domenica 29 agosto 2021

Predicazione di domenica 29 agosto 2021 su Genesi 4, 1-16 a cura di Pietro Magliola

Genesi 4, 1-16a


Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: «Ho acquistato un uomo con l'aiuto del SIGNORE».Poi partorì ancora Abele, fratello di lui. Abele fu pastore di pecore; Caino lavoratore della terra.
Avvenne, dopo qualche tempo, che Caino fece un'offerta di frutti della terra al SIGNORE. Abele offrì anch'egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto. Il SIGNORE disse a Caino: «Perché sei irritato? e perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!»
Un giorno Caino parlava con suo fratello Abele e, trovandosi nei campi, Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l'uccise.

Il SIGNORE disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?» Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» . Il SIGNORE disse: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra». Caino disse al SIGNORE: «Il mio castigo è troppo grande perché io possa sopportarlo. Tu oggi mi scacci da questo suolo e io sarò nascosto lontano dalla tua presenza, sarò vagabondo e fuggiasco per la terra, così chiunque mi troverà, mi ucciderà». Ma il SIGNORE gli disse: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui». Il SIGNORE mise un segno su Caino, perché nessuno, trovandolo, lo uccidesse.

Caino si allontanò dalla presenza del SIGNORE


Adamo ed Eva sono stati cacciati dal giardino di Eden, e devono affrontare la vita quotidiana. Nascono due figli, Caino (che vuol dire acquistato) e Abele (che vuol dire aria, vento). I due fanno lavori differenti, il primo agricoltore, il secondo contadino, e tutti e due fanno al Signore l’offerta delle loro primizie. Dio però sceglie: accetta l’offerta di Abele, rifiuta quella di Caino. Non si sa perché, e ogni tentativo di cercare una risposta a questa domanda si risolve nella formulazione di pure ipotesi. Rimane il fatto che questa scelta del Signore scatena il dramma. Caino si irrita, ma la sua ira non si rivolge a Dio che ha rifiutato l’offerta, bensì contro il fratello, l’offerta del quale è stata accettata.

Il problema che viene messo in evidenza è la difficoltà di accettare che le cose possano andar male per uno e bene per l’altro. Quando questo succede, la cosa più semplice è prendersela con quell’altro, con il fratello. Dio è lontano (così pensa Caino), Abele è qui vicino a me. Se tolgo di mezzo Abele, Dio non dovrà più scegliere tra due offerte ma dovrà accettare la mia, che sarà l’unica.

Ma Dio non è lontano. Anche se non ne ha accettato l’offerta, Dio vigila su Caino e lo invita a resistere al male che lo assale. Può farlo, e lo deve fare. Può agire bene. Solo così potrà rialzare il suo volto; potrà rialzarsi dal pozzo senza fondo dell’odio, dell’invidia, della rabbia, da tutto ciò che il rifiuto dell’offerta da parte di Dio ha provocato in lui.

Caino non ascolta Dio, e uccide Abele. Lo uccide mentre stava parlando con lui, nei campi, sfruttando la normalità di questa situazione di fiducia.

Nuovamente Dio interviene per chiedere a Caino notizie del fratello. “Dov’è tuo fratello?” ci ricorda “Adamo, dove sei?”. Dio si conferma come colui che cerca chi non vuole o non può più mostrarsi. Non si disinteressa delle sue creature, le cerca perché vuole averne cura nonostante tutto, nonostante tutti, e nonostante loro stesse.

La risposta di Caino è addirittura arrogante. Possiamo immaginarlo mentre risponde senza neppure guardare in faccia il Signore. E’ forse lui il custode di suo fratello? Se lo cerchi da solo,visto che gli interessa tanto!

La risposta di Dio racchiude, si può dire, tutta la gamma dei sentimenti umani davanti ad un omicidio: orrore, ira, rabbia, giudizio. Caino viene maledetto, cacciato dal paese dove abitava, privato del sostentamento procurato dal lavoro. Dovrà andare in giro per il mondo, senza casa e senza pace.

Caino comprende l’immensità della punizione, e ne sottolinea due aspetti: l’essere nascosto lontano dalla presenza del Signore, e il dover andare vagabondo e fuggiasco per il mondo, così che chiunque lo troverà lo ucciderà. Colui che ha eliminato Abele dalla presenza del Signore teme che Dio lo abbandoni, ha paura di vivere lontano dalla presenza del Signore. A questa sanzione, annunziatagli dal Signore, Caino ne aggiunge un’altra, di cui Dio non ha fatto menzione: la sua uccisione da parte di chiunque lo incontri. Come suol dirsi, sangue chiama sangue. Chi ha ucciso, deve a sua volta morire. Così pensa Caino.

Ma Dio non ha queste idee. Non è un buonista, non ignora la colpa e non cancella la punizione, ma, appunto, la punizione appartiene a Lui solo. Dio riserva a sé la retribuzione e la punizione, non vuole che l’uomo agisca in suo luogo. Il di più è opera e giudizio dell’uomo, violenza e non giustizia. Pone allora in fronte a Caino un marchio, marchio di condanna e contemporaneamente di salvezza, e dichiara che chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte di più.

Caino si allontana quindi dalla presenza del Signore. Avrà la sua vita, le sue mogli, i suoi figli. Non verrà ucciso. Il marchio che Dio gli ha posto in fronte lo protegge dalla vendetta umana.

Al termine di questo ripercorso della storia, quali insegnamenti possiamo trarre?

Il primo: Dio è sempre alla ricerca dell’uomo. L’uomo può nascondersi, può esser messo nella condizione di non poter ricercare Dio, ma Dio non smetterà mai di cercarlo, di seguirlo giorno per giorno.

Il secondo, conseguenza del primo: l’uomo non può nascondersi da Dio. Dio sarà sempre in grado di ritrovarlo, e una volta ritrovato si preoccuperà di rendergli chiaro qual è la via da seguire per mantenere la giusta relazione con Lui.

Il terzo: quando l’uomo rifiuta la strada indicata da Dio, Dio non vuole vendicatori in Suo nome, ma riserva a sé la punizione, perché anche nella punizione Dio vuole conservare la grazia.

Il peccato ha vinto Caino, ma continua ad aggirarsi intorno agli uomini, anche intorno a noi. Possiamo vincerlo. Anche a noi Dio dice: “Se agisci bene, non rialzerai il tuo volto?”. Possa Dio assisterci nell’agire bene.

 

domenica 15 agosto 2021

Predicazione di domenica 15 agosto 2021 su Efesini 2,4-10 a cura di Marco Gisola

 Efesini 2,4-10

Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo (è per grazia che siete stati salvati), e ci ha risuscitati con lui e con lui ci ha fatti sedere nel cielo in Cristo Gesù, per mostrare nei tempi futuri l'immensa ricchezza della sua grazia, mediante la bontà che egli ha avuta per noi in Cristo Gesù.

Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti; infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.



1. Dalla morte alla vita. Questa è l’immagine che l’autore della lettera agli Efesini – che non è Paolo ma un suo discepolo – usa per descrivere l’evento della salvezza: noi eravamo morti nei peccati, Dio ci ha vivificati, con Cristo, risuscitati con lui e con lui fatti sedere nel cielo in Gesù Cristo.

Noi morti, Dio vivifica, risuscita, fa sedere in cielo. Noi non facciamo nulla, come nulla possono fare i morti; Dio fa tutto, l’unico che può vivificare e risuscitare. E avete notato che per tre volte chi ha scritto questa lettera ha usato l’espressione “con Cristo”: vivificati con Cristo, risuscitati con lui, fatti sedere in cielo con lui.

Anzi in realtà per essere precisi, nel testo greco questo “con” fa parte del verbo: in italiano suona male, ma la traduzione letterale sarebbe: Dio ci ha con-vivificati, con-risuscitati, fatti con-sedere in cielo… E questo per sottolineare che ha fatto tutto ciò per noi vivificando, risuscitando, facendo sedere in cielo Gesù stesso duemila anni fa. Lo ha fatto allora per noi e coinvolgendoci già allora in quello che faceva, prima che noi esistessimo.

E poi aggiunge ancora “in Cristo”, per sottolineare una volta di più che tutto ciò che Dio ha fatto, tutto ciò che Dio ha fatto lo ha fatto in e per mezzo di Gesù Cristo.

Dalla morte alla vita: come Gesù è stato risuscitato ed è passato dalla morte alla vita e dalla tomba al cielo, dove siede alla destra del Padre, come dice il Credo, anche noi in Cristo siamo passati dalla morte alla vita.

Dalla morte alla vita: questo è il primo modo, che più radicale non potrebbe essere, in cui la nostra salvezza viene descritta in questo brano.

L’apostolo si rivolge a persone che in gran parte, prima di conoscere Gesù Cristo erano pagane, per questo parla in modo così netto di un prima e di un dopo. Ma questo prima e questo dopo corrispondono a una vita senza Gesù Cristo e a una vita con Gesù Cristo.

Prima e dopo corrispondono a senza e con Cristo. E questo vale per ognuno di noi ogni giorno: senza Gesù Cristo siamo come morti, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo siamo vivificati e risuscitati con lui. Dalla morte alla vita, dalla disperazione alla speranza, dalla tristezza alla gioia.

Addirittura arriva a dire che in Cristo sediamo già nel cielo con lui. Non solo dalla morte alla vita, ma addirittura dalla morte al cielo! Nella fede, siamo già nel cielo, con Dio, nel senso che questo futuro è già stabilito ed è promesso.

Questo ha un implicazione per la nostra fede: il primo passo della fede consiste nel riconoscersi “morti”, cioè confessare che non possiamo fare nulla per la nostra salvezza e che solo Dio ci può vivificare e risuscitare con Cristo. Senza Cristo siamo morti, con Cristo e in Cristo siamo vivi, perché vivificati da Dio stesso attraverso di lui.


2. Una seconda affermazione che fa l’apostolo è quella tipica di Paolo sulla salvezza per grazia: Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti.

Salvati – Paolo dice “giustificati” – per grazia mediante la fede. È dono di Dio, al 100 %, ha fatto tutto Dio in Cristo, come l’immagine del passaggio dalla morte alla vita esprimeva chiaramente. Se anche solo lo 0,00qualcosa % dipendesse da noi, non sarebbe più pura grazia.

E infatti nessuno se ne può vantare. Il vanto è un tema ricorrente nelle lettere di Paolo ed è un tema ricorrente nei dialoghi e nelle polemiche di Gesù con i farisei. Il fariseo della parabola che abbiamo letto (Luca 18,9-14) si vanta e dice: io, io, io…

L’apostolo risponde: Dio, Dio, Dio; soltanto Dio, in Cristo e per mezzo di Cristo. Il vanto vuol dire pensare che si ha qualcosa da offrire a Dio, anziché aver solo da ricevere. Il vanto è pensare di avere da offrire a Dio quello che si fa e quello che si è, avere da offrire a Dio il proprio impegno, la propria buona volontà, la propria rettitudine.

Tutte cose belle e buone, da cercare e perseguire, che però non sono qualcosa che noi possiamo offrire a Dio, ma è ciò che possiamo essere e fare perché Dio ha offerto tutto a noi, fino ad arrivare ad offrire suo figlio per noi.

Non abbiamo da offrire a Dio la nostra buona volontà, il nostro impegno, la nostra rettitudine, semplicemente perché se mai abbiamo un po’ di buona volontà, un po’ di impegno e un po’ di rettitudine, anche questi sono doni, doni sempre in conflitto con la nostra umana cattiva volontà, indifferenza e malignità.

Affinché nessuno se ne vanti”, perché il vanto non vede e non riconosce il dono di Dio e non riconosce che quello che facciamo di buono è dono di Dio.


3. Questo è ciò che esprime l’apostolo quando scrive che noi stessi siamo opera di Dio: siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

Siamo noi opera sua, e qui non si riferisce alla creazione, ma alla redenzione, perché in Cristo siamo portati dalla morte alla vita e sono di Dio anche le opere che ha preparate per noi affinché le pratichiamo.

E questo è il terzo punto importante di questo brano: le opere, il tema che è stato al centro del dibattito e delle polemiche tra cattolici e protestanti fin dal ‘500.

Nessuno dei riformatori ha mai detto che NON bisogna fare buone opere, perché sarebbe stato come dire che non bisogna fare la volontà di Dio, il che sarebbe chiaramente assurdo! Ma tutti i riformatori hanno detto che non ci si può guadagnare la salvezza con le opere, perché essa o è dono di Dio – come dice il testo di oggi – oppure non è.

Certo che bisogna fare buone opere, certo che bisogna fare la volontà di Dio, ma non per guadagnarci qualcosa, ma semplicemente perché Dio lo vuole e per manifestargli la nostra gratitudine. Il catechismo di Heidelberg del 1563 in una delle sue domande (n. 86) si chiede proprio questo: perché, essendo salvati per grazia, dobbiamo fare buone opere?

E la risposta è innanzitutto che possiamo fare buone opere perché siamo non solo “acquistati [da Cristo] con il suo sangue”, cioè salvati, ma Dio ci “rinnova anche attraverso il suo Spirito”.

Per dirla con l’immagine della lettera agli Efesini, possiamo fare buone opere perché non siamo più morti, ma siamo vivi, perché vivificati in Cristo, per grazia.

E dopo aver detto che possiamo fare buone opere, dice che dobbiamo farle, e ne dà tre ragioni: dobbiamo farle innanzitutto “affinché con la nostra intera vita ci mostriamo grati a Dio” per ciò che ha fatto per noi in Cristo, poi per “essere sicuri della nostra fede vedendone i frutti”, e infine come testimonianza verso il prossimo.

Dunque la gratitudine è la prima ragione, il riconoscimento di aver ricevuto tutto ciò che siamo in Cristo; per rispondere e corrispondere concretamente all’amore ricevuto.

E poi per essere sicuri della nostra fede, e trovo bellissimo questo pensiero: se alla fede che dico di avere non corrispondono opere, la fede non c’è. Se dico che ti amo e poi ti prendo a schiaffi, l’amore non c’è, è una bugia. Lo stesso per la fede: se non viene tradotta in opere di amore e di servizio semplicemente non c’è.

E infine come testimonianza; le nostre migliori parole non saranno ascoltate, se non sono accompagnate dai fatti, cioè dall’amore per il prossimo e persino per il nemico. Annuncio dell’evangelo e pratica dell’evangelo vanno insieme.

Ma senza alcun vanto; però con molta gioia e molta speranza, segni della nostra gratitudine; perché siamo morti vivificati, morti risuscitati con e in Cristo. Dimenticare che senza l’evangelo saremmo morti sarebbe una porta spalancata al vanto.

Ricordarselo è invece una porta spalancata all’umiltà, alla gratitudine e alla fiducia.

Perché tutto ciò che siamo, tutto ciò che crediamo e tutto ciò che facciamo è opera sua, opera di Dio che è “ricco in misericordia” e ci ha vivificati con Cristo.

In lui, per grazia, siamo vivi, per fare le opere buone che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo.

domenica 8 agosto 2021

Predicazione di domenica 8 agosto 2021 su Esodo 19,1-8 a cura di Marco Gisola

 Esodo 19,1-8

Nel primo giorno del terzo mese, da quando furono usciti dal paese d’Egitto, i figli d’Israele giunsero al deserto del Sinai. Partiti da Refidim, giunseroal deserto del Sinai e si accamparono nel deserto; qui Israele si accampò di fronte al monte. Mosè salì verso Dio e il SIGNORE lo chiamò dal monte dicendo: «Parla così alla casa di Giacobbe e annuncia questo ai figli d’Israele: “Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d’aquila e vi ho condotti a me. Dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa”. Queste sono le parole che dirai ai figli d’Israele». Allora Mosè venne, chiamò gli anziani del popolo ed espose loro tutte queste parole che il SIGNORE gli aveva ordinato di dire. Tutto il popolo rispose concordemente e disse: «Noi faremo tutto quello che il SIGNORE ha detto». E Mosè riferì al SIGNORE le parole del popolo. 

 



Un patto di grazia. Così potremmo chiamare ciò che Dio offre al suo popolo Israele che è appena arrivato ai piedi del monte Sinai. Patto di grazia mi sembra il modo in cui potremmo definire la relazione che c’è tra Dio e Israele, di cui ci parla questo brano. E allo stesso modo potremmo definire anche la relazione che c’è tra Dio e noi: un patto di grazia.

Il capitolo 19 dell’Esodo è il capitolo che racconta l’arrivo del popolo di Israele ai piedi del monte Sinai. Israele è stato liberato dalla schiavitù in cui era tenuto in Egitto e ha attraversato il Mar Rosso circa due mesi prima. In questo luogo ci starà per undici mesi, il tempo in cui Dio gli darà tutta la Torah. La permanenza al Sinai occupa infatti tutto il resto del libro dell’Esodo, tutto il libro del Levitico e parte del libro dei Numeri. Questo capitolo dunque precede il dono dei dieci comandamenti e di tutto il resto della Torah. Prima che Dio inizi a parlare, viene solennemente proclamato il patto e Israele altrettanto solennemente lo accetta. Un patto – alcuni usano il termine alleanza – di grazia. Che cosa vuol dire “patto di grazia”?

Partiamo dalla parola grazia, che nel nostro testo non c’è, c’è solo la parola “patto”. Ho usato la parola grazia perché mi sembra quella che meglio definisce il patto tra Dio e Israele, per diverse ragioni. La prima ragione per cui si tratta di un patto di grazia è che è Dio che ha scelto Israele per stringere un patto con lui e non viceversa. È Dio che ha scelto Israele e non Israele che ha scelto Dio. E Dio ha scelto Israele non solo ora, bensì molto tempo prima, quando ancora non era un popolo, lo ha scelto quando ha chiamato Abramo e gli ha promesso che da lui sarebbe nata una grande discendenza che sarebbe divenuta un popolo. A partire da Abramo, Dio ha scelto – nel linguaggio biblico si direbbe ha eletto – il popolo d’Israele.

Questa relazione, che si concretizza qui nel patto del Sinai – è dunque un dono. È Dio che ha cercato Israele, ma forse potremmo quasi dire che Dio ha dato vita al popolo di Israele, attraverso la nascita di Isacco da Abramo e Sara che non potevano avere figli. Fin dall’inizio, fin da Abramo e Sara, in questa relazione tutto è dono, dunque tutto è grazia, patto di grazia.

La seconda ragione è che questo patto è fondato sull’opera di liberazione di Dio, e la liberazione è stata un atto di grazia di Dio, nel senso che la libertà che Israele riceve, venendo liberato dall’Egitto, è anch’essa un dono di Dio. Sia l’esistenza di Israele, sia la liberazione di Israele dalla schiavitù sono doni.

Il Dio che vuole stringere un patto con il popolo d’Israele è il Dio che prima ha liberato Israele dalla schiavitù. Il Dio che propone il patto a Israele è il Dio liberatore, il Dio a cui Israele deve la sua libertà. Il patto è fondato sulla liberazione che Dio ha operato e sulla libertà che ha donato al suo popolo e la Torah è quella che potremmo definire la carta costituzionale del patto. Il patto è fondato sulla liberazione che Dio ha operato e dunque sulla sua grazia.

La terza ragione è che – col senno di poi - noi sappiamo che questo patto sarà infranto tantissime volte da Israele e invece mantenuto da Dio, che rimane fedele al suo patto nonostante l’infedeltà di Israele. Per grazia dunque Dio fa un patto con Israele, per grazia lo mantiene. È una decisione di Dio, un’iniziativa di Dio, che agisce per amore, ma è un patto appunto e non un’imposizione, e quindi Dio vuole la partecipazione attiva di Israele nel patto. La parola “patto” indica che Dio vuole una relazione con Israele, ovviamente una relazione non paritaria, una relazione tra Dio e le sue creature, tra il Dio che ha eletto Israele e Israele che è stato eletto, tra Dio che ha liberato Israele dalla schiavitù e il popolo che è stato liberato, dunque tra il liberatore e i liberati.

Dio vuole fare un patto con Israele perché gli Israeliti sono liberi e non più schiavi. Agli schiavi si impone, con persone libere si fa un patto. È un patto tra Dio che “ha fatto” qualcosa per il suo popolo e un popolo che è chiamato a fare: “Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d’aquila e vi ho condotti a me”. Avete visto quello che ho fatto per voi, dice Dio al suo popolo, sapete chi sono e che cosa ho fatto, non sono un Dio sconosciuto, anzi, sono il Dio che vi accompagna fin dai tempi dei vostri padri. Dio usa un’immagine che torna altre volte nella Bibbia, l’immagine bellissima e tenerissima della mamma aquila che porta i suoi piccoli sulle sue ali, li porta in salvo; così Dio ha portato il suo popolo in salvo dalla schiavitù verso la libertà.

E che cosa è chiamato a fare il popolo? “Dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa”. Se ubbidite alla mia voce e osservate il mio patto. Qui Dio parla dei comandamenti che sta per donare, e non solo dei dieci comandamenti, bensì di tutta la Torah. Ma i comandamenti sono ben più di una legge, sappiamo che Torah significa insegnamento, ed è significativo che qui Dio parla della sua voce. Gli Israeliti sono chiamati a ubbidire alla sua voce, e la voce implica un Dio che parla, una relazione, implica ciò che Dio ha detto, ciò che Dio sta per dire e ciò che Dio dirà. Non solo quello che dirà a Mosè, ma tutto quello che dirà anche dopo, tutto quello che dirà attraverso i profeti e altri testimoni. Osservare il patto è molto di più che seguire alcune regole e prescrizioni, è ascoltare una voce, stare in una relazione.

Se fa questo, se ascolta questa voce, Israele è il “tesoro particolare” di Dio, è “un regno di sacerdoti, una nazione santa”. Queste parole non a caso sono state riprese nel Nuovo Testamento nella 1 lettera di Pietro (2,9) e applicate ai cristiani: “voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato”. Ma non è un merito o una virtù di Israele o dei cristiani quello di essere “un tesoro particolare […], un regno di sacerdoti, una nazione santa”; è il frutto della elezione di Dio, di cui parlavamo poco fa.

Perché Dio ha scelto Israele? Quando si parla della elezione di Israele non dobbiamo dimenticare quello che troviamo in Deuteronomio 7,6ss: Infatti tu sei un popolo consacrato al SIGNORE tuo Dio. Il SIGNORE, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra. Il SIGNORE si è affezionato a voi e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, anzi siete meno numerosi di ogni altro popolo, ma perché il SIGNORE vi ama..

Dio ha scelto, ed è di nuovo una scelta di grazia e non di merito: Israele non è un popolo grande e forte, ma piccolo e debole; la scelta di Dio è una scelta fondata solo sull’amore, solo sulla grazia, non sulle qualità di Israele. Dio lo ha scelto tra gli altri popoli con uno scopo ben preciso: quello di essere una nazione santa e un regno di sacerdoti. Una bella interpretazione di che cosa questo voglia dire l’ho letta in un commento che dice che essere un regno di sacerdoti significa essere “una nazione che serve anziché una nazione che comanda”.

Israele esiste per gli altri, in funzione delle altre nazioni, come era stato detto già ad Abramo: “in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12,3). Se Israele ascolta la voce di Dio e osserva il patto sarà questo, sarà ciò per cui Dio lo ha scelto. Essere scelti non è un premio, è un compito; un compito che inizia con l’ascoltare la voce di Dio. “Noi faremo tutto quello che il SIGNORE ha detto”, risponde il popolo.

Fare e ascoltare, ascoltare e fare, ascoltare la voce di Dio per imparare a fare la sua volontà. Questo è il compito di Israele che Dio lega a sé in questo patto di grazia e questo è il nostro compito, di noi cristiani che Dio lega a sé in Cristo in un medesimo patto di grazia.

Siamo inseriti anche noi, in Cristo, in questo patto di grazia e ci rimaniamo ascoltando la voce di Dio e facendo ciò che essa ci chiede. Questa è la nostra vocazione, ma è prima di tutto ciò che dà senso alla nostra vira, è la nostra speranza e la nostra gioia.

martedì 3 agosto 2021

Predicazione di domenica 1 agosto 2021 (Biella) su 1 Corinzi 6,12-20 a cura di Marco Gisola

 1 Corinzi 6,12-20

Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla. Le vivande sono per il ventre, e il ventre è per le vivande; ma Dio distruggerà queste e quello. Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo; Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo per farne membra di una prostituta? No di certo! Non sapete che chi si unisce alla prostituta è un corpo solo con lei? «Poiché», Dio dice, «i due diventeranno una sola carne». Ma chi si unisce al Signore è uno spirito solo con lui. Fuggite la fornicazione. Ogni altro peccato che l’uomo commetta, è fuori del corpo; ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo.


I nostri corpi sono membra di Cristo, il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo, scrive l’apostolo Paolo. Paolo parte dal comportamento sessuale di alcuni Corinzi per toccare l’argomento di che cosa sia il nostro corpo nel rapporto con Dio e quindi nel rapporto con l’altro essere umano.

Questo brano è dunque molto di più che un testo che parla di morale; è un testo che parte da un comportamento concreto che arriva però a dire che cosa è il nostro corpo per Dio e che cosa quindi è per noi.

Paolo reagisce qui a una situazione di cui era stato informato riguardo ai comportamenti sessuali di alcuni Corinzi. Paolo usa qui il termine “fornicazione”, che è un termine generico che indica tutti i comportamenti sessuali disordinati, e poi parla espressamente della frequentazione di prostitute.

Dietro a questi comportamenti c’è un’idea ben precisa che alcuni membri di questa chiesa hanno e che secondo loro li autorizza a tenere questi comportamenti. Questa idea è sintetizzata nella frase “Ogni cosa mi è lecita”, che probabilmente sono parole dei Corinzi stessi che Paolo riprende.

Senz’altro Paolo aveva, anche a Corinto come altrove, predicato la libertà dei cristiani nei confronti della legge e probabilmente alcuni l’avevano interpretata nel senso che questa libertà era libertà di fare tutto ciò che si voleva: Tutto mi è lecito, quindi anche frequentare prostitute.

Ma dietro a questa lettura sbagliata della libertà, c’è una visione sbagliata di che cosa sia il corpo; i Corinzi pensavano alla “greca”: il corpo è mortale, dunque il corpo non conta, conta solo lo Spirito e quindi non importa come uso il mio corpo, perché tanto è destinato alla morte. Come uso il mio corpo non c’entra con Dio.

Dietro a questa idea di corpo c’è la visione di essere umano della antica cultura greca: l’essere umano è composto di anima e corpo, l’anima è nobile e (secondo alcuni filosofi) immortale, il corpo è mortale e ignobile. A questa visione avevano sovrapposto l’idea della libertà predicata da Paolo ed era venuto fuori il motto dei Corinzi: ogni cosa mi è lecita.

Paolo risponde cercando di fare chiarezza innanzitutto su questa visione dell’essere umano: secondo la visione ebraica - e poi cristiana - noi non abbiamo un corpo, ma noi siamo un corpo, a cui Dio ha dato la vita. Questo vuol dire il famoso racconto della creazione di Adamo.

Il corpo non è una cosa che “abbiamo” e che usiamo come se fosse un vestito e non facesse parte della nostra persona. Noi siamo il nostro corpo; la persona che siamo è corpo a cui Dio ha dato vita.

Il termine che spesso si traduce con la parola anima è la vita che il Signore ha dato al corpo che siamo, a cui ha dato non solo il respiro, ma anche la ragione, la coscienza, i sentimenti e mille altre cose.

Nei primi secoli di cristianesimo è invece rimasta questa idea che il corpo sia qualcosa di inferiore e materiale, ma si è imposta la morale opposta: si è passati dal “ogni cosa è lecita” alla demonizzazione del corpo e della sessualità, per cui nulla è lecito, se non per procreare.

Una morale esattamente opposta a quella dei Corinzi, ma che paradossalmente parte dalle stesse premesse: il corpo come qualcosa di negativo e dunque la sessualità come peccaminosa in se stessa. Che però non è l’idea biblica.

Paolo non condivide queste premesse, ma basandosi sulla Scrittura dell’Antico Testamento, ritiene che, come dicevamo, l’essere umano non ha un corpo, ma è un corpo, e il nostro corpo è dono di Dio e fa parte di quella buona creazione come tutto ciò che Dio ha creato.

Per questo Paolo può dire: “Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo”.

La fornicazione non è la sessualità in genere ma la sessualità vissuta per il proprio esclusivo piacere, potremmo dire la sessualità vissuta in senso puramente fisico e basta. L’esempio della prostituzione al riguardo è chiaro: l’uomo che frequenta una prostituta cerca il proprio piacere e nient’altro, è persino disposto a pagarlo e per questo si ritiene padrone del corpo della donna che usa.

Oltre al fatto che, come ben sappiamo, oggi frequentare prostitute significa rendersi complici di una moderna tratta di schiave, di donne sfruttate e schiavizzate.

Il rapporto con una prostituta è un rapporto senza relazione non dico affettiva, ma neppure umana. C’è solo una relazione economica e quindi in fin dei conti di potere: chi ha i soldi e dunque il potere di comprare, compra anche le persone. Si compra un corpo, dunque si compra una persona per un tot di tempo e la si usa come se fosse un oggetto. Si rende oggetto la persona che si ha di fronte.

Paolo non condanna la sessualità tout-court, ma – per dirla con parole di oggi - la sessualità senza relazione, la sessualità come dominio e come sfruttamento economico.

Ma questo discorso morale, parte da un discorso spirituale: nel caso della prostituzione, non solo l’uomo sfrutta il corpo della donna ma - scrive Paolo “pecca [anche] contro il proprio corpo”, perché non riconosce che esso è dono di Dio e tempio del suo Spirito.

Questo comportamento, che per i corinzi è conseguenza della loro libertà, per Paolo è invece mancanza di libertà. Infatti scrive: “Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da nulla”. In nome di una pretesa libertà si può diventare schiavi. I corinzi erano diventati schiavi dei loro corpi che avevano trasformato in banali strumenti di piacere, anziché per essere persone in relazione.

Infatti, ci relazioniamo con gli altri col nostro corpo. E non certo solo nella sessualità. Ce ne siamo resi conto in questo anno e mezzo di pandemia: abbiamo rinunciato alla stretta di mano, all’abbraccio, al “santo bacio” di cui parla Paolo stesso, tutti modi di relazionarci con il corpo, perché il corpo siamo noi, è la nostra persona.

Sembra davvero incomprensibile che in certe epoche del cristianesimo si sia arrivati a maltrattare il proprio corpo pensando di essere così più vicini a Dio, oppure a considerare il corpo come qualcosa di peccaminoso. Eppure il corpo è il tempio dello Spirito Santo, i nostri corpi sono membra di Cristo.

I nostri corpi siamo noi e sono un dono che Dio ci ha dato anche per relazionarci, un dono che va rispettato e non sfruttato, e di nuovo non solo sessualmente, ma che non va sfruttato in nessun modo, come in fondo sono sfruttati i corpi di lavoratori schiavi, i cui corpi non sono più persone ma strumenti questa volta di lavoro, sfruttati per fare lavori pesanti fino allo sfinimento, in casi drammatici fino alla morte come quel giovane morto a fine giugno lavorando nei campi sotto il sole di mezzogiorno.

Paolo arriva a dire “Glorificate dunque Dio nel vostro corpo”. Il nostro corpo è un luogo di culto, nel e con il nostro corpo glorifichiamo Dio perché è con il nostro corpo (che comprende anche il cervello dunque la nostra intelligenza) che serviamo il nostro prossimo e serviamo Dio nel prossimo.

Questo esclude lo sfruttamento del corpo altrui ed esclude anche che il nostro corpo diventi un idolo. Perché il nostro corpo può anche diventare un idolo, c’è gente che fa del proprio corpo non un luogo di culto come dice Paolo, ma un oggetto di culto, alla ricerca di una bellezza o di una forza che la pubblicità ci sbatte in faccia ogni giorno.

Una forma di idolatria, attraverso cui glorifichiamo noi stessi e non Dio. E che a volte getta nello sconforto chi non raggiunge la bellezza o la forza che desidera. Il mito della bellezza, della forza, della giovinezza o del voler sembrare giovani anche quando non lo si è…

E invece, questo corpo - non che abbiamo, ma che siamo - è fragile, è debole, ha dei momenti della vita in cui è più bello e più forte e momenti in cui manifesta tutta la propria debolezza e fragilità, sotto i colpi della fatica, delle malattie, del tempo che passa.

Eppure è sempre dono di Dio, è sempre tempio dello Spirito Santo, è sempre il luogo del culto che Dio ci invita a celebrare non la domenica ma ogni giorno nel servizio, che è il contrario del dominio di cui parlavamo prima e che Dio non vuole. Il servizio al prossimo cui siamo chiamati è relazione, e tutte le relazioni implicano il nostro corpo, anche in tempo di pandemia, anche quando non ci possiamo toccare.

Guardare il prossimo negli occhi mentre ci parla, portare con le nostre mani un peso che una persona fa fatica a portare – magari perché ha portato pesi tutta la vita, parlare al telefono con una persona sola o distante, scrivere una lettera o una mail, partecipare a una manifestazione… tutte azioni che facciamo con il corpo.

Tutto è corpo, siamo corpo, dono di Dio e tempio dello Spirito. Non solo il corpo ci è donato ma è abitato dallo Spirito e diviene luogo di culto, di culto quotidiano, fatto di preghiera e di servizio, di momenti in cui il corpo è fermo per ascoltare la parola di Dio e per pregarlo e momenti in cui è in movimento per andare incontro al prossimo per servirlo.

Dio non ha solo dato la vita a questo corpo che siamo, ha anche riscattato il nostro intero essere: “non appartenete a voi stessi – scrive Paolo - Poiché siete stati comprati a caro prezzo”.

Appartenere a Cristo significa vivere nella fiducia, nella gioia e nel servizio. E tentare di glorificare Dio nel nostro corpo, nei nostri occhi che guardano il prossimo, nelle nostre mani che lo servono, nei nostri muscoli che lavorano per questo mondo, nella nostra mente che elabora pensieri e riflessioni, nella nostra bocca che è chiamata a ridire la parola dell’evangelo.

Appartenere a Cristo significa vivere nella gratitudine per il dono del corpo che siamo e per l'opportunità che ci dà di viverlo alla sua gloria.

lunedì 2 agosto 2021

Predicazione di domenica 1 agosto 2021 (Piedicavallo) su Matteo 7,24-27 a cura di Marco Gisola

«Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà paragonato a un uomo avveduto che ha costruito la sua casa sopra la roccia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno investito quella casa; ma essa non è caduta, perché era fondata sulla roccia. E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà paragonato a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. La pioggia è caduta, sono venuti i torrenti, i venti hanno soffiato e hanno fatto impeto contro quella casa, ed essa è caduta e la sua rovina è stata grande».


Con questa breve parabola finisce il lungo sermone sul monte di Gesù. Parabola che quindi Gesù rivolge a chi ha ascoltato il suo discorso, a chi ha ascoltato le beatitudini, la nuova interpretazione della Torah che ha dato Gesù, con – per esempio - l’invito all’amore per i nemici, l’insegnamento del Padre Nostro, l’esortazione a non essere ansiosi per il domani, a non giudicare, ecc. Questa parabola è rivolta a coloro che hanno ascoltato tutte queste sue parole. Chi ha ascoltato le parole di Gesù ha davanti a sé due strade: o metterle in pratica oppure non metterle in pratica. Gesù poco prima ha proprio parlato della via larga e della via stretta, ed è la via stretta quella che il discepolo e la discepola di Gesù sono chiamati a percorrere, che è la stessa via che Gesù stesso ha percorso.

Gesù paragona gli ascoltatori della sua Parola a dei costruttori, che devono costruire una casa e devono scegliere dove costruirla, dove porre le fondamenta. Dei due costruttori della parabola uno pone le fondamenta sulla roccia e uno sulla sabbia. La casa sulla roccia resisterà all’alluvione che la investe, la casa sulla sabbia crollerà. La casa sulla roccia è la vita di chi ha ascoltato le parole di Gesù e le mette in pratica, la casa sulla sabbia la vita di chi ha ascoltato quelle stesse parole e non la mette in pratica. Tutti e due hanno ascoltato, la questione non è ascoltare o non ascoltare, ma è ascoltare e mettere in pratica oppure ascoltare e non mettere in pratica. Gesù non contrappone l’ascoltare la parola e il metterla in pratica, non contrappone fede e etica, il credere e l’operare. Perché l’etica, l’operare – cioè il fare quello che Gesù dice, il fare la volontà di Dio – nasce dall’ascoltare.

E in realtà non si tratta neanche semplicemente di un “fare”, ma piuttosto di un essere. Facciamo un esempio, e prendiamo una delle richieste che Gesù fa nel sermone sul monte. Gesù ha detto “non giudicate”. Non giudicare non è un “fare” nel senso di un’azione, ma è un essere, un modo di essere, un modo di rapportarsi al prossimo, di considerare il prossimo. Non giudicare fa parte del mettere in pratica la parola di Gesù ed è molto di più di un “fare”. Se io mi do da fare per un mio prossimo, se davvero mi prodigo per lui o lei e faccio tante cose per aiutarlo, ma contemporaneamente lo giudico, mi considero superiore a lui o a lei, lo guardo dall’alto in basso, non sto facendo la volontà di Dio, non sto mettendo in pratica la parola di Gesù. Perché Gesù mi ha chiesto di non giudicare.

Il fare che ci chiede Gesù è innanzitutto un modo di considerare il prossimo, di relazionarci con il prossimo. E questo lo si impara ascoltando la parola di Dio, ascoltando gli insegnamenti che Gesù ci ha lasciato nel sermone sul monte, ma non solo. Potremmo dire che fare la volontà di Dio è molto di più di un “fare”. È un guardare il prossimo con gli occhi di Gesù. Non guardo più il prossimo con i miei occhi, con il mio metro di giudizio, a partire dalle mie opinioni, ma a partire da Gesù.

Quando guardo il prossimo e mi chiedo chi è, la risposta non è quella che viene da dentro di me, dalla mia conoscenza, dalla mia esperienza, dai miei pregiudizi, ma la risposta nasce dall’evangelo, è quella che mi insegna l’evangelo. E la risposta alla domanda “chi è?” è: è colui o colei per cui Cristo è morto. Da questa risposta nasce il nostro essere e il nostro fare, e solo se nasce da questa risposta alla domanda “chi è il mio prossimo?” il nostro “fare” è fare la volontà di Dio e il nostro amore è l’amore a cui Gesù ci chiama.

È da qui che dobbiamo partire ogni volta che leggiamo una singola affermazione che Gesù fa nel sermone sul monte, senza pensare che “non ce la faremo mai a fare quel che Gesù ci chiede”. Farsi questa domanda è partire col piede sbagliato, perché significa non partire proprio. Partire col piede giusto è invece ascoltare la sua parola e metterla in pratica con tutte le nostre forze, guardando il prossimo come lo vede Gesù.

E poi, con molta umiltà, mettere tutto quello che facciamo e anche tutto quello che non riusciamo a fare, tutto quello che facciamo di buono e tutto quello che facciamo di sbagliato e di male nelle mani di Gesù.

La parabola che chiude il sermone sul monte ci dà la chiave di lettura di tutto il sermone sul monte, ci dice come intendere questo discorso di Gesù e tutti i suoi insegnamenti: è suo discepolo, sua discepola chi ascolta e mette in pratica, chi ascolta la parola e mette in pratica ciò che Gesù ci chiede di essere e di fare. È suo discepolo, sua discepola chi vive ascoltando le parole di Gesù e mettendo in pratica ciò che ascolta. Perché la fede è vita, è la nuova vita che nasce dall’ascolto.

Ma ora torniamo alle due case. La pioggia e l’alluvione che ne deriva colpiscono entrambe le case. Piove anche sulla casa del costruttore saggio. Anche la casa – cioè la vita – di chi mette in pratica la parola è investita dalle acque, fuor di metafora è investita dal male, dal dolore e dall’ingiustizia. La differenza non sta nel fatto che una delle case è risparmiata dall’alluvione, ma nel fatto che resiste. È una questione di resistenza.

Attenzione però al possibile equivoco: la casa resiste perché resistono quelle che possiamo chiamare le fondamenta, che sono sulla roccia. È la roccia che resiste, sono le fondamenta poste sulla roccia che fanno sì che la casa resistaDue case, possiamo anche immaginarcele uguali, possiamo anche immaginarcele costruite esattamente allo stesso modo, ma una costruita con le fondamenta sulla roccia, l’altra costruita con le fondamenta sulla sabbia.

Non è la casa che resiste, è la roccia. Ovvero, non sono io che resisto, è Cristo mi regge. È Cristo e la sua Parola che regge me, che mi fa resistere, che fa sì che io non venga travolto e portato via dalle acque, ovvero che io non venga sopraffatto e portato via dal male che nelle forme e nei modi più diversi colpisce ogni esistenza.

Il costruttore costruisce la casa sulla roccia che c’è già, è già lì, non fa parte della casa, non fa parte della costruzione, ma ne è il fondamento, è ciò che la tiene su e le permette di resistere. È la parola che Gesù ha pronunciato fino a quel momento e che continua a pronunciare ancora oggi. È la sua parola la roccia, o per essere più precisi è Gesù che ci viene incontro nella sua Parola.

Ognuno di noi, tutti i giorni, costruisce; costruiamo la nostra esistenza e le nostre relazioni. Dove le costruiamo? Gesù ci invita a farlo sul fondamento che c’è già, è già stato posto perché è lui e la sua parola di grazia e di verità.

E dunque non è un merito resistere, bensì è un dono e una promessa. È dono e promessa per chi costruisce sulla roccia che è Gesù Cristo e la sua parola, cioè per chi ascolta e mette in pratica la sua parola. E sottolineo di nuovo questo e: perché anche chi costruisce sulla sabbia ascolta la Parola di Gesù.

La ascolta ma poi va a costruire altrove, perché non mette in pratica la parola ascoltata, che rimane nelle sue orecchie e non diventa vita, perché si fida di più di altro, va a cercare altri fondamenti. Costruisce altrove e così facendo rifiuta il dono e la promessa.

Questa parola di Gesù è per chi ha ascoltato il suo sermone sul monte ed è per noi, che ascoltiamo la sua parola. È rivolta a loro e a noi, che la ascoltiamo oggi.

E a loro e a noi Gesù sta dicendo: hai ascoltato tutto quello che ti ho detto, ti ho detto qual’è e dov’è la roccia su cui costruire la tua casa, cioè la tua vita e la tua fede.

Ti ho detto quale è il fondamento su cui la tua casa – la tua vita, la tua fede, la tua speranza - resisterà, grazie al quale - quando verranno i torrenti, quando i venti soffieranno e investiranno quella casa – essa non cadrà perché fondata sulla roccia che è la Parola di Dio.

Hai ricevuto il dono e la promessa. Costruisci sul dono e sulla promessa che hai ricevuto in Cristo per grazia di Dio. Il dono non ti sarà tolto e Dio manterrà la sua promessa.