6. Non uccidere (Esodo 20,13)

Con questo comandamento inizia nel decalogo la serie dei brevi comandamenti che vietano certi comportamenti nei confronti di altri esseri umani. Abbiamo già detto che il senso ultimo di tutto il decalogo è quello di dare a Israele gli strumenti per vivere pienamente e conservare la libertà che Dio gli ha donato liberandolo dall'Egitto.
Essenziale per vivere e mantenere questa libertà, è che ogni israelita abbia ciò che Dio gli ha donato. Che ogni israelita abbia – come vedremo nei prossimi comandamenti - la terra che gli spetta perché Dio gliela ha donata. In questo comandamento si parla della cosa che viene prima di tutte le altre: la vita. Dio ha donato la vita e nessuno ha il diritto di toglierla.
A noi può sembrare paradossale che si debba dire che non bisogna uccidere: non dovrebbe essere ovvio e scontato? c’è bisogno di Dio per arrivare a dire “non uccidere”?
Evidentemente sì, e in effetti l’essere umano ha sempre ucciso, lo ha fatto il singolo individuo, lo ha fatto la famiglia, la tribù, le nazioni attraverso le guerre…
In un tempo in cui il diritto veniva direttamente da Dio, “Non uccidere” era la prima cosa da dire per evitare che ognuno si facesse giustizia da sé e ci fosse rispetto per la vita e per arginare l’istinto di eliminare l’altro essere umano. Oggi questo comandamento viene spesso citato per affrontare temi scottanti e attuali come la pena di morte, la guerra, l'aborto, l'eutanasia. Questo perché in italiano il verbo uccidere indica il togliere la vita in tutti i modi possibili.In ebraico la questione è un po' più complessa, in quanto vi sono diversi verbi che indicano il togliere la vita, che hanno però significati diversi. È dunque utile vedere quando nella Bibbia ebraica, viene usato proprio questo verbo.

Il verbo che viene usato in questo comandamento è spesso usato nell'Antico Testamento per indicare la vendetta privata. Vendetta privata significa che se hai subito un grave torto, per esempio è stato ucciso un tuo familiare, ti vendichi uccidendo a tua volta l’assassino.
Il comandamento del “non uccidere” proibisce quindi che chi ha ucciso venga ucciso a sua volta da un parente della vittima. Non è il singolo che può permettersi di togliere la vita per vendetta - nemmeno di un colpevole - ma è la giustizia del popolo che deve fare il suo corso e giudicare l'imputato.
Un principio molto attuale, visto che ogni tanto ancora oggi qualcuno vorrebbe farsi giustizia da sé.
Lo stesso verbo è usato per indicare l'uccisione di Nabot, a cui il re Acab voleva portare via la vigna, l'unica vigna che Nabot possedeva (1 Re 21). Attraverso dei falsi testimoni, il re Acab riesce a far condannare a morte Nabot e a impossessarsi così della sua vigna. Quello che Acab ha fatto nei confronti di Nabot, è indicato con lo stesso verbo usato nel comandamento del “non uccidere”. Si tratta qui di una uccisione fatta in modo indiretto e con l'inganno. Anche questo delitto è vietato dal nostro comandamento.
Un ultimo esempio degno di nota di uso di questo verbo è il Salmo 94,6, dove si dice che gli empi “ammazzano gli orfani”. Qui non si tratta di omicidio violento, ma ad uccidere gli orfani è l'oppressione, è l'emarginazione che essi patiscono per mano degli empi.
Questi ultimi due esempi sono molto antichi ma molto attuali. Ci ricordano che la morte non è solo provocata dalla violenza diretta, ma anche dalla violenza indiretta. Nel nostro mondo vi sono milioni di persone che muoiono per carenze di cibo.
La loro morte però non è una disgrazia: la miseria in cui vivono non è inevitabile, ma è causata dalla ingiustizia distribuzione delle risorse, è causata dallo sfruttamento selvaggio che il colonialismo ha fatto di molti territori del sud del mondo. È quindi, indirettamente, un omicidio.
Un altro esempio di uccisione indiretta è quella causata dall’impossibilità di curarsi di milioni di persone, che sono ammalate di malattie curabili e che però non hanno accesso alle medicine perché costano troppo. Anche qui non è una disgrazia, lo sarebbe se i farmaci non esistessero. I farmaci esistono, ma loro muoiono lo stesso perché non possono acquistare i farmaci e non hanno alle spalle uno stato sociale che glieli fornisca.
Il comandamento del non uccidere getta una chiara luce su tutte queste morti, che non sono morti fatali, inevitabili, ma sono morti che avvengono per delle precise responsabilità. Responsabilità non individuali, ma collettive, responsabilità della società in cui viviamo.

Abbiamo letto il racconto di Caino e Abele (Genesi 4). Si tratta, secondo la Bibbia, del primo omicidio della storia dell'umanità. E il primo omicidio della storia dell'umanità è un fratricidio. Questo sta a significare che ogni omicidio è in realtà agli occhi di Dio un fratricidio, un omicidio del proprio fratello o della propria sorella. Ogni uomo, ogni donna a cui si toglie la vita è un fratello, una sorella che muore.
È da questo punto di vista che vanno viste tutte le uccisioni che accadono anche nel nostro tempo. Il sangue di tutti gli Abele grida a Dio dalla terra e Dio le ascolta tutte. Ed è dal punto di vista di questo racconto che vanno visti anche tutti gli assassini. Come Caino essi sono colpevoli di una gravissima colpa, perché hanno commesso un gesto irreparabile.
Sono colpevoli, ma colpevoli che Dio non vuole lasciare in balìa della vendetta di chiunque incontri Caino. Caino è punito da Dio, punito severamente, perché è cacciato lontano da Dio. Eppure la sua vita è salvaguardata, protetta dallo stesso Dio che l'ha punito. Nessuno deve uccidere Caino, che pure ha ucciso suo fratello, che pure è colpevole di fratricidio.
Uccidere l'assassino è intanto inutile, perché non restituisce la vita alle vittime, ed è ingiusto, perché Dio stesso si è fatto protettore della vita del fratricida Caino. Questo racconto, più che il comandamento “Non uccidere”, è uno dei principali argomenti della teologia cristiana contro la pena di morte, perché nella Bibbia è centrale ed è paradigmatico, perché Caino e Abele non sono due uomini qualunque, ma rappresentano l'umanità feroce da un lato e l'umanità ferita dall'altro. Dio ascolta il grido dell'umanità ferita e uccisa e giudica pesantemente l'umanità feroce, senza però lasciarla uccidere a sua volta. Uccidere vorrebbe dire non dare la possibilità di cambiare.

Come ulteriore commento al comandamento abbiamo poi letto le parole di Gesù nel sermone sul monte (Matteo 5,21-22). Gesù radicalizza il comandamento, mettendo sullo stesso livello l'omicidio e l'offesa nei confronti di qualcuno. Certo, il mettere l'una accanto all'altra due cose così diverse è un paradosso. Ma sarebbe un grosso errore liquidare troppo in fretta questo paradosso.
Con questo paragone Gesù ci vuole dire che la vita non è soltanto il fatto di essere vivi, e che l'uccidere non consiste soltanto nel togliere la vita. Vita e morte sono di più del loro significato biologico di essere vivi e di essere morti. Gesù ci ricorda che non si uccide soltanto togliendo la vita fisica, biologica a qualcuno, ma che l'uccidere inizia molto prima.
Si inizia a uccidere una persona quando si 'uccide' la sua dignità, la sua libertà, la sua personalità. Uno schiavo è certo una persona viva; ma che cos'è la sua vita senza libertà? Rendere un essere umano un oggetto, privarlo della sua libertà e della sua dignità equivale a iniziare a ucciderlo. Certe violazioni della persona o della personalità sono come l'inizio della morte. Quante persone che sono state nei lager nazisti hanno desiderato morire piuttosto che vivere in quella situazione.
Gesù ha radicalizzato questo discorso, dicendo che l’omicidio comincia molto prima di quando qualcuno viene ucciso, comincia quando qualcuno viene umiliato e insultato. Fare dell’altro il destinatario della nostra rabbia è iniziare a toglierli la vita.
Gesù ci insegna a guardare la persona, a identificare la vita con la persona e non solo con le sue funzioni vitali. Gesù vuole cambiarci, convertirci. Vuole farci vedere il prossimo in modo diverso, in modo da non arrivare più a desiderare di eliminarlo. E ci dice che l'ira che porta all'insulto e allo scherno nasce dalla stessa radice dell'omicidio, solo che i frutti sono più piccoli.
Parole attualissime, sia quelle del comandamento, sia quelle di Gesù. Perché l'essere umano non ha ancora imparato a non uccidere. Uccide ancora, continua a uccidere, in modi sempre più nascosti, sempre più sofisticati, oppure in modi feroci e devastanti come sempre, solo che oggi ha molta più potenza distruttiva a disposizione e la usa nelle guerre, ma anche nell'avvelenare acqua, terra e aria, nello sfruttare e affamare milioni di persone.

Un’interpretazione ampia di questo comandamento l’ha data anche Martin Lutero, che nel suo Grande Catechismo ha scritto:

non pecca contro questo comandamento solo chi fa del male, ma anche chi può fare del bene al suo prossimo … e non lo fa. Se tu dunque lasci andare una persona nuda, mentre potresti vestirla, l'hai fatta assiderare; se vedi qualcuno che ha fame e non lo nutri, l'hai fatto morire di fame. Così ancora: se vedi qualcuno condannato a morte o in analoga emergenza e, conoscendone i mezzi e i modi, non lo salvi, l'hai ucciso. E non ti servirà, come scusa, il fatto che tu non abbia fatto nulla per condurlo in quella situazione, né contribuito a ciò con consiglio o azione; infatti tu gli ha negato l'amore e l'hai derubato della buona azione mediante la quale sarebbe rimasto in vita”
(Martin Lutero, Grande Catechismo, Claudiana, Torino, 1998, p. 179)

Non è sufficiente non ammazzare nessuno per rispettare questo comandamento, ma è necessario contrastare le pratiche di morte che ci sono nella nostra società, intanto cercando di non diventarne complici e poi opponendoci a esse con la forza che ci è data, come cittadini e come credenti.

Nessun commento: