lunedì 25 gennaio 2016

Predicazione di domenica 17 gennaio 2016 su 2 Corinzi 4,5-10 a cura di Massimiliano Zegna

5 Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore, e quanto a noi ci dichiariamo vostri servi per amore di Gesù; 6 perché il Dio che disse: «Splenda la luce fra le tenebre», è quello che risplendé nei nostri cuori per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo.
7 Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi. 8 Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati; 9 perseguitati, ma non abbandonati; atterrati ma non uccisi; 10 portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo;



Il logo attuale delle chiese valdesi, che risale alla metà del XVII secolo (apparso per la prima volta nel 1640 sul frontespizio di un libro di Valerio Grosso, allora pastore a Bobbio, una trentina di anni più tardi lo si trova nell'opera di Jean Léger, Histoire des Vaudois des Alpes) è un candeliere che regge una fonte di luce (fiamma o candela) circondata da sette stelle e accompagnato da una scritta "in tenebris lux" o "lux lucet in tenebris". Si tratta di riferimenti scritturali evidenti: la scritta è tratta dal passo evangelico dove Gesù (Vangelo di Giovanni 1,5) è definito la luce che risplende nelle tenebre. Le stelle si riferiscono alla visione di Apocalisse 1,16, dove Cristo in gloria tiene nella mano le stelle che rappresentano le sette chiese dell'Asia in crisi e persecuzione. Con questo duplice riferimento biblico i valdesi intesero affermare la loro volontà di fedeltà alla verità evangelica e la certezza di essere custoditi da Cristo nella persecuzione.

Ho voluto partire da questo riferimento storici dello stemma della chiesa valdese perché esso riassume il significato più completo del nostro essere valdesi e della nostra storia.

La partenza è dal primo capitolo della Genesi al versetto 3 dove Dio disse: “Sia luce!” E la luce fu. Dio vide che la luce era buona: e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce “giorno” e le tenebre “notte”. Fu sera, poi fu mattina: primo giorno.

E l'Evangelo di Giovanni ha un inizio diverso da quelli di Luca e Matteo che sono stati citati nei racconti del Natale di Gesù: è un inizio che si richiama appunto alla Genesi.

Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei: e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno sopraffatta”.

Nella lettera di Paolo ai Corinzi l'Evangelo di Giovanni viene reso esplicito attraverso questa frase: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo quale Signore, e in quanto a noi ci dichiariamo vostri servi per amore di Gesù; perché il Dio che disse: Splenda la luce fra le tenebre è quello che risplendè nei nostri cuori per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo”.
Paolo scrisse questa seconda lettera ai Corinzi non molto tempo dopo la prima (si può pensare agli anni 56 e 57). A Corinto erano arrivati in quel periodo dei nuovi apostoli, degli evangelizzatori che avevano non soltanto preso le loro distanze dalla persona di Paolo (anziché riconoscerne l'autorità e il ruolo di privilegio nei confronti dei Corinzi, essendo egli il fondatore di quella comunità); ma addirittura erano giunti a contestare la sua autorità di apostolo e di padre della comunità di Corinto.
E' quindi un momento particolarmente drammatico e difficile per Paolo.
Corinto è una città della Grecia centro meridionale del Peloponneso la cui prima chiesa cristiana fu fondata da Paolo nel 51 dopo Cristo.
Tra la prima e seconda lettera di Paolo ai Corinzi vi sono stati dei fatti drammatici sia per quanto riguarda Paolo che probabilmente finì in carcere, mentre era in Asia, sia per quanto riguarda la chiesa di Corinto che, a causa di “falsi apostoli” come li considera lo stesso Paolo, ebbe discussioni molto accese.
La lettera, come la definiscono alcuni commentatori, è molto emotiva e presenta alcune disorganicità: e così il tono di Paolo passa dall'amaro e sarcastico a quello magnanimo e fiducioso.
C'è da aggiungere, infatti, che la situazione della chiesa di Corinto dopo che il discepolo Tito che, probabilmente era il latore della lettera, si era andata riappacificandosi con Paolo.
Le difficoltà derivavano comunque da quelle che erano le abitudini di una città greca e influenzata dal paganesimo a quelli che erano gli insegnamenti Gesù portati attraverso Paolo.

Ci possiamo gloriare nella debolezza perché sappiamo già che Cristo vince la debolezza. In questo senso possiamo comprendere le beatitudini riecheggiate da Paolo (v. 10): essere poveri, afflitti, affamati, perseguitati non è di per sé bello; ma è motivo di beatitudine nella prospettiva del regno di Dio, poiché ai poveri, agli afflitti, agli affamati e ai perseguitati è rivolta la promessa di vittoria, di giustizia, di consolazione e di pace. Così anche capiamo la scelta dei primi valdesi che attualizzarono le beatitudini nella loro vita concreta.
Riconoscere la nostra debolezza significa, in ultima istanza, riconoscere l’efficacia della Parola di Dio”. Così scrive il pastore Marcello Salvaggio. Che così continua:
Riconoscere la nostra debolezza significa, in ultima istanza, riconoscere l’efficacia della Parola di Dio, nella provvisorietà e inadeguatezza delle nostre parole e delle nostre azioni. Paolo vuole dirci che l’efficacia della Parola è paradossalmente ancora più forte nella nostra debolezza, se solo sappiamo riconoscerla. Così la forza dei nostri culti, dei nostri catechismi, delle nostre riunioni quartierali, delle nostre corali, della nostra diaconia, della nostra evangelizzazione, non sta principalmente nella partecipazione delle persone o nella capacità persuasiva dei nostri metodi. La nostra forza è unicamente l’Evangelo che riusciamo ad annunciare in qualsiasi contesto ci troviamo, anche se siamo un piccolo gruppo o stiamo vivendo un momento di crisi della vita spirituale. Questa forza non va sprecata perché è la potenza di Dio, ma va ricercata e sostenuta nella preghiera. Nostro compito, nostra vocazione è dunque unicamente di metterci al servizio di Cristo e dell’Evangelo, come Paolo ci insegna”.

Questi versetti del capitolo 4 della seconda Lettera ai Corinzi ricordano bene che l'incontro con Dio, con Cristo può avvenire non solo da parte di chi predica in una grande chiesa, ma anche da pastori di piccole chiese magari frequentate da poche unità di fedeli.

Era quanto mi era successo a Rapallo un bel po' di anni fa: ero entrato per la prima volta nella mia vita in una piccola chiesa battista durante una domenica di pioggia intensa.
Ero un adolescente e stavo cercando un momento in cui meditare sul perché della mia esistenza. Mi trovai così in un locale che probabilmente era stato un garage. Quindi un locale in cui ben lontano era il pensiero di trovarmi in una chiesa almeno così come l'avevo concepita finora. Avendo frequentato finora solo grandi chiese cattoliche la mia idea di luoghi di culto era quella di un vasto locale con tante statue, con un crocefisso, candelabri, candele, dipinti, tanta gente. Tutto questo mi trasmetteva ormai freddezza e non riuscivo più a concentrarmi sulle parole che pronunciava il sacerdote sull'altare.
Nel piccolo e disadorno locale di Rapallo il pastore battista con un vestito normale, in cui l'unico distintivo era una piccola croce sistemata nell'asola sinistra del colletto della sua giacca stava per iniziare il culto (non sapevo ancora che si chiamava così) seguito da un'anziana signora e da un ragazzo dall'aria un po' trasognata. Io ero il terzo partecipante e il pastore ringraziò Dio per avermi condotto in quel luogo che per la prima volta mi fece assistere ad una cerimonia religiosa diversa dal solito.
Mi ricordo soltanto alcune frasi non molto cordiali nei confronti del Vaticano e della chiesa cattolica romana e il tono di carattere colloquiale ben lontano dalla retorica ecclesiastica che avevo sentito nelle chiese fino ad allora frequentate.
Ho raccontato questo episodio della mia prima visita in una chiesa protestante perché leggendo alcuni brani della seconda epistola ai corinzi mi sono ricordato che il significato di quel che voleva dire Paolo era proprio che l'incontro con Dio può avvenire anche da parte di una persona semplice e la sua parola può essere trasmessa anche in un locale altrettanto semplice.
Una parola che può essere contenuta in un fragile vaso di creta ma non per questo non meno importante e significativa: un vero e proprio tesoro.

Questi brani si adattano bene alle vicende delle nostre chiese. Poco fa ho parlato di una chiesa battista in cui vi erano tre persone, ma oggi potrei parlare anche della nostra chiesa valdese in cui diventa sempre più difficile incontrare una decina di persone.
Eppure questa chiesa valdese nata nella seconda metà del 1100 è sempre stata frequentata da una sparuto numero di persone, all'inizio a causa delle persecuzioni che decimavano le sorelle ed i fratelli di allora la cui colpa era quella di leggere la Bibbia o pregare. Oggi il numero ridotto è causa di una sempre più fragile attenzione verso i culti di adorazione, ma la scintilla che ha dato origine al movimento valdese non si spegne.
E proprio nelle settimane scorse abbiamo assistito a culti realizzati insieme al nostro pastore Marco Gisola dai bambini e bambine, dai ragazzi e dalle ragazze della nostra chiesa.
Vi è quindi una trasmissione della fede, delle nostre idee religiose magari in modo discontinuo ma che dura nel tempo.
Sono passati quasi vent'anni da quel 19 giugno 1997 i cui il pastore Jonathan Terino mi regalò a nome della Comunità questa Bibbia che oggi sto leggendo.
Anche in quel caso il brano scelto fu scritto da Paolo della seconda lettera a Timoteo . Con scrittura minuta ma chiara Jonathan trascrisse questi versetti che mi rimasero sempre impressi anche nei momenti in cui la fede mi appariva sempre più difficile da professare.
Voglio leggere questi versetti tratti dal capitolo 2 versetti 11: “Certa è questa affermazione: se siamo morti con lui, con lui anche vivremo; se abbiamo costanza, con lui anche regneremo; se lo rinnegheremo anch'egli ci rinnegherà; se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.

giovedì 14 gennaio 2016

Predicazione di domenica 10 gennaio 2016 su Efesini 3,2-6 a cura di Marco Gisola

Senza dubbio avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi; come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto in poche parole; leggendole, potrete capire la conoscenza che io ho del mistero di Cristo. Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui; vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo.

L’Epifania non è una festa tenuta in grande considerazione nelle nostre chiese, anche se gli storici ci dicono che come festa è più antica del Natale stesso. Ma dato che il nostro lezionario prevede anche questo culto, vi propongo il testo che il lezionario suggerisce per la festa dell’Epifania.
L’epifania ricorda la visita dei magi a Gesù. È l’evangelista Matteo (2,1-12) che ci ha tramandato il racconto della visita dei magi di oriente al neonato Gesù; sono loro che scatenano la gelosia del re Erode, dicendogli di essere in cerca del re dei Giudei, gelosia che porterà Erode a decidere la cosiddetta strage degli innocenti.
Come avete sentito, nel racconto di Matteo non ci sono alcuni aspetti della tradizione che ci è stata tramandata sui magi: Matteo non dice che i magi siano tre, numero che probabilmente la tradizione ha tratto dal fatto che i doni che essi portano a Gesù sono tre: oro, incenso e mirra. E non dice che i magi siano re. Essi erano piuttosto dei saggi che si dedicavano all’astronomia, allo studio degli astri, ed infatti arrivano a Betlemme guidati da una stella.
Che significato ha questa strana storia che troviamo nel vangelo di Matteo? Che ruolo hanno questi misteriosi personaggi che vengono da lontano, da regioni pagane, per rendere omaggio a Gesù? Quello che è importante in questo racconto è che persino degli stranieri, persino dei pagani, anzi potremmo dire dei pagani prima degli altri, vengono ad adorare Gesù.
Questo racconto ha un alto valore simbolico: ad adorare Gesù, secondo il vangelo di Matteo, arrivano per primi dei pagani. Già nella stalla di Betlemme si anticipa ciò che accadrà più tardi: non solo i giudei, ma anche i pagani crederanno in Gesù.
L’unione di giudei e pagani in Cristo è uno dei temi principali della lettera agli Efesini, in cui si trova il testo di predicazione di oggi, ed il passo di oggi parla proprio di questo, in particolare il verso 6, in cui si dice che: «gli stranieri sono eredi con noi - dove noi indica i giudei -, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù».
Paolo parla ovviamente da ebreo e gli stranieri indicano i pagani, e quindi “con noi” significa” i pagani insieme con noi ebrei.
Gesù è venuto per tutti. Questo è il senso sia del racconto della visita dei magi a Gesù, sia il senso del brano della lettera agli Efesini.
Accettare l’universalismo, cioè che Gesù è venuto per tutti, è stato la sfida principale del cristianesimo primitivo. Era facile pensare, ed alcuni lo pensavano, che appartenere al popolo di Gesù, al popolo ebraico, potesse costituire un privilegio anche davanti a Gesù; ed era facile pensare che Gesù fosse venuto solo per il popolo ebraico.
Fu però giudicata vera l’altra strada, quella, appunto, dell’universalismo: il messaggio di Gesù Cristo è per tutti; nessuno davanti a lui ha privilegi e nessuno è svantaggiato, tutti sono uguali, perché davanti a Gesù nessuno ha dei meriti, si parte tutti da zero; Cristo rende tutti uguali. Per noi questo è scontato, quasi banale, ma se allora non fosse stata scelta questa strada, probabilmente oggi noi non saremmo cristiani.
Nei versi precedenti a quelli che abbiamo letto, l’apostolo aveva parlato del muro di separazione tra giudei e pagani, muro che Cristo ha abbattuto, facendo dei due popoli un solo popolo. E nel passo che abbiamo letto, l’autore dice di aver ricevuto il compito di annunciare questo evento ai pagani, di predicare loro quello che fino ad allora era un mistero e che Cristo ora ha rivelato: in lui Dio ha deciso di rivelarsi a tutti, compresi i pagani.
Il mistero che è stato rivelato è che ora non c’è più nessuna appartenenza, nessuna legge, nessuna tradizione, non c’è più niente di niente che costituisca né un privilegio, né un ostacolo per la fede. Non è un privilegio, né una garanzia appartenere al popolo di Gesù e non è un ostacolo non appartenervi: davanti a Dio, davanti a Gesù siamo tutti uguali, nel senso che tutti non abbiamo nulla da offrire.
E non è un caso che l’autore di questa lettera insista molto anche su un altro tema, quello della giustificazione per sola grazia di Dio in Cristo. Perché è questo che fonda l’uguaglianza di tutti davanti a Dio; siamo tutti uguali perché siamo tutti poveri e nudi davanti a Dio, perché nessuno di noi ha qualcosa da offrire, ma solo da ricevere.
Da Dio possiamo solo ricevere la sua grazia e non abbiamo nulla da offrire in cambio: è stata questa la rivoluzione che ha reso possibile che Cristo dei due popoli, quello giudeo e quello pagano, ne facesse uno solo; è stato questo che ha reso possibile che stranieri e giudei fossero eredi insieme, membra di un medesimo corpo e partecipi insieme della promessa fatta in Cristo.
Ciò che si era prima non conta più, perché in Cristo non conta ciò che si è, ma conta ciò che si diventa. In Cristo non conta ciò che si ha, conta ciò che si riceve.
Questo è quello che ha fatto diventare il cristianesimo una fede universale, che ha abbattuto non solo il muro di separazione tra giudei e pagani, ma anche tutti gli altri muri di separazione tra tutte le altre categorie umane: Paolo nella lettera ai Galati dice che in Cristo non ci sono giudei e pagani, uomini e donne, nemmeno schiavi e liberi, ma che tutti siamo uno in Cristo.
Questo è l’evangelo, che spesso le chiese non hanno saputo e non sanno vivere fino in fondo, costruendo dei muri là dove Cristo li aveva abbattuti.
Guardiamo in casa nostra e pensiamo a quello che è successo il secolo scorso nella chiesa riformata del Sudafrica con l’apartheid. Chiese di bianchi e chiese di neri, nettamente separate, perché i bianchi si consideravano superiori, nella società e nella chiesa. Pensiamo alla discriminazione razziale che c’era legalmente negli Stati Uniti, piena di chiese protestanti.
Grazie a Dio, in queste situazioni in cui le chiese tradivano la loro vocazione di essere chiese per tutti, credenti come Nelson Mandela in Sudafrica e Martin Luther King negli Stati Uniti hanno saputo vivere questo universalismo, spesso predicato, ma non sempre – o forse raramente – vissuto fino in fondo.
E, per menzionare un altro muro che i credenti hanno eretto laddove Cristo lo aveva abbattuto, pensiamo al ruolo delle donne nelle chiese. In molte chiese esse non possono accedere ai ministeri e anche nella nostra chiesa ci si è arrivati solo cinquant’anni fa.
Oggi è al centro del dibattito di tutte le chiese il diritto delle persone omosessuali di essere accettati come credenti uguali a tutti gli altri. A mio parere, questo è un altro muro che è stato costruito nei secoli e che ha tenuto al di fuori del perimetro delle chiese molti credenti, facendoli anche sentire in colpa per quello che sono.
La storia dei magi non è un bel racconto per bambini e le parole della lettera agli Efesini non sono riflessioni che riguardano la situazione della chiesa antica, ma sono parole bibliche che ci dicono che l’evangelo è per tutti e che tutti sono uguali davanti all’evangelo.
“Con noi” sono le parole chiave di questo brano: gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo.
Altri con noi, uguali a noi; altri credenti con noi, uguali a noi. Non altro conta che non sia la fede in Cristo dono della grazia di Dio, che abbatte tutti i muri e apre le porte a tutti ugualmente, come è accaduto con i magi d’oriente, che rappresentano tutti quelli che prima erano esclusi e ora sono accolti, anzi chiamati, che rappresentano tutti i diversi, che ora sono uguali, tutti i lontani che ora sono vicini.
Questo è il mistero, di cui parla Paolo, che è stato rivelato nell’evangelo e che anche noi siamo chiamati a vivere e testimoniare.