venerdì 25 dicembre 2015

Predicazione del giorno di Natale su Tito 3,4-7 a cura di Marco Gisola

Ma quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna.


Nessuno se ne era ancora accorto, ma tutto era già accaduto. Il Salvatore era venuto nel mondo, ma nessuno se ne era reso conto. Gesù Cristo era nato, ma ciò era accaduto in una sconosciuta stalla di Betlemme e nessuno lo aveva notato. “La bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati”, ma tutto ciò è passato inosservato.
Il testo che ci viene proposto oggi per il culto di Natale non è un testo tipicamente natalizio, non è un brano che racconta la nascita di Gesù, ma un testo che riflette sul senso della venuta - e in questo senso della nascita - di Gesù.
La bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si manifestano a partire dalla stalla di Betlemme, così ci raccontano i Vangeli. Tutto inizia con un parto, esperienza attraverso la quale tutti noi siamo venuti al mondo, tutto inizia con una coppia costretta ad allontanarsi da casa propria per fare un lungo viaggio, con la difficoltà di trovare un posto dove questa coppia possa alloggiare e dove far nascere questo bambino, che incarna la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini.
La bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si manifestano con un evento di cui gli esseri umani non si rendono conto - di cui non potevano rendersi conto - ma che gli angeli celebrano cantando e comunicando la loro gioia ai pastori, e per cui i sapienti dall’oriente fanno un lunghissimo viaggio avvertiti da una stella.
Angeli e astri si muovono per questo evento, ma nessun essere umano si rende conto di nulla se non quelli avvertiti personalmente dagli angeli e dagli astri. Del resto non potevano rendersene conto, perché era un evento assolutamente comune: la nascita di un bambino – seppure in condizioni difficili: lontani da casa, in una stalla… - ma era pur sempre la nascita di un bambino come ne accadono ogni giorno in ogni angolo della terra.
Questo brano dell’epistola a Tito, letto a Natale, non può non portarci a chiederci come “la bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si sono manifestati, a Natale e non solo a Natale. Dio si è manifestato in Gesù in modo non eclatante, non spettacolare, non evidente, e questo non solo a Natale, ma lungo tutta la vita di Gesù.
Gesù non ha mai occupato posti di rilievo o di potere, non si è mai legato a gruppi influenti e importanti. È stato una persona senza potere e senza apparire.
Più che quello che faceva, era quello che diceva a donare speranza e gioia a molte persone e a gettarne molte altre nello scompiglio. È stato, sì, un guaritore che ha ridato salute e quindi una vita degna di questo a tante persone, ma è stato sopratutto un predicatore itinerante che ha proclamato la beatitudine ai poveri, ai perseguitati, agli operatori di pace, che ha indicato la via del perdono da un lato e del servizio dall’altro come la volontà di Dio per gli esseri umani.
Questo modo di manifestarsi di Dio ha avuto il suo culmine nella croce, nella morte di Gesù. La morte è stata la logica conseguenza del fatto che Dio ha scelto che il suo figlio conducesse una vita come tutti noi, che non poteva quindi che finire con la morte.
Ma il come, il modo in cui Gesù è morto, al pari del come è venuto nel mondo, è di nuovo testimonianza della volontà di abbassamento di Dio, del suo donarsi totalmente a noi: una morte violenta, conseguenza del rifiuto di alcuni e dell’abbandono di altri.
La bontà di Dio … e il suo amore per gli uomini” si manifestano così, perché Dio così ha deciso. Ha deciso di manifestarsi attraverso una semplice nascita in una ancor più semplice stalla, attraverso una vita vissuta nella compagnia degli ultimi, e attraverso una agonia e una morte vissute nella solitudine e nell’incomprensione.
In Gesù si è manifestata la volontà libera, gratuita e misericordiosa di Dio, volontà che gli esseri umani hanno respinto, che noi abbiamo respinto. E tutto ciò ha avuto il suo inizio a Natale, in quella stalla di Betlemme, nella nascita di un bambino, certo un evento straordinario per ogni genitore, ma un evento assolutamente comune, che mostra come Gesù volesse essere uno di noi fin dalla sua nascita.
Che cosa ha significato questo evento per noi? “quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati, Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia”. Nessuno se ne è accorto e nessuno ha fatto nulla perché accadesse, ma la salvezza era già avvenuta.
L’evento della nascita di Gesù, dell’incarnazione della Parola, la decisione di Dio di venire in mezzo a noi come uno di noi, è una evento di salvezza, una decisione di salvezza. Natale è la decisione di Dio di salvare l’umanità. La venuta di Gesù non è una decisione che Dio prende per metterci alla prova, per vedere come l’umanità avrebbe trattato Gesù, se gli avesse creduto oppure no, se avesse messo in pratica ciò che egli ha detto oppure no.
La venuta di Gesù non è un metterci alla prova da parte di Dio, semplicemente perché se quella fosse stata una prova, dovremmo concludere che l’umanità non ha superato la prova. Gesù infatti è stato respinto, rifiutato, abbandonato, ucciso. Non è stato accolto.
Se la nostra salvezza dipendesse da quanto e da come noi accogliamo Gesù e mettiamo in pratica ciò che egli ha detto, vediamo che sia ciò che narrano i Vangeli, sia ciò che vediamo quotidianamente intorno a noi ci dicono che con le nostre sole forze di certo la salvezza non l’avremmo ottenuta.
La salvezza, invece, viene, come dice la lettera a Tito, viene da fuori di noi, viene da Dio; non per niente il testo parla dell’opera dello Spirito e di Gesù, è lui il “Salvatore”, è lui che ci salva.
La venuta di Gesù è già un evento di salvezza fin dalla stalla di Betlemme. Per questo Natale è una festa gioiosa, che non ha nulla che fare con il fatto che noi siamo buoni o ‘più’ buoni, ma ha a che fare esclusivamente con “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”.
Questo evento di salvezza ha come prospettiva la vita eterna: “affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna”. L’irruzione di Dio nella storia umana ha come conseguenza la speranza. Speranza di vita eterna, ovvero speranza di essere un giorno cittadini del regno di Dio, ma speranza anche che Dio regni e la sua volontà sia fatta già qui ed ora.
La vita eterna non soltanto un’altra vita, in un aldilà e che dura per sempre, ma è una vita altra da vivere qui ed ora. Una vita che qui ed ora riserva a volte dolore ma che è erede, cioè che guarda e si orienta, a quella vita dove dolore non ci sarà più. Una vita che qui ed ora è vissuta in un mondo pieno di ingiustizia, ma che guarda a quella vita dove non ci sarà ingiustizia.
Per questo è una vita di speranza. Come una vita di speranza diventa quella di coloro che hanno incontrato Gesù, che sono venuti a contatto con la bontà ed il suo amore per gli uomini.
In chi incontra Gesù nasce la speranza, a partire dai pastori di Betlemme, passando per i suoi discepoli, per tutte le persone che Gesù ha incontrate e guarite, donando concretamente speranza a chi non ne aveva restituendo loro salute, dignità e libertà, ovvero una vita nuova, una vita altra, e così con coloro che hanno creduto in lui dopo la sua resurrezione, noi compresi.
Quando ci si rende conto che “la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati” nasce la speranza nella vita altra che la grazia di Dio rende possibile.


Nessuno se ne era ancora accorto, ma tutto era già accaduto. Gesù Cristo era nato, il Salvatore era venuto nel mondo in una sconosciuta stalla di Betlemme e nessuno lo aveva notato. “La bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati” in questo neonato, in questo modo umile e debole.
Proprio perché non si fa notare e non è evidente che nel neonato di Betlemme si manifestano la bontà e l’amore di Dio, la sua salvezza e la sua giustizia, c’è bisogno di annunciarlo. Noi abbiamo ricevuto questo annuncio di salvezza, come i pastori di Betlemme, come i magi e come Tito a cui l’apostolo rivolge questa lettera.
Ora sta a noi ripetere l’annuncio, perché un dono così grande non passi inosservato, perché l’evangelo di Gesù Cristo non resti inascoltato e continui a dare speranza all’umanità.

martedì 22 dicembre 2015

Predicazione di domenica 20 dicembre su Filippesi 4, 4-7 a cura di Massimiliano Zegna



Se avessi dovuto commentare il testo dell'epistola ai Filippesi anche solo alcuni giorni fa, non avrei avuto lo spirito ottimistico per poter trasmettere la gioia che Paolo stesso infonde agli abitanti di Filippi nel Nord della Grecia.
Avrei pensato a tutto quello che sta succedendo nel mondo a cominciare dal terrorismo che funesta la vita quotidiana di molte nazioni, per giungere ai bimbi affamati che ancora esistono a milioni nel mondo, avrei pensato a quei morti senza perché uccisi a Parigi o nel Kenya, in Siria o nella Nigeria o a quelli che nessun giornale ha riportato perché lontani dai clamori di guerre più conosciute o raccontate giorno per giorno con più dettagli.
Avrei pensato agli omicidi che anche nella nostra Italia continuano a intristire la vita quotidiana o ai mille tragici episodi di malattie, fame, miseria che esistono anche nella società del cosiddetto benessere.
Allora la speranza è morta? No per fortuna non è così e non bisogna dimenticare che accanto ai mille episodi di dolore vi sono altrettanti episodi di gioia e di felicità.
Quando Paolo scriveva questa lettera ai Filippesi si trovava in carcere e quindi non era certamente nelle condizioni di chi si trova a vivere serenamente.
La lettera è scritta da Paolo appunto mentre si trova in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, nel 53-55. Tradizionalmente si era pensato alla prigionia romana, ma in tempi recenti sono stati evidenziati elementi che farebbero preferire, oltre a Efeso, anche Cesarea e, con minore probabilità, Corinto.
La lettera, ispirata da sentimenti di amicizia, si rivolge alla comunità cristiana di Filippi, la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso.
Filippi è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare. I cristiani della comunità erano prevalentemente di origine pagana, come si evince dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento.
Eppure Paolo nonostante il carcere aveva lo spirito di chi aveva fiducia in Dio e in Gesù Cristo.
Normalmente questo tipo di lettura biblica si fa nel periodo dell'Avvento ed è un momento giusto per respirare lo spirito evangelico, ossia lo spirito del buon annuncio, della buona notizia.
Anche Maria e Giuseppe quando Gesù Cristo nacque a Betlemme non erano certo in condizioni di agiatezza: l'Evangelo di Luca racconta che il bimbo nacque in una mangiatoia perché non c'era posto per loro in albergo.
“In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del signore si presentò a loro e la gloria del signore risplendè attorno a loro e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: “non temete perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà. Oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”
Ho voluto anticipare il racconto che normalmente si legge a Natale sia perché siamo a pochi giorni dal Natale sia perché il motivo conduttore dell'epistola ai Filippesi è proprio quella della gioia.
C'è un bel libro chiamato “la gioia di credere”
Questo libro è di Madeleine Delbrel prima atea convinta e poi credente. Madeleine Delbrêl, nata nel 1904 in una famiglia cattolica ma poco praticante, a 15 anni è “strettamente atea”, a 17 sintetizza il suo ateismo proclamando “ Dio è morto…viva la morte”, a 20 anni è folgorata da Dio e inizia il suo cammino di conversione.
A questa sua radicale inversione di marcia non è certamente estraneo un gruppo di coetanei credenti con i quali si confronta e, in particolare, un certo Jean Maydieu, amico carissimo cui lei da tempo ha messo gli occhi addosso e che un bel giorno preferisce Dio a lei, decidendo di farsi prete. La ribelle, anticonformista ed emancipata ragazza, con la stessa foga con cui ha fatto aperta professione di ateismo, si tuffa in un’appassionata ed instancabile riscoperta del Dio che ha folgorato i suoi 20 anni ed attraversato così impetuosamente la sua vita. Si “tuffa” nella preghiera, coltiva il desiderio di scoprire ed approfondire il messaggio evangelico, diventa un’efficiente caposcout e, insieme all’amore per la natura, ritrova la passione per la vita semplice e la solidarietà verso gli indifesi.
Si diploma assistente sociale e nel 1933 si trasferisce a Ivry-sur-Seine, all’estrema periferia di Parigi, chiamata “la città delle 300 fabbriche” e che è un crogiuolo di tensioni, rivendicazioni salariali, lotte operaie, scontri sociali ed ideologici.
Madeleine Delbrêl morì a 60 anni, il 13 ottobre 1964 a Ivry-sur-Seine; precorritrice di tante altre belle figure di laici, sacerdoti, religiosi, che nel secolo XX, hanno scelto, specie in Italia e Francia, di vivere sulle strade del mondo, cogliendo la sfida del Vangelo e traducendola nella quotidianità a fianco dei più deboli in ogni senso, che nella storia dell’umanità sono sempre stati la maggioranza.

Ed ecco un altro scritto di Madeleine:
Fa' che da essi penetrati come "faville nelle stoppie"
noi corriamo le strade di città accompagnando l'onda delle folle contagiosi di beatitudine, contagiosi di gioia.
Perché ne abbiamo veramente abbastanza
di tutti i banditori di cattive notizie, di tristi notizie:
essi fan talmente rumore che la tua parola non risuona più.
Fa' esplodere nel loro frastuono il nostro silenzio che palpita del tuo messaggio.
C'è poi una poesia intitolata “Il filo del vestito” che mi ha colpito per la sua capacità di interpretare lo spirito di gioia della epistola ai filippesi.
Il filo del vestito
Nella mia comunità
Signore aiutami ad amare,
ad essere come il filo
di un vestito.
Esso tiene insieme
i vari pezzi
e nessuno lo vede se non il sarto
che ce l'ha messo.
Tu Signore mio sarto,
sarto della comunità,
rendimi capace di
essere nel mondo
servendo con umiltà,
perché se il filo si vede tutto è
riuscito male.
Rendimi amore in questa
tua Chiesa, perché
è l'amore che tiene
insieme i vari pezzi.
Questa epistola di Paolo ai Filippesi è stata definita il libro dell’esperienza cristiana. Esperienza che si riassume in tre parole: Cristo mi basta. Egli è la mia vita (cap. 1), il mio modello (cap. 2), il mio scopo (cap. 3), la mia forza e la mia gioia (cap. 4). Paolo non parla qui né come apostolo, né come dottore; è solo un «servitore di Cristo Gesù».
«Rallegratevi nel Signore», insiste l’apostolo. Tuttavia i motivi per piangere non gli mancano (vedere 3:18). Una brutta discordia oppone due sorelle: Evodia e Sintiche, e turba l’assemblea. Paolo esorta — o piuttosto supplica — ognuna di loro personalmente. Che noi tutti impariamo la grande lezione del cap. 2:2 (confr. Proverbi 13:10)!
La nostra dolcezza è conosciuta dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri compagni? Quante contese cesserebbero se avessimo coscienza del fatto che il ritorno del Signore è imminente. E anche quante preoccupazioni! Mediante la preghiera, solleviamo i nostri cuori da tutto ciò che li tormenta. Per essere immediatamente esauditi? Non necessariamente, ma perché Dio possa infondervi la sua perfetta pace (v. 7). Ma come evitare i cattivi pensieri? Coltivando i buoni. Serviamoci del versetto 8 come d’un setaccio con molte griglie. Ciò che occupa in questo momento il mio spirito, è vero? è giusto? è puro? è amabile? è edificante?...
Dei pensieri purificati non potranno che tradursi in atti della stessa natura (v. 9). E quale ne sarà la conseguenza? Non più soltanto avere la pace di Dio, ma il Dio di pace che sarà «con noi» (Giovanni 14:23).
E' molto bella l'ultima frase che ho letto del brano dell'epistola di Paolo
“E la pace di Dio che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”
Su questo passo ho letto su internet in una predicazione di un pastore credo pentecostale una meditazione che mi ha colpito per la sua efficacia e che vorrei leggervi.
Qualche anno fa, un uomo molto ricco voleva un dipinto sulla pace. Commissionò tre artisti per dipingere scenari pacifici. Dopo un mese gli artisti tornarono con i loro dipinti finiti. Ogni dipinto fu coperto da un velo in attesa del momento della rivelazione.
Il primo artista presentò il suo dipinto: era una bella scena di montagna. Le montagne erano coperte di pioppi verdi e fiori primaverili. Le cime maestose innevate erano alte fino a incontrare un cielo blu senza nuvole. L'uomo ricco disse: "Mi piace. Questa scena di montagna è davvero tranquilla ".
Poi il secondo artista tolse il velo dal suo capolavoro. Il suo dipinto era di una splendida vista sull'oceano. La sabbia era bianca come cristallo. Il mare era azzurro e tranquillo. Il sole stava tramontando lentamente nel cielo, mentre i suoi raggi riflettevano sul mare calmo. Nel centro dell'immagine vi erano due persone rilassate su una sedia a sdraio in riva al mare con i piedi in acqua. L'uomo ricco era molto contento. Egli disse: "Mi piace la spiaggia. Amo questo quadro. Che splendida interpretazione di pace ".
Il terzo artista tirò giù il velo dal suo dipinto e il ricco guardò il quadro con perplessità. Quest’artista aveva dipinto una cascata impetuosa. In questa scena un fiume in piena cadeva per centinaia di metri e s’infrangeva sulle rocce sottostanti. L'uomo ricco disse: "Ma in che cosa consiste la tranquillità? Mi sembra una scena tutt'altro che pacifica! Tutto quello che vedo è turbolenza. Dov’è la pace? ". Il terzo artista disse: "Guardi meglio, signore. Guardi vicino proprio sotto la cascata, dietro l’acqua e vedete una fenditura nella roccia, la vede? Sporgendosi in avanti, il ricco rispose: "Sì, la vedo, e vedo anche un uccello appollaiato in quella fessura. L'artista ha risposto: "Questo è tutto, signore! Questa è la pace! Nel bel mezzo della turbolenza rumorosa, l'uccello ha trovato un posto tranquillo. Amico mio, questa, è una vera pace, avere la pace in mezzo al caos, in mezzo a una vita turbolenta ".
L'insegnamento di Paolo nella lettera ai Filippesi è dunque che in mezzo al nostro mondo turbolento, in mezzo al caos si può avere e trovare la pace! Amen