti della chiesa da lui fondata.
Ma vorrei esaminare ora i versetti del quinto capitolo che per me rappresentano una grande rappresentazione dell'essenza del nostro Credo.
Ed in parte rispondo agli inquietanti interrogativi che anche in questi giorni ho letto nella mia corrispondenza quotidiana con amiche ed amici di Facebook, il socialnetwork, attraverso cui ricevo e trasmetto le mie emozioni e che comunque si ascoltano parecchio in occasioni come queste.
Nei giorni scorsi Biella e il Biellese sono stati sconvolti da due eventi particolarmente drammatici: il primo riguarda la improvvisa scomparsa delle giovane Elisa figlia diciottenne dell'ex sindaco di Biella Dino Gentile, la seconda della scomparsa a causa del maltempo di Brunello Rosa Canuto, 66 anni, di Crevacuore.
Nel primo caso i commenti erano: “ma se Dio esistesse non priverebbe la vita ad una giovane bella, affettuosa, positiva, sportiva, beneamata dai suoi compagni di scuola e della sua famiglia” E così concludeva questa persona: “Meglio essere atei che rimanere delusi da questo Dio”.
Anch'io mi sono recato al funerale che si è svolto nella chiesa di san Biagio a Biella e devo dire di essere rimasto colpito dall'affetto che questa ragazza aveva. La chiesa vecchia e quella nuova erano gremite di ragazzi e contemporaneamente anche la chiesa del Villaggio Lamarmora era piena di altri ragazzi del Liceo Scientifico, la scuola dove Gentile è preside. La sera prima, numerosi ragazzi avevano fatto una sfilata con le candele accese. Nelle parole che ho ascoltato non c'era però astio nei confronti di Dio ma i toni erano di amore e di affetto nei confronti di Elisa.
L'altro caso è quello dell'abitante di Crevacuore travolto da una frana mentre, appena uscito di casa: stava guardando appunto il terreno vicino a casa che si stava rapidamente avvicinando all'abitazione.
Devo dire che mi hanno dato conforto sia i toni ed i volti di questi ragazzi permeati di grande forza spirituale sia la lettura del capitolo della lettera ai Corinzi che denota una grande sensibilità di Paolo.
In effetti quanto scrive Paolo è di una tale sensibilità che qualche commentatore, ed io stesso, si è chiesto se Paolo non abbia veramente vissuto una esperienza post mortem così come può aver vissuto chi si è trovato in coma e poi si è risvegliato nuovamente alla vita.
Preferisco rileggere insieme a voi le parole di Paolo, che qualche commentatore ha definito di difficile interpretazione, ma che io ho voluto leggere nella sua semplicità senza voler andare a disquisire su quale doveva essere il significato autentico.
“Sappiamo, infatti, che se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d'uomo, eterna, nei cieli”.
Questa frase, in cui si parla di tenda, mi ha fatto venire in mente il famoso brano dall'Evangelo di Matteo al capitolo 17 versetti 1-9: «Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversando con lui. E Pietro prese a dire a Gesù: “Signore, è bene che stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende; una per te, una per Mosè e una per Elia”. Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li coprì con la sua ombra, ed ecco una voce dalla nuvola che diceva: “Questo è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo”.
I discepoli, udito ciò, caddero con la faccia a terra e furono presi da gran timore. Ma Gesù, avvicinatosi, li toccò e disse: «Alzatevi, non temete». Ed essi, alzati gli occhi, non videro nessuno, se non Gesù tutto solo.
 Poi, mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest'ordine: “Non parlate a nessuno di questa visione, finché il figlio dell'uomo sia risuscitato dai morti”». (Mt 17, 1-9)
Un altro brano del profeta Isaia (38,12) è ancora più vicino al brano di Paolo: "La mia abitazione è divelta e portata via lontano da me, come una tenda di pastore. Io ho arrotolata la mia vita, come fa il tessitore; egli mi taglia via dalla trama; dal giorno alla notte tu mi avrai finito".
Proseguo con la lettura della lettera di Paolo ai Corinzi: “Perciò in questa tenda gemiamo, desiderando intensamente di essere rivestiti della nostra abitazione celeste, se pure saremo trovati vestiti e non nudi. Poiché noi che siamo in questa tenda, gemiamo, oppressi; e perciò desideriamo non già di essere spogliati, ma di essere rivestiti, affinchè ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. Or colui che ci ha formati per questo è Dio, il quale, ci ha dato la caparra dello Spirito”
Nella Bibbia parlare di tenda significa parlare di quella che per noi è una casa in quanto per i popoli dediti alla pastorizia era naturale avere una tenda sotto cui ripararsi.
Ma Paolo qui vuole rimarcare quanto diversa è la tenda sotto cui ci ripariamo nella vita terrestre e quella che sarà quella celeste. La tenda terrestre può essere disfatta come può essere capitato a tutti quelli che hanno subito le alluvioni o comunque può essere disfatta per chi subisce la morte terrena e quindi è quanto è capitato alla giovane Elisa e comunque a tutti coloro che lasciano questa terra a causa della morte.
Paolo ci insegna però a non preoccuparci perché quello che ci aspetta è un'altra tenda ben più rilevante, che è la tenda celeste ossia la tenda in cui potremo vedere la luce di Dio.
La vita terrena è certamente una fase di passaggio ma Paolo ci annuncia che è anche una caparra dello Spirito ossia un anticipo di quello che sarà la vita celeste.
Forse è questo che alcuni commentatori giudicano di difficile comprensione ma per chi crede in Dio dovrebbe essere più chiaro anche se vi sono i dubbi per noi umani che misuriamo i nostri commenti secondo metri di misura umani.
E così pensiamo che una vita umana debba durare almeno cento anni per essere completa per cui la morte in tenera età viene considerata una ingiustizia. Però anche chi vive ad esempio fra i novanta e i cento anni con problemi di demenza senile è considerato ingiusto. E anche chi si ammala a cinquant'anni di una grave malattia è considerato ingiusto.
Tutto questo fa parte dei misteri di Dio che ci saranno rivelati proprio nel momento in cui passeremo dalla tenda terrestre a quella celeste. Paolo però qualcosa ci anticipa nella conoscenza di questi misteri e continuando a leggere la lettera ai Corinzi vi sono questi passi:
“Siamo dunque sempre pieni di fiducia, e sappiamo che mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore (perché camminiamo per fede e non per visione); ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore. Per questo ci sforziamo di essergli graditi, sia che abitiamo nel corpo, sia che ne partiamo. Noi tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinchè ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male”.
Che cosa ci vuol dire Paolo non solo ai Corinzi ma a tutti noi? Se crediamo in Dio noi lo facciamo per fede, per fiducia ma non per visione in quanto noi siamo nella tenda terrestre che non ci permette ancora di avere la visione di Dio. E quella terrena è una prova un anticipo per capire qual è la nostra vera fede.
Se agiamo secondo i Comandamenti di Dio, che ricordo si condensano soprattutto nell'amore di Dio e del prossimo, noi potremo avere una giusta retribuzione davanti al tribunale di Cristo.
Ovviamente non sarà di tipo monetario questa retribuzione in quanto (ed io aggiungo per fortuna) non ci sarà più il problema di avere un compenso materiale per il lavoro che si svolge ma il compenso spirituale.
Che cosa ho imparato dalla lettura di Paolo? Ho imparato innanzitutto ad avere più fede in Dio così come lo sono stati i ragazzi che hanno partecipato ai funerali di Elisa Gentile.
Certamente vi era molta tristezza e molto dolore ma vi era anche il conforto di sapere che Dio non l'ha abbandonata ma l'ha presa sulle sue braccia e portata in una tenda celeste dove non avrà più modo di temere né di aver paura ma di vivere nuovamente nella luce di Dio.
Ho imparato a fuggire (o almeno a tentare di fuggire) dalle mie ansie quotidiane per il lavoro, per la salute e ad avere più fiducia in Dio.
Certo non possiamo essere inerti e aspettare la morte senza far nulla, anzi occorre vivere questa vita nel migliore dei modi.
Mi ha sempre colpito la serenità con cui un'anziana ospite dell'Hospice di Gattinara (si chiamava Franchina di Borgosesia) ha affrontato gli ultimi giorni della sua vita. Ero andato a trovarla perché mi aveva fatto sapere che voleva parlare con me in quanto giornalista.
Quando finalmente l'ho incontrata mi ha detto che voleva che io facessi un bell'articolo, per dire che si trovava bene nell'hospice ed era ben assistita, che mangiava bene e che tutti si prendevano cura di lei. Ho esaudito le sue volontà e devo dire che quel giorno ero un po' ero preccupato in quanto non avrei saputo che cosa dirle in quanto consapevole che aveva pochi giorni di vita, ma è stata lei a tirarmi su il morale con la sua simpatia e il suo buonumore.
Avevo chiesto anche ad una oncologa come si poteva vivere sapendo che la fine terrena era vicina e lei con molta sensibilità mi aveva detto queste parole. Alle persone che vengono qui io dico sempre: noi vogliamo assicurare i nostri malati che la qualità della vita deve essere positiva fino all'ultimo momento anche perché noi stessi non sappiamo fino a quando vivremo.
Per me è stata come una boccata di ossigeno. Se poi si crede in Dio non si ha certo paura del tribunale di Cristo ma deve essere visto come l'incontro sereno per una nuova vita.
La conclusione a cui sono pervenuto è che occorre un equilibrio sul pensiero alla vita terrestre e quello sulla vita celeste. Gesù ci ha insegnato a pensare e a pregare con il “Padre nostro” sia per il pane quotidiano, quindi per vivere al meglio la vita di tutti i giorni, sia perché venga il regno di Dio e sia fatta la sua volontà. Amen

lunedì 10 novembre 2014

Predicazione di domenica 9 novembre su 1 Tessalonicesi 5,1-11 di Pietro Magliola


Quanto poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte. Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosí che quel giorno abbia a sorprendervi come un ladro; perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri; poiché quelli che dormono, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, lo fanno di notte. Ma noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell’amore e preso per elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò, consolatevi a vicenda ed edificatevi gli uni gli altri, come d’altronde già fate. (1 Tessalonicesi 5,1-11)


Paolo si occupa, nel brano che abbiamo letto, dell’ “ultimo giorno”, cioè del giorno del ritorno di Gesù. Se ne occupa innanzitutto per dire che non è possibile sapere in anticipo quando questo giorno verrà.
Sono stati versati fiumi d’inchiostro e si sono fatte moltissime parole per determinare con precisione il giorno del giudizio. Tentativi, tutti, evidentemente falliti, perché la Scrittura è concorde, a partire proprio da questa epistola di Paolo, probabilmente il testo più antico del Nuovo Testamento, per giungere sino all’evangelo di Luca, che abbiamo sentito prima, nell’affermare che il giorno del ritorno del Signore non sarà annunciato da segni particolari. Anzi, questo giorno è conosciuto soltanto dal padre, e neppure il Figlio lo conosce. I tentativi dell’uomo di penetrare questo mistero sono quindi sciocchi e destinati al ridicolo e al fallimento.
La chiesa di Salonicco, alla quale scrive l’apostolo Paolo, credeva nell’imminente ritorno del Signore. Era convinzione diffusa, anche dello stesso Paolo, che Gesù sarebbe ritornato in gloria mentre essi erano ancora in vita.
Il fatto che alcuni credenti fossero morti durante questa attesa aveva suscitato dei dubbi: che ne sarebbe stato di questi fratelli e sorelle defunti, e degli altri che fossero morti prima del ritorno del Signore ?
Paolo consola questa comunità ricordando ai suoi membri che il giorno del Signore deve venire all’improvviso, come senza preavviso un ladro scardina una porta per introdursi in casa e rubare, o come all’improvviso le doglie del parto assalgono la donna incinta quando deve partorire.
Non è un insegnamento nuovo, quello di Paolo: “voi sapete questo molto bene”, scrive.
Evidentemente, i Tessalonicesi sapevano tutto questo: però, a volte, è necessario ripetere concetti già noti per riportarli alla memoria o per sottolineare la loro importanza, anche per evitare letture sbagliate o interpretazioni di comodo della sitauzione reale.
Nei versetti 13 – 18 del capitolo 4 Paolo afferma che coloro i quali si sono addormentati (cioè, sono morti) verranno risvegliati, e parteciperanno anche loro all’incontro col Signore: “prima risusciteranno i morti in Cristo, poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore”.
Paolo non si limita però a consolare e a rassicurare sulla sorte dei defunti, vuole anche portare gioia e consolazione sulla sorte dei viventi.
Quelli che sono in Cristo, è il suo ragionamento, non sono nelle tenebre, non appartengono alla notte, ma vivono nella luce di Cristo, appartengono al giorno, cioè alla vita. Non vuol essere un discorso moralistico, un invito a vegliare, anche se la veglia è necessaria, ma è un’affermazione di vita, di una qualità propria del credente (ontologica, se si vogliono usare parole difficili).
Poiché i credenti sono destinati ad ottenere salvezza per mezzo di Gesù, essi sono del giorno, appartengono già sin da adesso al giorno; e rafforza questa affermazione sottolineando come essi abbiano rivestito la corazza della fede e dell’amore e indossato come elmo la speranza, cioè la fiducia o, meglio, la certezza potremmo dire, della salvezza. I verbi sono all’indicativo (non all’imperativo!), a sottolineare come questa condizione sia attuale e sia opera non dell’uomo ma di Dio.
La corazza e l’elmo facevano parte dell’equipaggiamento dei soldati dell’epoca, servivano da difesa contro i colpi dei nemici. Quello che i credenti indossano è dunque un equipaggiamento difensivo, e questo vuol dire che essi sono circondati e difesi dall’amore e dalla grazia di Dio che li difende dal male e li salva dal peccato.
I cristiani, pur appartenendo già alla luce, vivono tuttavia nel mondo, sono giustificati nella fede ma pur sempre sottoposti alla tentazione, allo stesso tempo giusti e peccatori, come diceva Lutero. Non possiamo prescindere dalla grazia di Dio né affidarci alle nostre forze per resistere al male.
Veramente Dio si rivela qui come unico conforto per l’uomo, in vita e in morte, come dice il Catechismo di Heidelberg.
Anche in questo testo Paolo ci fa intendere, in modo certo meno diretto che in altri suoi scritti, ma comunque chiaro, che ciò che importa per l’uomo è come Dio lo vede, lo aiuta e lo salva. La pratica segue in modo, per così dire, conseguente.
Concetto analogo verrà espresso nella lettera agli Efesini (2,10), quando si dirà che siamo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.
E l’opera che Paolo propone ai Tessalonicesi e a tutte le chiese che, come quella, sono disorientate davanti al prolungarsi dell’attesa del ritorno del Signore è quella di consolarsi vicendevolmente e di edificarsi gli uni gli altri.
Non c’è nessuno che possa ritenersi così forte da non aver bisogno di essere consolato, e nessuno può, al contrario, ritenersi così debole da non poter consolare un fratello.
Perché tutti dipendiamo dalla grazia di Dio, e tutti siamo chiamati a testimoniare, prima di tutto nella chiesa, questa grazia.



domenica 2 novembre 2014

Predicazione di domenica 2 Novembre su Filippesi 2,12-13 di Marco Gisola in occasione della Domenica della Riforma

Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand'ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;  infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.

“È Dio che produce in voi il volere e l’agire”, scrive Paolo ai cristiani di Filippi. La vostra volontà e il vostro agire, ciò che voi volete e voi fate, dice in pratica Paolo ai filippesi, viene da Dio.
Ma come - ci verrebbe da dire - che cosa vuol dire che Dio produce in me il volere e l’agire? E dove va a finire la mia autonomia, la mia libertà, la mia libera scelta? Dove vanno a finire la mia personalità, la mia cultura, la mia intelligenza? Il discorso di Paolo sembra veramente poco moderno.
Ovviamente non dobbiamo fraintendere ciò che dice Paolo pensando che Dio ci trasformi in robot che agiscono a comando e che non hanno personalità e autonomia. Non dobbiamo intendere l’affermazione di Paolo in senso meccanico, come se Dio ci trasformasse in automi che funzionano a comando.
Quando Paolo dice “è Dio che produce in voi il volere e l’agire” non fa un’affermazione meccanica, ma un’affermazione di fede. Paolo vuole dire ai filippesi: ciò che voi volete di buono e di bello e ciò che voi fate di buono e di bello non viene da voi, ma viene da Dio, è un dono di Dio.
L’affermazione che Dio produce in noi il volere e l’agire è accettabile solo in un’ottica di fede. Perché è solo la fede che mi dice che la volontà di Dio è più giusta della mia, che ciò che Dio vuole è più giusto di ciò che io voglio.
E che quindi è più giusto che sia la volontà di Dio a guidare le mie azioni che non la mia volontà.
Chiunque altro pretendesse di trasformare la mia volontà e di orientare le mie azioni commetterebbe un plagio, un delitto, mi sottrarrebbe la mia dignità, la mia personalità e la mia umanità. Se invece è Dio a trasformare la mia volontà, non mi sottrae nulla, ma - anzi - mi dona dignità, costruisce la mia personalità e mi restituisce la mia vera umanità.
È un dono e una grazia che Dio nella sua misericordia usi la sua volontà per trasformare la mia e la sua giustizia per orientare le mie azioni. Questo lo posso dire, però, solo dopo aver riconosciuto che la mia volontà e le mie azioni, senza la grazia e l’aiuto di Dio sarebbero vane e inutili, per non dire malvagie e dannose.
Se ci rendiamo conto che abbiamo bisogno che Dio intervenga nel nostro volere e nel nostro agire, gli saremo grati della sua azione.
Se ci rendiamo conto che abbiamo bisogno che nella nostra vita qualcuno ci dica che cosa fare e dove andare, che cosa è importante e che cosa non è importante, che cosa ci può rendere liberi - e dunque felici - e che cosa ci rende invece schiavi - e dunque infelici, se ci rendiamo conto di questo saremo grati al Signore che in Gesù Cristo ci ha mostrato la via della libertà e della giustizia, della gratuità e dell’amore.
È l’incontro con Gesù Cristo che trasforma la nostra volontà, l’incontro con la sua parola, con le sue azioni, con il dono che egli ha fatto di se stesso per noi. E questo non è un atto meccanico e non è un atto di forza, ma un atto di amore, un atto che ci fa innamorare e che per questo ci convince e ci trasforma.
E Paolo è molto acuto nell'individuare come luogo della conversione la volontà.  La conversione non è la mia decisione di cambiare, ma è la decisione di Dio di cambiarmi attraverso l’incontro con Gesù Cristo.
E che cosa è che viene trasformato? Paolo dice il volere e l’agire. Non solo l’agire, non basta che le mie azioni siano trasformate dalla grazia di Dio. A Dio non basta che il mio fare sia trasformato, Egli vuole trasformare anche il mio volere.
Vuole che la mia volontà diventi simili alla sua, vuole che io voglia ciò che lui vuole.
E poi è troppo grosso il rischio di agire bene, ma in modo ipocrita. È troppo facile fare certe cose perché bisogna farle e se si fanno si ha la coscienza a posto. Dio non vuole degli automi ma nemmeno degli ipocriti. Dio vuole dei convertiti, cioè persone la cui volontà è stata trasformata dall’incontro con Cristo.
E del resto non basta nemmeno solo la volontà, senza l’azione. Se la conversione che Dio opera in noi è un’opera di trasformazione, allora essa deve produrre altre trasformazioni.
Se la grazia di Dio dona a noi peccatori la sua giustizia, allora il frutto della grazia e della conversione che ella opera in noi sarà la trasformazione dell’ingiustizia in giustizia.
Se la grazia di Dio dona a noi peccatori la sua libertà, il frutto della conversione che la grazia opera in noi sarà il cercare di trasformare la schiavitù in libertà.
Se la grazia di Dio mostra a noi peccatori il suo amore, il frutto della conversione che la grazia opera in noi sarà il cercare di trasformare l’odio che viviamo e vediamo intorno a noi in amore.
Questo l’adoperarsi “al compimento della vostra salvezza con timore e tremore”, di cui parla Paolo. Adoperarsi al compimento della propria salvezza non significa salvarsi da soli, non significa cercare di guadagnare la salvezza, perché la salvezza è già stata donata in Cristo. Ma significa vivere da salvati, significa rispondere e corrispondere all’opera della grazia di Dio.
La Riforma, che è nata dalla riscoperta dell’evangelo della grazia, ha preteso tantissimo dai suoi credenti, ha chiesto preghiera, studio della Bibbia, riflessione, e tanta, tantissima azione, tante opere.
La differenza che sembra piccola, ma che è enorme e fondamentale nel nostro rapporto con Dio, è che tu non agisci per ottenere la salvezza, ma agisci perché Dio te l’ha già donata.
Tu non agisci per farti perdonare, ma agisci perché sei già stato perdonato, non agisci per farti amare da Dio, ma agisci perché Dio ti ama e te lo ha dimostrato in Gesù Cristo.
Lutero diceva che Dio ci ha liberati da tutti i debiti che avevamo con lui - debiti che tra l’altro non avremmo mai potuto pagare - e che ora siamo quindi totalmente liberi e possiamo investire tutte le nostre energie per amare il nostro prossimo. Tutte le nostre energie, tutti i doni che lui ci ha fatto, tutto è ora lì pronto per essere messo al servizio del prossimo.
Questo significa adoperarsi per la propria salvezza. Vuol dire vivere fino in fondo il dono di Dio, vuol dire amare fino in fondo dell’amore con cui Dio stesso ci ha amati. Vuol dire condividere gratuitamente e fino in fondo i doni che Dio gratuitamente ci ha donato.
“Adoperatevi al compimento della vostra salvezza”, ma “con timore e tremore”; questa espressione che viene dall’Antico Testamento non c’entra con la paura. Il timore di Dio è la consapevolezza della grandezza di Dio da parte di chi è molto piccolo, è la consapevolezza della santità di Dio da parte di chi è misero, è la consapevolezza della giustizia e della misericordia di Dio da parte di chi è ingiusto e egoista.
“Con timore e tremore” vuol dire dubitare fortemente di noi stessi, della nostra giustizia e della nostra fedeltà ed essere invece certi della fedeltà e della giustizia di Dio – che è la sua grazia - e a lui soltanto affidarci.
Così come mettiamo nelle mani misericordiose di Dio le nostre colpe quando facciamo qualcosa di male, qualcosa che ferisce il nostro prossimo, allo stesso modo mettiamo nelle sue mani quello che di buon riusciremo a fare, dicendo a Dio: sei tu, Signore, che hai prodotto in noi il volere e anche la forza di farlo.
Perché ogni volta che vogliamo o realizziamo qualcosa di bello e di buono, non è grazie a noi e alla nostra buona volontà, ma è grazie alla sua buona volontà, che in Cristo ha incontrato la nostra e l’ha trasformata.
Che il Signore sia lodato per questo e continui senza stancarsi a cercarci e a trasformarci.