Con
questo comandamento inizia nel decalogo la serie dei brevi
comandamenti che vietano certi comportamenti nei confronti di altri
esseri umani. Abbiamo già detto che il senso ultimo di tutto il
decalogo è quello di dare a Israele gli strumenti per vivere
pienamente e conservare la libertà che Dio gli ha donato liberandolo
dall'Egitto.
Essenziale
per vivere e mantenere questa libertà, è che ogni israelita abbia
ciò che Dio gli ha donato. Che ogni israelita abbia – come vedremo
nei prossimi comandamenti - la terra che gli spetta perché Dio
gliela ha donata. In questo comandamento si parla della cosa che
viene prima di tutte le altre: la vita. Dio ha donato la vita e
nessuno ha il diritto di toglierla.
A
noi può sembrare paradossale che si debba dire che non bisogna
uccidere: non dovrebbe essere ovvio e scontato? c’è bisogno di Dio
per arrivare a dire “non uccidere”?
Evidentemente
sì, e in effetti l’essere umano ha sempre ucciso, lo ha fatto il
singolo individuo, lo ha fatto la famiglia, la tribù, le nazioni
attraverso le guerre…
In
un tempo in cui il diritto veniva direttamente da Dio, “Non
uccidere” era la prima cosa da dire per evitare che ognuno si
facesse giustizia da sé e ci fosse rispetto per la vita e per
arginare l’istinto di eliminare l’altro essere umano. Oggi
questo comandamento viene spesso citato per affrontare temi scottanti
e attuali come la pena di morte, la guerra, l'aborto, l'eutanasia.
Questo perché in italiano il verbo uccidere indica il togliere la
vita in tutti i modi possibili.In
ebraico la questione è un po' più complessa, in quanto vi sono
diversi verbi che indicano il togliere la vita, che hanno però
significati diversi. È dunque utile vedere quando nella Bibbia
ebraica, viene usato proprio questo verbo.
Il
verbo che viene usato in questo comandamento è spesso usato
nell'Antico Testamento per indicare la vendetta privata. Vendetta
privata significa che se hai subito un grave torto, per esempio è
stato ucciso un tuo familiare, ti vendichi uccidendo a tua volta
l’assassino.
Il
comandamento del “non uccidere” proibisce quindi che chi ha
ucciso venga ucciso a sua volta da un parente della vittima. Non è
il singolo che può permettersi di togliere la vita per vendetta -
nemmeno di un colpevole - ma è la giustizia del popolo che deve fare
il suo corso e giudicare l'imputato.
Un
principio molto attuale, visto che ogni tanto ancora oggi qualcuno
vorrebbe farsi giustizia da sé.
Lo
stesso verbo è usato per indicare l'uccisione di Nabot, a cui il re
Acab voleva portare via la vigna, l'unica vigna che Nabot possedeva (1 Re 21).
Attraverso dei falsi testimoni, il re Acab riesce a far condannare a
morte Nabot e a impossessarsi così della sua vigna. Quello che Acab
ha fatto nei confronti di Nabot, è indicato con lo stesso verbo
usato nel comandamento del “non uccidere”. Si tratta qui di una
uccisione fatta in modo indiretto e con l'inganno. Anche questo
delitto è vietato dal nostro comandamento.
Un
ultimo esempio degno di nota di uso di questo verbo è il Salmo 94,6,
dove si dice che gli empi “ammazzano gli orfani”. Qui non si
tratta di omicidio violento, ma ad uccidere gli orfani è
l'oppressione, è l'emarginazione che essi patiscono per mano degli
empi.
Questi
ultimi due esempi sono molto antichi ma molto attuali. Ci ricordano
che la morte non è solo provocata dalla violenza diretta, ma anche
dalla violenza indiretta. Nel nostro mondo vi sono milioni di persone
che muoiono per carenze di cibo.
La
loro morte però non è una disgrazia: la miseria in cui vivono non è
inevitabile, ma è causata dalla ingiustizia distribuzione delle
risorse, è causata dallo sfruttamento selvaggio che il colonialismo
ha fatto di molti territori del sud del mondo. È quindi,
indirettamente, un omicidio.
Un
altro esempio di uccisione indiretta è quella causata
dall’impossibilità di curarsi di milioni di persone, che sono
ammalate di malattie curabili e che però non hanno accesso alle
medicine perché costano troppo. Anche qui non è una disgrazia, lo
sarebbe se i farmaci non esistessero. I farmaci esistono, ma loro
muoiono lo stesso perché non possono acquistare i farmaci e non
hanno alle spalle uno stato sociale che glieli fornisca.
Il
comandamento del non uccidere getta una chiara luce su tutte queste
morti, che non sono morti fatali, inevitabili, ma sono morti che
avvengono per delle precise responsabilità. Responsabilità non
individuali, ma collettive, responsabilità della società in cui
viviamo.
Abbiamo
letto il racconto di Caino e Abele (Genesi 4). Si tratta, secondo la Bibbia, del
primo omicidio della storia dell'umanità. E il primo omicidio della
storia dell'umanità è un fratricidio. Questo sta a significare che
ogni omicidio è in realtà agli occhi di Dio un fratricidio, un
omicidio del proprio fratello o della propria sorella. Ogni uomo,
ogni donna a cui si toglie la vita è un fratello, una sorella che
muore.
È
da questo punto di vista che vanno viste tutte le uccisioni che
accadono anche nel nostro tempo. Il sangue di tutti gli Abele grida a
Dio dalla terra e Dio le ascolta tutte. Ed è dal punto di vista di
questo racconto che vanno visti anche tutti gli assassini. Come Caino
essi sono colpevoli di una gravissima colpa, perché hanno commesso
un gesto irreparabile.
Sono
colpevoli, ma colpevoli che Dio non vuole lasciare in balìa della
vendetta di chiunque incontri Caino. Caino è punito da Dio, punito
severamente, perché è cacciato lontano da Dio. Eppure la sua vita è
salvaguardata, protetta dallo stesso Dio che l'ha punito. Nessuno
deve uccidere Caino, che pure ha ucciso suo fratello, che pure è
colpevole di fratricidio.
Uccidere
l'assassino è intanto inutile, perché non restituisce la vita alle
vittime, ed è ingiusto, perché Dio stesso si è fatto protettore
della vita del fratricida Caino. Questo racconto, più che il
comandamento “Non uccidere”, è uno dei principali argomenti
della teologia cristiana contro la pena di morte, perché nella
Bibbia è centrale ed è paradigmatico, perché Caino e Abele non
sono due uomini qualunque, ma rappresentano l'umanità feroce da un
lato e l'umanità ferita dall'altro. Dio ascolta il grido
dell'umanità ferita e uccisa e giudica pesantemente l'umanità
feroce, senza però lasciarla uccidere a sua volta. Uccidere vorrebbe
dire non dare la possibilità di cambiare.
Come
ulteriore commento al comandamento abbiamo poi letto le parole di
Gesù nel sermone sul monte (Matteo 5,21-22). Gesù radicalizza il comandamento,
mettendo sullo stesso livello l'omicidio e l'offesa nei confronti di
qualcuno. Certo, il mettere l'una accanto all'altra due cose così
diverse è un paradosso. Ma sarebbe un grosso errore liquidare troppo
in fretta questo paradosso.
Con
questo paragone Gesù ci vuole dire che la vita non è soltanto il
fatto di essere vivi, e che l'uccidere non consiste soltanto nel
togliere la vita. Vita e morte sono di più del loro significato
biologico di essere vivi e di essere morti. Gesù ci ricorda che non
si uccide soltanto togliendo la vita fisica, biologica a qualcuno, ma
che l'uccidere inizia molto prima.
Si
inizia a uccidere una persona quando si 'uccide' la sua dignità, la
sua libertà, la sua personalità. Uno schiavo è certo una persona
viva; ma che cos'è la sua vita senza libertà? Rendere un essere
umano un oggetto, privarlo della sua libertà e della sua dignità
equivale a iniziare a ucciderlo. Certe violazioni della persona o
della personalità sono come l'inizio della morte. Quante persone che
sono state nei lager nazisti hanno desiderato morire piuttosto che
vivere in quella situazione.
Gesù
ha radicalizzato questo discorso, dicendo che l’omicidio comincia
molto prima di quando qualcuno viene ucciso, comincia quando qualcuno
viene umiliato e insultato. Fare dell’altro il destinatario della
nostra rabbia è iniziare a toglierli la vita.
Gesù
ci insegna a guardare la persona, a identificare la vita con la
persona e non solo con le sue funzioni vitali. Gesù vuole cambiarci,
convertirci. Vuole farci vedere il prossimo in modo diverso, in modo
da non arrivare più a desiderare di eliminarlo. E ci dice che l'ira
che porta all'insulto e allo scherno nasce dalla stessa radice
dell'omicidio, solo che i frutti sono più piccoli.
Parole
attualissime, sia quelle del comandamento, sia quelle di Gesù.
Perché l'essere umano non ha ancora imparato a non uccidere. Uccide
ancora, continua a uccidere, in modi sempre più nascosti, sempre più
sofisticati, oppure in modi feroci e devastanti come sempre, solo che
oggi ha molta più potenza distruttiva a disposizione e la usa nelle
guerre, ma anche nell'avvelenare acqua, terra e aria, nello sfruttare
e affamare milioni di persone.
Un’interpretazione
ampia di questo comandamento l’ha data anche Martin Lutero, che nel
suo Grande Catechismo ha scritto:
“non
pecca contro questo comandamento solo chi fa del male, ma anche chi
può fare del bene al suo prossimo … e non lo fa. Se tu dunque
lasci andare una persona nuda, mentre potresti vestirla, l'hai fatta
assiderare; se vedi qualcuno che ha fame e non lo nutri, l'hai fatto
morire di fame. Così ancora: se vedi qualcuno condannato a morte o
in analoga emergenza e, conoscendone i mezzi e i modi, non lo salvi,
l'hai ucciso. E non ti servirà, come scusa, il fatto che tu non
abbia fatto nulla per condurlo in quella situazione, né contribuito
a ciò con consiglio o azione; infatti tu gli ha negato l'amore e
l'hai derubato della buona azione mediante la quale sarebbe rimasto
in vita”
(Martin
Lutero, Grande
Catechismo,
Claudiana, Torino, 1998, p. 179)
Non
è sufficiente non ammazzare nessuno per rispettare questo
comandamento, ma è necessario contrastare le pratiche di morte che
ci sono nella nostra società, intanto cercando di non diventarne
complici e poi opponendoci a esse con la forza che ci è data, come
cittadini e come credenti.
Nessun commento:
Posta un commento