"E non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal male"

Eccoci alla richiesta più problematica del Padre Nostro: «non indurci in tentazione», oppure «non ci esporre alla tentazione». Il verbo greco in sé significa: “non farci entrare nella tentazione”, ha dunque un significato “fisico” e non psicologico come può suggerire il verbo italiano “indurre” (che vuol anche dire spingere o convincere a fare qualcosa).
Dio non ci spinge, non ci convince a fare qualcosa di male, in questo senso possiamo dire serenamente, come dice l’epistola di Giacomo (1,13), che Dio non ci tenta.
È curioso che già gli antichi avevano questo problema e in alcune traduzioni parafrasavano il testo dicendo: “non lasciare che siamo indotti in tentazione” (Marcione) o “non tollerare che siamo indotti in tentazione” (Tertulliano e Cipriano), oppure ancora “non ci abbandonare a una tentazione che non possiamo sopportare” (Ilario) [fonte di queste notizie è Giovanni Miegge, Il sermone sul monte, Claudiana - FVT, 1970 (corso tenuto nel 1959-60)].
Queste sono tutte parafrasi, quindi interpretazioni, corrette, del testo che dice non indurci o condurci, o esporci alla tentazione.
Del resto non possiamo fare finta di non vedere che nell’AT Dio mette alla prova: lo fa con Abramo, lo fa con Giobbe; i credenti che pregano con i salmi a volte chiedono che Dio metta alla prova la loro fede: “provami e conosci i miei pensieri” (Salmo 139,23).
Dobbiamo quindi distinguere tra prova e tentazione: la prova c’è, è un fatto che accade. Io ho dei dubbi sul fatto che Dio metta alla prova la nostra fede. Quel che è certo è però che i fatti della vita ci conducono in tentazione. Per i primi cristiani e per i valdesi e per altri cristiani nel corso dei secoli la prova erano le persecuzioni. La prova c’è e può diventare tentazione. Anzi è la prova che può indurre in tentazione; in questo esempio la prova la persecuzione, la tentazione è quella di abbandonare la fede, di cedere, di cadere.
“Non ci esporre alla tentazione” è la preghiera di chi è consapevole sia della potenza del male, sia della propria debolezza di fronte a questo male. Davanti alle tentazioni cediamo facilmente, non resistiamo perché il male è affascinante e agisce in modo subdolo. E allora non chiediamo a Dio soltanto di aiutarci una volta che già siamo tentati, ma chiediamo a Dio di risparmiarci la tentazione.
Oggi le prove che incontriamo – dal dolore, alla morte dei nostri cari, alle ingiustizie che subiamo noi o che subiscono così tante persone nel mondo, tutte le cose che non comprendiamo a partire dalla sofferenza e dalla morte degli innocenti (come ad esempio i bambini...) possono diventare tentazione, cioè portarci a perdere la fiducia in Dio.
Gesù ci insegna a chiedere a Dio di aiutarci a non perdere fiducia in lui. 


E come tutte le richieste del PN ci insegna a farlo insieme; sia come singoli, sia come chiesa chiediamo a Dio di non cadere in tentazione, di non perdere la fiducia in lui.
 

La seconda parte di questa richiesta dice: “ma liberaci dal male”. c’è un “ma” che collega le due richieste. Abbiamo bisogno di non cadere in tentazione e abbiamo bisogno di essere liberati dal male.
Anche qui c’è un problema di traduzione: liberaci dal male o dal Maligno? 

Dal testo non è chiaro se il termine che traduciamo con male o maligno sia maschile o neutro, perché in greco è la stessa parola. Se è maschile è il maligno, cioè satana; se è neutro è il più generico male.
Nel NT Satana e i demoni occupano uno spazio importante, ovvero il male è personificato. Noi non condividiamo più questa visione del mondo, ma come gli antichi sperimentiamo la forza del male, che loro personificavano in Satana.
Se fosse giusta la traduzione Satana, le due richieste di questa frase del PN sarebbero strettamente collegate, perché nella bibbia il tentatore per eccellenza è Satana. È lui che secondo Matteo e Luca tenta Gesù nel deserto, con le famose tre tentazioni che Gesù respinge: trasformare pietre in pane, gettarsi dalla cima del tempio e avere potere sui regni del mondo.
L’idea generica di “male” è moderna ed è astratta (anche se le sue conseguenze sono molto concrete), mentre la mentalità e il linguaggio del NT sono molto concreti. Quindi possiamo forse dire che la traduzione “il Maligno” è più vicina alla mentalità di Gesù e di chi ascoltava allora questa preghiera, mentre la traduzione “il male” è più vicina al nostro sentire.
Alla fine dei conti, in ogni caso, non c’è poi una grande differenza, perché il centro della richiesta non è sulla natura del male, ma sulla richiesta di liberarcene!
Anche questa richiesta prende molto sul serio la nostra debolezza: noi siamo soggetti al male, siamo soggetti a farlo e a subirlo. E quindi chiediamo a Dio di tenere il male lontano da noi; di tenere lontano da noi il peccato e l’egoismo, di tenere lontani da noi il dolore e la sofferenza.
È la preghiera di chi sa che il male ci tiene lontano da Dio e quindi chiede a Dio di tenere il male lontano da noi. Il male che commettiamo ci tiene lontano da Dio, l’orgoglio, l’egoismo ci tengono lontani da Dio. E anche il male subito ci tiene lontano da Dio: la sofferenza, la povertà, l’ingiustizia ci tengono lontani da Dio.
Di nuovo si ribadisce che la sofferenza è nemica di Dio. Dio non vuole che gli esseri umani soffrano. La sofferenza non è una via che porta a Dio, anzi è la liberazione dalla sofferenza che porta a Dio. Gesù, quando ha incontrato dei malati o degli emarginati non ha mai detto loro che soffrendo erano più vicini a Dio, ma li ha sempre liberati dalla sofferenza.
In questa duplice richiesta del Padre Nostro, dopo aver chiesto a Dio il pane, cioè quello di cui abbiamo bisogno per vivere, e il perdono, cioè di dare un senso alla nostra vita, chiediamo a Dio anche di allontanare il male dalla nostra esistenza. Gesù stesso ci insegna a rivolgerci al Signore nella difficoltà e a chiedere il suo aiuto.

Nei manoscritti più antichi del Nuovo Testamento la preghiera si concludeva qui. Ma ogni ebreo terminava sempre la sua preghiera con una lode, che spesso era una lode pronunciata in modo spontaneo; qualcuno ha dunque aggiunto alla fine del Padre Nostro la frase: “Perché a te appartengono il Regno, la potenza e la gloria, in eterno”.

È giusto terminare la preghiera con una lode. E una lode è anche sempre una confessione di fede. Pregando noi confessiamo la nostra fede nel Signore al quale appartengono il regno, la potenza e la gloria, che in Gesù Cristo ci ha fatto conoscere il suo regno, la sua potenza e la sua gloria. Noi preghiamo sapendo che Dio può e Dio vuole tutto ciò che noi gli chiediamo.
Alla fine concludiamo dicendo “amen”. Amen è una parola ebraica che significa “certo”, “è così”, “è vero”. Per noi è diventata un parola rituale, e invece è una parola coraggiosa. Significa riconoscere che è vero che Dio è il nostro padre, che il suo nome è santo, che la sua volontà deve essere fatta, che il suo regno viene.
Significa riconoscere che è vero che il nostro pane, il nostro perdono e il nostro bene dipendono da lui. Significa riconoscere che è vero che a lui appartengono regno, potenza e gloria. È una parola coraggiosa perché tutto ciò non è affatto evidente.
Nel mondo regna ancora in grande misura il male, la volontà di Dio in gran misura non è ancora fatta, molta gente è ancora senza pane e senza perdono. La potenza e la gloria di Dio sono tutt’altro che evidenti. Eppure noi diciamo “amen”, diciamo che è tutto vero, lo diciamo per fede.
È una parola che ci fa guardare al futuro, che ci dice che il futuro sarà diverso e può essere diverso. È una parola di speranza, è una parola che ci fa guardare avanti. Pregando quotidianamente il Padre Nostro noi compiamo un gesto di fiducia e di speranza e ci mettiamo a disposizione di Dio affinché tutto ciò accada, anche attraverso di noi.
Voglia il Signore realizzare ciò che ci ha insegnato a chiedergli. Amen

1 commento:

piera ha detto...

LEGGO E RILEGGO!! GRAZIE PER QUESTI INSEGNAMENTI