lunedì 19 giugno 2017

Predicazione di Domenica 19 Giugno 2017 su Matteo 9,35-10,7 a cura di Daniel Attinger

Matteo 9,35-10,7

Annunciate: il Regno è vicino!
9,35 Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità.
36 Vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. 37 Allora disse ai suoi discepoli: «La mèsse è grande, ma pochi sono gli operai. 38 Pregate dunque il Signore della mèsse che mandi degli operai nella sua mèsse».
10,1 Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità.
2 I nomi dei dodici apostoli sono questi:
il primo, Simone detto Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello; 3 Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo d'Alfeo e Taddeo; 4 Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, quello stesso che poi lo tradì.
5 Questi sono i dodici che Gesù mandò, dando loro queste istruzioni:
«Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Samaritani, 6 ma andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d'Israele. 7 Andando, predicate e dite: "Il regno dei cieli è vicino"
  

Sorelle e fratelli carissimi,
Quindici giorni fa, abbiamo celebrato la festa della Pen­tecoste che ricorda il do­no dello Spirito santo, che è la forza che anima la Chiesa e ci conforma a Cristo stes­so. Ora il Cri­sto è per definizione colui che è stato inviato nel mondo per portarvi la salvezza, cioè la rivelazione dell’amore di Dio per tutte le sue creature. Allo stesso modo, lo Spirito santo man­da noi nel mondo per­ché diventiamo testimoni, là dove vi­viamo, di questo amore di Dio. È ciò che ci ricordano le let­ture di oggi.
Nella lettera ai Romani, Paolo ricorda che la salvezza è legata alla fede, e che la fede dipende dall’ascolto della Paro­la di Dio, e quindi da uomini e donne capaci di annunciare con le parole, certo, ma anche e soprattutto con la loro vita, la gioiosa notizia dell’amore di Dio. A niente serve parlare del­l’amo­re di Dio, se chi ne parla è scorbutico! La nostra parola sarà vera, se illustra o commenta il nostro modo di vivere.
Nell’evangelo di Matteo, che è il testo sul quale mi fer­merò oggi, ci vien detto da una parte che Gesù percorre le città e i villaggi della Galilea per an­nunciarvi l’evangelo del Regno, e poi, dopo che ha scelto i Dodici, li manda a fare, an­ch’essi la stessa cosa: devono proclamare che il Regno dei cieli è vicino.
La Chiesa dunque, noi, discepoli di Gesù, dobbiamo es­sere missionari. Non nel senso abituale di missione intesa come viaggio in terre pagane per proclamarvi l’E­vangelo Si tratta molto di più di essere, là dove siamo, dei testimoni viventi dell’E­vangelo. A questo riguardo è significativo che Gesù non dica nel nostro testo: “An­date per tutto il mondo e annunciate l’Evan­gelo”, come farà alla fine dell’Evangelo; qui sottolinea invece che i disce­poli non devono uscire da Israele: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Sa­maritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore per­dute della casa d'Israele”. Annunciare l’E­vangelo a casa nostra è anche missione!
Nel testo che abbiamo ascoltato vorrei sottolineare es­senzialmente due cose.
La prima è questa: appena dopo aver detto ai suoi disce­poli: “La messe è gran­de, ma pochi sono gli operai. Pregate dunque il Signore della messe che mandi degli operai nella sua messe”, Gesù dà dei poteri ai discepoli che ha scelto e li manda. Da ciò noi impariamo che pregare perché Dio mandi degli operai nella sua vigna, impli­ca che accettiamo di diven­tare noi stessi quegli operai. In altri termini, chiedere a Dio di suscitare delle vocazioni nella sua Chiesa, significa dire a Dio: “Eccomi, manda me!”, come fece Isaia quando Dio gli apparve nel tempio di Gerusalemme.
So bene che vi è qualcosa di praticamente impossibile se vogliamo essere reali­sti. Abbiamo tutti (o quasi) raggiunto un’età in cui non possiamo più fare missione attiva, se posso dire. Ma forse non è ciò che Gesù ci chiede qui, a Biella. La Parola di Dio è sempre Evangelo, anche per una comunità piccola in cui vi sono soprattutto persone anziane. Anche quando ci chiama ad essere portatori di Evangelo, non ci ca­rica di un peso insop­portabile: vuol suscitare in noi la gioia della salvezza. Ma come?
Permettetemi di ricordarvi che qui, a Biella, non siete gli unici cristiani. Vi sono altri evangelici, vi sono poi gli altri cristiani, cattolici o ortodossi – perché la comunità ortodos­sa di Biella non è indifferente! – con i quali possiamo im­parare a vivere la gioia dell’Evan­gelo. Non rinchiudiamoci nella no­stra iden­tità “valdese” e “evange­lica”. All’amore che sapre­mo vivere con questi altri cristiani, quelli che non cono­scono il Cristo e la miseri­cordia di Dio, scopri­ranno che possono anch’essi rientrare in quel popolo che Dio ama.
La seconda cosa che vorrei ritenere dall’Evangelo che abbiamo ascoltato è che fra i Dodici che Gesù ha scelto non vi sono, se posso dire così, dei “santi”: Pietro, al momento giusto, rinnegherà il Signore, Giacomo e Giovanni, sono quelli che in un momento di col­lera vorranno far scendere il fuoco della collera di Dio sui Samaritani, perché non li hanno accolti, Bartolomeo – probabil­mente lo stesso che l’evangelo secondo Giovanni chiama Natanaele – è un incorreggibile campanilista: è lui che dichiara, a proposito del villaggio vicino al suo: “Può forse venire qualcosa di buono da Naza­reth?” Se pensiamo ora a Tommaso, l’evangelo di Giovanni ci ricorda che era particolarmente incredulo: credeva solo a ciò che poteva toccare. Matteo poi era un esattore delle tasse, una specie di spremi­agrumi umano senza scrupoli di fronte alle sue vittime: per tutti il pubblicano era il tipo per eccel­lenza del peccatore. E non è finito! C’è anche Simone, il “Ca­naneo”; questo termi­ne non evoca forse gran che per voi, ma al tempo di Gesù era l’equivalente di “terrorista”. Infine c’è Giuda, del quale Matteo precisa fin dall’inizio che “fu colui che poi lo tradì”. Diamine! Gesù è decisa­mente mal accom­pagnato, eppure sono stati tutti scelti da Gesù stesso. Forse Gesù era privo di discernimento quando ha scelto i suoi di­scepoli? Certa­mente no! La sua scelta è esemplare!
Se Gesù ha scelto questi per essere i suoi discepoli – e il risultato, tutto somma­to, non è stato negativo: duemila anni dopo la Chiesa esiste ancora, suscita ancora delle vocazioni, converte ancora uomini e donne che, ad un tratto, trovano nel mes­saggio e nella vita di questo Gesù del quale parlano i cristiani e le Chiese, un senso nuovo alla loro vita –, se dun­que Gesù ha scelto questi uomini per essere i suoi discepoli, saprà anche cosa fare di noi, nono­stante ciò che siamo!
Non c’è dunque mai motivi per disperare. Ogni motivo invece è buono per ri­destare la forza del nostro impegno cristiano.
Allora ancora una parola: in questo contesto una cosa è particolarmente essen­ziale: la gioia! Due possono essere per la nostra vita di comunità le fonti di una gioia riscoperta: in primo luogo la condivisione della santa cena. Chia­mata in greco “euca­ri­stia”, la santa cena significa “rendimento di grazie”; se dunque è rendimento di grazie è perché suscita gioia, una gioia per la quale possiamo dire grazie a Dio. Sa­rebbe importante che la cena illumini ogni vo­stra dome­nica. In secondo luogo, la gioia nasce nelle feste – non nelle “so­lennità”, ma nelle feste giovanili, nelle feste contadine: là cioè dove ci si ritrova tra amici, dove c’è comunione. Se rimania­mo fra noi, la festa è atrofizzata e soffocata, rinchiusa nel nostro piccolo numero. Se condi­videremo le nostre feste con gli altri, allora ritroveremo la gioia di essere cristiani, amici del Si­gnore Gesù Cristo, che è benedetto ora e per i secoli dei secoli.