martedì 27 aprile 2021

Predicazione di domenica 25 aprile 2021 su Atti 17,19-34 a cura di Marco Gisola

 Atti 17,19-34

 Presolo [Paolo] con sé, lo condussero su nell’Areòpago, dicendo: «Potremmo sapere quale sia questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu ci fai sentire cose strane. Noi vorremmo dunque sapere che cosa vogliono dire queste cose». Or tutti gli Ateniesi e i residenti stranieri non passavano il loro tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare novità.  E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:

«Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi.  Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa.  Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua discendenza". Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti».

 Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta». Così Paolo uscì di mezzo a loro. Ma alcuni si unirono a lui e credettero; tra i quali anche Dionisio l’areopagita, una donna chiamata Damaris, e altri con loro.



«Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete estremamente religiosi». Paolo è molto astuto e per predicare l’evangelo agli ateniesi parte dalla loro religiosità, religiosità pagana, mista alla grande cultura filosofica e politica che gli ateniesi del primo secolo avevano ereditato dai loro antenati, quelli che noi chiamiamo i classici dell’antica Grecia.

Atene non era più quella di cinque secoli prima, ma le persone colte e libere passavano il loro tempo sull’areopago, luogo dove nella Atene del quinto secolo aveva sede un importante tribunale. Ora era un luogo dove le persone più in vista e più colte si dilettavano a discutere di filosofia, di politica e di religione. Gli schiavi invece, ovviamente lavoravano dalla mattina alla sera e non avevano tempo per la politica e la filosofia.

E questi uomini colti sono disposti, forse anche incuriositi, ad ascoltare questo ebreo di cultura greca, che parla loro greco, che è Paolo. Sono sempre assetati di novità, e anche questa nuova religione suscita la loro curiosità.

Paolo parte menzionando un altare, che ha visto in città, intitolato al Dio sconosciuto. Il Dio che a voi è sconosciuto io ve lo faccio conoscere, dice in modo che forse oggi giudicheremmo un po’ presuntuoso…

Paolo parte dalla religiosità degli ateniesi, ma nel suo discorso smonta pezzo per pezzo la loro religione per arrivare ad annunciare la rivelazione e il culmine della rivelazione di Dio in Cristo che è la resurrezione.

Anche il cristianesimo, dal punto di vista sociologico, cioè visto e analizzato dal di fuori, è una religione, accanto a molte altre: ebraismo, islam, buddismo, induismo… ma vista dall’interno, la fede cristiana è una fede fondata su una rivelazione, cioè una libera iniziativa di Dio.

Potremmo dire che la religione o religiosità, o pratica religiosa è ciò che l’essere umano fa per Dio. La rivelazione è ciò che Dio fa per l’essere umano.

Paolo parte dalla creazione, ma non può partire dalla Bibbia, dal libro della Genesi, perché gli ateniesi non la conoscono. Però lui ce l’ha bene in mente e parte parlando del Dio creatore:

«Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra»

Già qui mette in discussione un tratto tipico della religiosità greca: il politeismo. Dio è uno e ha creato il mondo e ha creato tutte le nazioni. Dio è uno e ha creato non solo tutto, ma tutti, tutte le nazioni, tutti i popoli.

Dunque non un Dio per ogni occasione, uno per la fecondità, uno per la fertilità, uno per la pace, una per la guerra… ma un Dio solo. E sopratutto non un Dio per ogni popolo, ma un Dio che ha creato tutti gli esseri umani, tutti i popoli.

Ancora oggi, nel ventunesimo secolo, il razzismo è una piaga per l’umanità, figuriamoci allora. C’erano i greci, popolo che si riteneva superiore per lingua, cultura, arte…. E poi c’erano tutti gli altri, i cosiddetti barbari, cioè coloro che non parlano greco. Era una definizione per negazione: non parli greco, non sei greco, sei altro, sei barbaro.

Anche gli ebrei dunque erano barbari. E Paolo – questo ebreo che parla greco - viene a dire che tutte le nazioni vengono da un solo Dio. Prima cosa sconcertante per le colte orecchie greche.

E poi dice che questo Dio «non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa». Non siamo noi a fargli una casa, non siamo noi a dargli qualcosa, ma è lui che dà a noi la vita, il respiro e ogni cosa. Il Dio annunciato da Paolo non è un Dio che chiede ma è un Dio che dà.

Noi che diamo a Dio, noi che vogliamo andare a Dio: questa è la religione. Dio che viene a noi, Dio che dà a noi: questa è la rivelazione. E finora – potremmo dire – è la rivelazione del Dio di Israele. Infatti, ciò che Paolo ha detto finora, avrebbe potuto dirlo anche un ebreo.

Il fondamento di ciò che ha detto Paolo fino ad ora sta nella fede nel Dio unico e creatore e nella critica dell’idolatria, cioè nell’AT. Perché anche l’AT è rivelazione, che Dio ha dato a Israele attraverso la Torah, sua volontà rivelata a Mosè sul Sinai.

Ma questa è solo la prima tappa della rivelazione, Paolo prepara così l’annuncio della rivelazione in Cristo:

«Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti».

Dio ha creato tutte le nazioni, ora dunque tutti gli esseri umani sono chiamati a ravvedersi. Anche i colti greci. Tutti uguali nella creazione, tutti uguali nell’appello al ravvedimento.

E tutti uguali nel giudizio che Dio farà «per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito», cioè ha scelto, e che ha risuscitato dai morti. Alle loro orecchie l’annuncio della resurrezione suona troppo strano, inconcepibile. Tutto ciò che Paolo aveva detto fino a quel momento era ancora ascoltabile, ma questo no. Che un uomo venga risuscitato dai morti è troppo.

Si poteva pensare a una morte eroica o affrontata a testa alta come aveva fatto il filosofo Socrate, che aveva accettato di essere condannato a morte, benché innocente, ma l’idea della resurrezione non apparteneva al pensiero greco.

E dunque: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta…». Quando il discorso di Paolo arriva all’annuncio della resurrezione i colti ateniesi se ne vanno.

Ma non tutti. L’ultimo versetto del racconto del libro degli Atti ci dice «Ma alcuni si unirono a lui e credettero; tra i quali anche Dionisio l’areopagita, una donna chiamata Damaris, e altri con loro».

Abbiamo due nomi, un uomo, membro dell’Areopago, cioè dell’assemblea degli ateniesi, e una donna e poi altri anonimi.

Notiamo che non c’è alcuna parola di condanna o di giudizio nei confronti di coloro che non credono e se ne vanno. Non è stato così per gran parte della storia del cristianesimo.

L’accento è posto invece su coloro che hanno creduto, e questi due nomi ci dicono che di questo Dionisio e di questa Damaris si è conservata testimonianza. Loro due e gli altri, anonimi, sono persone, vite, storie.

Un successo o un fallimento? Ai nostri occhi, abituati a valutare successo e fallimento in base alla quantità, ai numeri, è un fallimento, non totale ma quasi. Per l’autore degli Atti è un successo, perché ci dice che l’evangelo ha attecchito anche ad Atene.

Dionisio, Damaris e qualcun altro hanno creduto, per loro Dio non è più sconosciuto e la morte non è più soltanto la fine da affrontare a testa alta, ma è il nemico che Cristo ha affrontato per noi e ha vinto.

Dopo Paolo avrà parlato loro della croce di Cristo, dei suoi insegnamenti, di tutta la storia di Israele e dei suoi profeti che lo hanno preannunciato…

Ma la svolta avviene con la fede nella resurrezione, la svolta dal Dio sconosciuto al Dio conosciuto perché rivelato in Cristo, la svolta dalla religione che vuole far abitare Dio in templi fatti da mano d’uomo alla rivelazione del crocifisso risorto e salito in cielo.

Tre domeniche dopo Pasqua questo racconto ci dice che per la fede è sempre Pasqua, che Pasqua è il centro della fede e il momento in cui la fede nasce e rinasce, il momento in cui non si cerca più Dio come a tentoni, ma lo si incontra perché Cristo è risorto e viene a noi nell’annuncio dell’evangelo e con lui risorge la nostra fede, la nostra speranza, la nostra vita.



domenica 18 aprile 2021

Predicazione di Domenica 18 aprile 2021 su Ezechiele 34 a cura di Marco Gisola

Ezechiele 34

1 La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini: 2 «Figlio d’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele; profetizza, e di’ a quei pastori: Così parla il Signore, DIO: “Guai ai pastori d’Israele che non hanno fatto altro che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere? 3 Voi mangiate il latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è ingrassato, ma non pascete il gregge. 4 Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza. 5 Esse, per mancanza di pastore, si sono disperse, sono diventate pasto di tutte le bestie dei campi, e si sono disperse. 6 Le mie pecore si smarriscono per tutti i monti e per ogni alto colle; le mie pecore si disperdono su tutta la distesa del paese, e non c’è nessuno che se ne prenda cura, nessuno che le cerchi!

7 Perciò, o pastori, ascoltate la parola del SIGNORE! 8 Com’è vero che io vivo”, dice il Signore, DIO, “poiché le mie pecore sono abbandonate alla rapina; poiché le mie pecore, che sono senza pastore, servono di pasto a tutte le bestie dei campi, e i miei pastori non cercano le mie pecore; poiché i pastori pascono se stessi e non pascono le mie pecore, 9 perciò, ascoltate, o pastori, la parola del SIGNORE! 10 Così parla il Signore, DIO: Eccomi contro i pastori; io domanderò le mie pecore alle loro mani; li farò cessare dal pascere le pecore; i pastori non pasceranno più se stessi; io strapperò le mie pecore dalla loro bocca ed esse non serviranno più loro di pasto”.

11 «Infatti così dice il Signore, DIO: “Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. 12 Come un pastore va in cerca del suo gregge il giorno che si trova in mezzo alle sue pecore disperse, così io andrò in cerca delle mie pecore e le ricondurrò da tutti i luoghi dove sono state disperse in un giorno di nuvole e di tenebre; 13 le farò uscire dai popoli, le radunerò dai diversi paesi e le ricondurrò sul loro suolo; le pascerò sui monti d’Israele, lungo i ruscelli e in tutti i luoghi abitati del paese. 14 Io le pascerò in buoni pascoli e i loro ovili saranno sugli alti monti d’Israele; esse riposeranno là in buoni ovili e pascoleranno in grassi pascoli sui monti d’Israele. 15 Io stesso pascerò le mie pecore, io stesso le farò riposare”, dice il Signore, DIO. 16 “Io cercherò la perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, rafforzerò la malata, ma distruggerò la grassa e la forte: io le pascerò con giustizia.

17 Quanto a voi, o pecore mie, così dice il Signore, DIO: Ecco, io giudicherò tra pecora e pecora, fra montoni e capri. 18 Vi sembra forse troppo poco il pascolare in questo buon pascolo, al punto che volete calpestare con i piedi ciò che rimane del vostro pascolo? il bere le acque più chiare, al punto che volete intorbidire con i piedi quel che ne resta? 19 Le mie pecore hanno per pascolo quello che i vostri piedi hanno calpestato; devono bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito!”

20 Perciò, così dice loro il Signore, DIO: “Eccomi, io stesso giudicherò fra la pecora grassa e la pecora magra. 21 Siccome voi avete spinto con il fianco e con la spalla e avete cozzato con le corna tutte le pecore deboli finché non le avete disperse e cacciate fuori, 22 io salverò le mie pecore ed esse non saranno più abbandonate alla rapina; giudicherò tra pecora e pecora. 23 Porrò sopra di esse un solo pastore che le pascolerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, egli sarà il loro pastore. 24 Io, il SIGNORE, sarò il loro Dio, e il mio servo Davide sarà principe in mezzo a loro. Io, il SIGNORE, ho parlato. 25 Stabilirò con esse un patto di pace; farò sparire le bestie selvatiche dal paese; le mie pecore abiteranno al sicuro nel deserto e dormiranno nelle foreste. 26 Farò in modo che esse e i luoghi attorno al mio colle saranno una benedizione; farò scendere la pioggia a suo tempo, e saranno piogge di benedizione. 27 L’albero dei campi darà il suo frutto, e la terra darà i suoi prodotti. Esse staranno al sicuro sul loro suolo e conosceranno che io sono il SIGNORE, quando spezzerò le sbarre del loro giogo e le libererò dalla mano di quelli che le tenevano schiave. 28 Non saranno più preda delle nazioni; le bestie dei campi non le divoreranno più, ma se ne staranno al sicuro, senza che nessuno più le spaventi. 29 Farò crescere per loro una vegetazione rinomata; non saranno più consumate dalla fame nel paese e non subiranno più gli oltraggi delle nazioni. 30 Conosceranno che io, il SIGNORE, loro Dio, sono con loro, e che esse, la casa d’Israele, sono il mio popolo”, dice il Signore, DIO. 31 “Voi, pecore mie, pecore del mio pascolo, siete uomini. Io sono il vostro Dio”, dice il Signore, DIO».



1. A chi si rivolge questo brano di Ezechiele? Chi sono i pastori a cui si rivolge Dio attraverso il profeta con queste parole di giudizio?

Se volessimo applicare questo brano alla nostra realtà di oggi dovremmo dire che esso si rivolge al presidente Draghi, a tutti i ministri e alle ministre del suo governo, ai e alle parlamentari, a tutti i governanti della “cosa pubblica”, fino ai sindaci e ai consiglieri comunali delle nostre città.

Ezechiele sta infatti qui parlando ai capi del popolo d’Israele, ai re e ai governanti di Israele; il discorso è dunque prevalentemente politico. E qual’è l’accusa? “Guai ai pastori d’Israele che non hanno fatto altro che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere?” (v. 2). L’accusa è quella di usare il posto che occupano, il ruolo che hanno per fare il proprio bene e non quello del gregge, cioè del popolo.

La colpa dei pastori di Israele è vecchia come il mondo, perché è la tentazione e il peccato che cova dentro ciascun essere umano, quella di cercare soltanto il proprio bene anche a discapito del bene degli altri, anzi anche provocando il male degli altri.

Tentazione che è tanto più grande quanto più si ha potere, il che non deve farci dimenticare che questa tentazione è presente anche quando si ha poco potere. Si può abusare del proprio potere anche quando se ne ha poco.

E qui Dio, nelle parole del profeta, dicendo ciò che i pastori del gregge non hanno fatto, descrive in poche parole il suo programma politico: «Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza»

Non hanno fatto ciò che dovevano fare, cioè occuparsi delle pecore più deboli e delle pecore più fragili. Non solo di quelle, ma prima di tutto di quelle, perché se non curi subito la pecora ferita starà sempre più male finché non potrà più camminare, se non vai a cercare quella smarrita, si perderà senz’altro e non tornerà indietro.

E hanno invece fatto ciò che non dovevano fare: «avete dominato su di loro con violenza e con asprezza». Non dovevano dominare sul popolo, dovevano “pascerlo” e «pascerlo con giustizia», come dirà Dio più avanti. E la giustizia, come ci dice tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, inizia dagli ultimi, da quelli che stanno peggio, da quelli che hanno meno possibilità e meno diritti.

Chi governa il popolo di Dio è tenuto a seguire questo programma politico, altrimenti Dio lo destituisce, gli toglie il potere. Un programma politico che ciascun politico cristiano dovrebbe perseguire.



2. Questo è il primo livello di lettura di questo brano profetico. A noi poi viene naturale applicare ciò che leggiamo qui anche alla chiesa e ai pastori della chiesa, cioè a tutti e tutte coloro che hanno una responsabilità nella chiesa, a partire dai pastori e dalle pastore, fino a tutte quelle persone che danno il loro contributo alla vita della chiesa nei vari organismi e in mille modi.

Guai a me se considerassi questa parola rivolta solo ad altri e non a me stesso. Lo stesso criterio vale ovviamente, e anzi a maggior ragione, nella chiesa: gli ultimi saranno i primi, ma non solo saranno, gli ultimi sono (dovrebbero essere) i primi destinatari di quella che chiamiamo - proprio a partire dalle tante immagini del pastore che troviamo nella Bibbia – cura pastorale.

Questa parola di giudizio è rivolta anche a me, quando dimentico, trascuro o peggio non voglio o non riesco a vedere la pecora ferita o smarrita.

Ma poiché la chiesa è una comunità di uguali, e poiché questa parola interpella tutti e tutte noi, proprio nella chiesa dobbiamo riconoscere che siamo tutti e tutte pecore e pastori e pastore al tempo stesso. Al di là del ruolo ufficiale - che senza implica una maggior responsabilità di chi lo ricopre – tutti noi siamo al tempo stesso pecore e pastori/e di qualcun altro.

Siamo tutti e tutte bisognosi di cura e tutti e tutte responsabili di prenderci cura gli altri; ma dire “gli altri” è troppo generico: diciamo allora che siamo tutti e tutte responsabili di prenderci cura di qualcun altro, di quel fratello, di quella sorella con cui veniamo in dialogo e ci parla dei suoi problemi o di cui veniamo a sapere che sta attraversando un momento difficile.

Tra i compiti del pastore secondo Ezechiele cioè secondo Dio, c’è quello di cercare la pecora smarrita, che può essere quella che non viene al culto, non viene in chiesa per qualche motivo, ma non solo; può anche essere quella che c’è sempre ma che nessuno va mai a cercare.

Tutti noi siamo contenti quando veniamo cercati ed è proprio per questo che questa parola chiama noi tutti – e non solo pastori e pastore – ad andare a cercare.

Non solo i pastori, certo sopratutto i pastori e le pastore, ma non solo, perché nessun pastore sarà perfetto, c’è sempre il rischio di dimenticare qualcuno, di trascurare, di non vedere o di non capire tutte le situazioni. Solo la comunità nel suo insieme può ridurre al minimo questo rischio. La comunità diventa così una sorta di “cura pastorale collettiva”, dove ci si prende cura gli uni degli altri.



3. Nel corso del brano però non c’è soltanto la distinzione tra pecore e pastori, ma a un certo punto anche quella tra pecore grasse e forti e pecore magre e deboli: «io stesso giudicherò fra la pecora grassa e la pecora magra. Siccome voi avete spinto con il fianco e con la spalla e avete cozzato con le corna tutte le pecore deboli finché non le avete disperse e cacciate fuori» (vv. 20-21).

La tentazione del dominio non è solo presente nei pastori, ma anche nelle pecore. Come nel libro “La fattoria degli animali” di Orwell, tutti gli animali sono uguali, ma qualcuno è “più uguale degli altri”.

Dunque la colpa non è mai tutta di chi comanda, dei politici, della casta, come dice un certo pensiero populista, che contrappone in modo ideologico popolo buono e governanti cattivi. No, nel gregge, tra la gente comune, ci sono pecore che spingono via altre pecore dai loro pascoli.

Nessun rapporto umano è esente dalla tentazione del dominio o almeno dell’affermazione di sé a scapito degli altri. Ma Dio giudica le pecore che si ingrassano spingendo via le altre dal pascolo di cui avrebbero diritto, perché Dio pasce le sue pecore con giustizia.

Nella società chi spinge via gli altri va fermato; nella chiesa, se succede, anche; ma soprattutto con il costante ascolto della Parola di Dio come quella di oggi, chiediamo a Dio di aiutarci a fare sì che ciò non accada o accada il meno possibile, perché la sua parola crea comunione, che è l’esatto contrario del dominio.



4. Il culmine del brano di Ezechiele non è però nel giudizio, ma nella promessa: Dio giudica i pastori cattivi, giudica anche le pecore cattive, e poi decide di intervenire lui stesso:

Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore e andrò in cerca di loro. […] “Io cercherò la perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, rafforzerò la malata, ma distruggerò la grassa e la forte: io le pascerò con giustizia (vv. 11.16). Dio farà lui stesso il pastore, e se avete notato, fa esattamente le cose che aveva rimproverato ai pastori di non aver fatto.

Ma poi più avanti dà questo compito al suo servo Davide: … Porrò sopra di esse un solo pastore che le pascolerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, egli sarà il loro pastore (v. 23)

C’è dunque un aspetto messianico in questo brano, che noi cristiani non possiamo non vedere realizzato in Gesù, il buon pastore di Giovanni 10. Il pastore per eccellenza è lui, e noi siamo tutte pecore.

Forse l’immagine della pecora non ci piace tanto, in genere la pecora ci fa pensare a un animale poco autonomo, quando si dice che qualcuno si comporta come un “pecorone” si vuol dire che segue un capo senza pensare con la propria testa…

Ma nell’immagine biblica credo proprio che prevalga tutta un’altra idea: quella della dipendenza delle pecore dal pastore. E se pensiamo a Gesù è proprio così: noi siamo gregge, perché lui è pastore, e solo se è lui il nostro pastore noi siamo il suo gregge. Altrimenti non siamo nulla.

Lui ci convoca, lui ci raduna, lui ci nutre di fiducia e di speranza, lui ci guida con la sua parola.

Ciò detto verrebbe quasi da proporre di cambiare nome al ministero pastorale…! Il pastore è Uno solo!

Oppure cogliere la sfida e la vocazione che questa parola si porta dietro, sfida e vocazione rivolta non solo ai pastori e alle pastore della chiesa - che sono prima di tutto pecore del gregge dell’unico pastore! - ma rivolta a tutte e tutti noi: il Pastore con la P maiuscola ci affida gli uni/e agli altri/e. Siamo insieme pecore e allo stesso tempo pastori/e gli uni degli altri, pecore affidate alla cura reciproca.

E la promessa è che se l’altra pecora sbaglierà, cadrà, ci trascurerà, il Pastore con la P maiuscola non lo farà. E non smetterà di cercare la perduta, ricondurre la smarrita, fasciare la ferita, rafforzare la malata. E tenere unito il suo gregge, a cui per grazia ha dato anche a noi di fare parte.

lunedì 12 aprile 2021

Predicazione di Domenica 11 aprile 2021 su Giovanni 21,1-14 a cura di Marco Gisola

Dopo queste cose, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli presso il mare di Tiberiade; e si manifestò in que­sta ma­niera. Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e due altri dei suoi di­scepoli erano insieme. Simon Pietro disse loro: «Vado a pescare». Essi gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Uscirono e salirono sulla barca; e quella notte non presero nulla. Quando già era mattina, Gesù si presentò sulla riva; i discepoli però non sapevano che era Gesù. Allora Gesù disse loro: «Figlioli, avete del pesce?» Gli risposero: «No». Ed egli disse loro: «Gettate la rete dal lato destro della barca e ne troverete». Essi dunque la gettarono, e non potevano più tirarla su per il gran numero di pesci. Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signo­re!» Simon Pietro, udito che era il Signore, si cinse la veste, perché era nudo, e si gettò in mare. Ma gli altri disce­poli vennero con la barca, perché non erano molto distanti da terra (circa duecento cubiti), trascinando la rete con i pesci. Appena scesero a terra, videro là della brace e del pesce messovi su, e del pane. Gesù disse loro: «Portate qua dei pesci che avete preso ora». Simon Pietro allora salì sulla barca e tirò a terra la rete piena di centocin­quantatré grossi pesci; e benché ce ne fossero tanti, la rete non si strappò. Gesù disse loro: «Venite a fare co­lazione». E nes­suno dei discepoli osava chiedergli: «Chi sei?» Sapendo che era il Signore. Gesù venne, pre­se il pane e lo diede loro; e così anche il pesce. Questa era già la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo esser risuscitato dai morti.


Gesù è risorto. E che cosa fanno i discepoli? Vanno a pescare. Gesù è risorto, ma non c’è, non è lì, i discepoli sono soli e che cosa fanno? Come tutti gli esseri umani non possono non preoccuparsi del loro sostentamento cioè di procurarsi da mangiare.

Questo racconto vuole dire ai discepoli – e a noi - che invece Gesù c’è, perché è risorto e ha una parola da dire loro, ha un compito da dare loro, e a noi.

Questo racconto ha due stranezze: la prima è che ci viene detto che questa è la terza volta che Gesù appare ai discepoli, ma leggendo il racconto sembra proprio che sia una prima volta, anche perché qui i discepoli sono in Galilea e non a Gerusalemme come nei primi due incontri del cap. 20.

E tra l’altro il vangelo di Giovanni era già finito al cap. 20 e solo dopo è stato aggiunto il cap. 21. Leggiamo dunque questo racconto come se fosse il primo incontro dei discepoli con Gesù risorto.

La seconda è che è quasi uguale a un racconto che troviamo nel vangelo di Luca, dove, anche lì, Gesù va incontro a questi pescatori che non hanno preso nulla tutta la notte e li rimanda a pescare, ma lì non è il risorto, bensì il Gesù terreno che fa questo e anzi è proprio e solo dopo quella pesca che li chiama a essere suoi discepoli e a diventare pescatori di uomini.

Quello di Luca è un racconto dell’inizio della vicenda di Gesù con i suoi discepoli, qui siamo alla fine, perché Gesù è risorto, o forse potremmo meglio dire che siamo a un nuovo inizio.

Inutile romperci la testa chiedendoci se uno dei due ha influito sull’altro, o quale sia più antico. Cogliamo il bello di questo doppio racconto che ci dice due volte che Gesù va a cercare i suoi discepoli (in Luca futuri discepoli) e fa sì che la loro pesca abbia un grande successo, ovvero ci dice due volte che ascoltando la parola di Gesù, un fallimento si trasforma in un successo.

Anzi, di più: l’esistenza di questo doppio racconto ci dice che dei pescatori diventano discepoli perché ascoltano la parola di Gesù e che dei discepoli pescatori diventeranno apostoli perché ascoltano la parola di Gesù. Ascoltando la parola di Gesù si diventa in grado di essere quello che lui vuole che siamo.



1. Il primo aspetto che mi sembra importante di questo racconto è proprio il fatto che Gesù va a cercare i suoi discepoli. I discepoli sono in Galilea, lontano da Gerusalemme dove sono accaduti gli eventi cruciali della passione e della morte di Gesù, e poi il ritrovamento della tomba vuota….

I discepoli sono ora lontani da quei luoghi e forse anche lontani col pensiero, pensano ad altro; i discepoli sono lontani e Gesù va loro vicino, va lui a cercarli.

Vuole incontrarli e dare loro fiducia, e vuole dare loro un senso e uno scopo. Non lo hanno perduto, anzi, la presenza del risorto è un dono che dà senso e dà frutto al loro agire. La pesca ha qui un significato anche simbolico, rappresenta la predicazione che i discepoli saranno chiamati a portare da ora in poi.

E non solo Gesù va a cercare i suoi discepoli quando sono lontani, ma li va a cercare nel momento in cui la loro fatica non ha dato nessun frutto: Gesù va a cercare i suoi discepoli nel loro fallimento e lo trasforma in un successo. Ma successo non è la parola giusta, perché la pesca non è frutto dei loro sforzi, ma è opera di Gesù, è dono di Dio.

La parola giusta è dono: Gesù risponde al loro fallimento con un dono. Questo racconto è un bellissimo commento pratico alla parola che Gesù aveva detta loro nel discorso sulla vite e i tralci: «senza di me non potete far nulla».

Ma il racconto vuole che andiamo oltre il miracolo; nel vangelo di Giovanni i miracoli sono chiamati “segni”, sono sempre segni del fatto che la presenza/parola di Gesù trasforma la realtà. Il lavoro dei discepoli, che non sarà più quello di pescare ma quello di annunciare l’evangelo, dà molto frutto.

Questo racconto biblico ci ricorda innanzitutto che ciò che noi stiamo facendo non è una nostra opera, ma è un dono che riceviamo e che se c’è un qualche risultato non è frutto dei nostri sforzi, ma è anch’esso un dono di Dio, è frutto della sua Parola che noi ascoltiamo, come i discepoli hanno ascoltato la parola di Gesù che ha detto loro di gettare di nuovo le reti.

Avevano già lavorato tutta la notte e non avevano preso nulla. Il nulla è il risultato della loro fatica. La rete piena è il frutto della loro obbedienza alla parola del Cristo risorto. Non è il loro lavoro che da frutto, è la parola che essi ascoltano da Gesù risorto che dà frutto.



2. Un secondo grosso tema di questo racconto è il tema del riconoscere Gesù. O meglio del loro non riconoscere Gesù. I discepoli non riconoscono Gesù risorto, non subito, non tutti allo stesso tempo. Ma il riconoscere non è una questione soltanto fisica, di capire chi è quell’uomo che sta lì davanti a loro. In Giovanni conoscere/riconoscere Gesù ha il significato di credere, di fidarsi di lui.

Il primo a riconoscere Gesù è “il discepolo che Gesù amava”, che lo riconosce – come dice Calvino nel suo commento - non con gli occhi ma per ciò che Gesù ha compiuto. Non è cioè un riconoscimento fisico, ma un riconoscimento nella fede: lo riconoscono dopo aver ascoltato e messo in pratica la sua parola.

Infatti un’altra stranezza di questo racconto è che i discepoli fanno ciò che Gesù dice e gettano le reti, prima di aver capito che è Gesù. Ma questa stranezza ci vuole dire che non è il vedere il risorto che conta, ma è ascoltarlo. Chi lo ascolta lo riconosce e giunge alla fede.

E perché proprio il discepolo che Gesù amava, di cui non sappiamo il nome, lo riconosce prima degli altri? Che cosa ha in più degli altri? Questo misterioso discepolo, così importante nel vangelo di Giovanni, ha in fondo un’unica particolarità: quella di essere amato da Gesù. Non che gli altri non siano amati, ma lui è sempre solo definito così, come il discepolo che Gesù amava.

Riconoscere Gesù significa allora in primo luogo riconoscere di essere amati da lui. Conoscere Gesù equivale a sperimentare il suo amore per noi. È il suo amore per noi – non il nostro per lui – che ce lo fa riconoscere.

E quando è invece che Pietro riconosce Gesù? Pietro riconosce Gesù – e dunque crede che quell’uomo è davvero Gesù risorto - dopo che glielo ha detto il discepolo che Gesù amava. Potremmo dire che Pietro (quello più in vista tra i discepoli) viene “evangelizzato” dal discepolo che Gesù amava, riceve da lui il gioioso annuncio «è il Signore!», ovvero che Gesù è risorto.

Persino Pietro riconosce il risorto dopo aver ricevuto l’annuncio. Per riconoscere Gesù e credere in lui abbiamo bisogno di ricevere l’annuncio, abbiamo bisogno che qualcuno ce lo dica che Gesù è lì, che Gesù è risorto, anche se non lo riconosciamo pienamente o con la chiarezza che vorremmo.



3. E infine un terzo aspetto importante di questo brano è la sua conclusione: il racconto si conclude con un pasto comune, con una colazione consumata insieme. Avrete forse notato un particolare: Gesù ha chiesto ai discepoli di tornare a pescare dopo che non avevano preso nulla, i discepoli pescano un gran numero di pesci, dopo la pesca sono invitati da Gesù a mangiare insieme con lui e che cosa scoprono? Che del pesce sulla brace c’era già.

Gesù ne ha messo lui stesso sulla brace, e c’è anche del pane! Gesù aveva già del pesce e anche del pane. Che cosa significa questo? Significa che se l’obiettivo fosse stato solo quello di fare colazione insieme, non sarebbe servito tornare a pescare, perchè il cibo c’era già.

Il racconto ci vuole dire che Gesù non ha bisogno dei discepoli ma vuole servirsi di loro. Dio non ha bisogno di noi, non siamo indispensabili. Non siamo necessari, ma siamo desiderati, siamo amati, e dunque chiamati a partecipare alla pesca, ascoltando e mettendo in pratica la sua parola.

Gesù ci vuole pescatori, ci vuole apostoli, annunciatori e facitori del suo evangelo di grazia e di giustizia.

Ma l’esito del racconto non è soltanto la pesca miracolosa, è anche la comunione miracolosa con il risorto, simboleggiata dal pasto consumato insieme. Come Gesù usava mangiare con i suoi discepoli e con coloro che incontrava, anche qui il risorto mangia con i suoi discepoli, segno che è veramente risorto.

La comunione con il risorto inizia con l’ascolto e la pratica della sua parola e si compie nella comunione del pasto comune. Dall’ascolto alla comunione: l’ascolto della parola del risorto è comunione con il risorto.


Questo racconto ci dice che Gesù è risorto e viene a cercarci, per annunciarci la sua parola, che vuole essere ascoltata e praticata; e che questa parola, ascoltata e praticata, dà molto frutto, perché vuole compiere la sua opera attraverso di noi.

E ci dice che al termine della nostra opera, lui stesso ci inviterà alla sua mensa, dove troveremo del pesce già pronto sulla brace, perché quello che cerchiamo di fare noi in realtà lo ha già fatto lui, e non ci resterà che gioire della sua comunione.









domenica 4 aprile 2021

Predicazione di Domenica 4 aprile 2021 (Pasqua di risurrezione) su Esodo 14,5-31 a cura di Marco Gisola

Esodo 14,5-31

5 Quando dissero al re d’Egitto che il popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi servitori mutò sentimento verso il popolo, e quelli dissero: «Che abbiamo fatto rilasciando Israele? Non ci serviranno più!» 6 Allora il faraone fece attaccare il suo carro e prese il popolo con sé. 7 Prese seicento carri scelti, tutti carri d’Egitto, e su tutti c’erano dei capitani. 8 Il SIGNORE indurì il cuore del faraone, re d’Egitto, ed egli inseguì i figli d’Israele che uscivano a testa alta. 9 Gli Egiziani dunque li inseguirono. Tutti i cavalli, i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito li raggiunsero mentre essi erano accampati presso il mare, vicino a Pi-Achirot, di fronte a Baal-Sefon.

10 Quando il faraone si avvicinò, i figli d’Israele alzarono gli occhi; ed ecco, gli Egiziani marciavano alle loro spalle. Allora i figli d’Israele ebbero una gran paura, gridarono al SIGNORE, 11 e dissero a Mosè: «Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall’Egitto? 12 Era appunto questo che ti dicevamo in Egitto: "Lasciaci stare, ché serviamo gli Egiziani!" Poiché era meglio per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto». 13 E Mosè disse al popolo: «Non abbiate paura, state fermi e vedrete la salvezza che il SIGNORE compirà oggi per voi; infatti gli Egiziani che avete visti quest’oggi, non li rivedrete mai più. 14 Il SIGNORE combatterà per voi e voi ve ne starete tranquilli».

15 Il SIGNORE disse a Mosè: «Perché gridi a me? Di’ ai figli d’Israele che si mettano in marcia. 16 Alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo; e i figli d’Israele entreranno in mezzo al mare sulla terra asciutta. 17 Quanto a me, io indurirò il cuore degli Egiziani e anch’essi entreranno dietro di loro; io sarò glorificato nel faraone e in tutto il suo esercito, nei suoi carri e nei suoi cavalieri. 18 Gli Egiziani sapranno che io sono il SIGNORE, quando sarò glorificato nel faraone, nei suoi carri e nei suoi cavalieri».

19 Allora l’angelo di Dio, che precedeva il campo d’Israele, si spostò e andò a mettersi dietro a loro; anche la colonna di nuvola si spostò dalla loro avanguardia e si fermò dietro a loro, 20 mettendosi fra il campo dell’Egitto e il campo d’Israele. La nuvola era tenebrosa per gli uni, mentre rischiarava gli altri nella notte. Il campo degli uni non si avvicinò a quello degli altri per tutta la notte.

21 Allora Mosè stese la sua mano sul mare e il SIGNORE fece ritirare il mare con un forte vento orientale, durato tutta la notte, e lo ridusse in terra asciutta. Le acque si divisero, 22 e i figli d’Israele entrarono in mezzo al mare sulla terra asciutta; e le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra. 23 Gli Egiziani li inseguirono e tutti i cavalli del faraone, i suoi carri, i suoi cavalieri, entrarono dietro a loro in mezzo al mare. 24 E la mattina verso l’alba, dalla colonna di fuoco e dalla nuvola il SIGNORE guardò verso il campo degli Egiziani e lo mise in rotta. 25 Tolse le ruote dei loro carri e ne rese l’avanzata pesante; tanto che gli Egiziani dissero: «Fuggiamo davanti a Israele, perché il SIGNORE combatte per loro contro gli Egiziani».

26 Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Stendi la tua mano sul mare e le acque ritorneranno sugli Egiziani, sui loro carri e sui loro cavalieri». 27 Mosè stese la sua mano sul mare e il mare, sul far della mattina, riprese la sua forza, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli andavano incontro. Il SIGNORE precipitò così gli Egiziani in mezzo al mare. 28 Le acque ritornarono e ricoprirono i carri, i cavalieri e tutto l’esercito del faraone che erano entrati nel mare dietro agli Israeliti. Non ne scampò neppure uno. 29 I figli d’Israele invece camminarono sull’asciutto in mezzo al mare, e le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra.

30 Così, in quel giorno, il SIGNORE salvò Israele dalle mani degli Egiziani, Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare. 31 Israele vide la grande potenza con cui il SIGNORE aveva agito contro gli Egiziani. Il popolo perciò ebbe timore del SIGNORE, credette nel SIGNORE e nel suo servo Mosè. 


L’annuncio della resurrezione di Cristo ci viene oggi incontro nella forma del racconto di liberazione per eccellenza della Bibbia, la liberazione di Israele dalla schiavitù in Egitto. Israele che cammina sulla terra asciutta in mezzo a due muri di acqua, immagine della liberazione compiuta da Dio, è oggi, domenica di Pasqua, per noi immagine della vita nuova che la resurrezione spalanca davanti a noi e in cui siamo chiamati a camminare.

Inquadriamo un attimo il racconto di Esodo: tutta la prima parte del libro dell’Esodo ci narra il conflitto che c’è tra Dio e Faraone, che è in tutto il racconto veramente l’avversario di Dio. La grossa questione che c’è al centro del libro dell’Esodo è se Israele debba servire Dio oppure servire Faraone. 

Quando Faraone e la sua corte vengono a sapere che gli Israeliti sono partiti, si pentono di averli lasciati andare e si dicono: «Che abbiamo fatto rilasciando Israele? Non ci serviranno più!», cioè non saranno più nostri servi.

Dio vuole invece che gli Israeliti siano suoi servi, perché solo essere servi di Dio equivale ad essere liberi. Servire Dio significa riconoscere che Dio è fonte di vita e di libertà e dunque mettere in pratica la sua volontà di vita e libertà che rivelerà a Mosè dandogli la Torah sul Sinai. Servire Dio significa essere non suoi  schiavi ma suoi figli: Dio aveva chiamato il popolo d’Israele suo figlio, quando aveva mandato Mosè a dire a faraone: «Lascia andare mio figlio, perché mi serva». (4,22)

Il conflitto tra Dio e Faraone vede la sua ultima tappa nel racconto che abbiamo letto, che ha una fine cruenta, che probabilmente ci lascia perplessi, perché l’ultima scena ci mostra gli egiziani morti sulle rive del mare. (tra parentesi, questi versetti non erano inclusi nel testo proposto dal  nostro lezionario, penso proprio per questo motivo, ma ho voluto includerli non solo per evitare una censura, ma perché qui rinasce la fede di Israele, su cui torniamo tra poco).

Questo aspetto cruento del racconto tutti noi preferiremmo non ci fosse, preferiremmo che il mare si fosse chiuso un po’ prima e gli egiziani se ne fossero tornati a casa sconfitti e arrabbiati ma vivi. 

Un racconto ebraico dice che gli angeli del cielo, quando videro gli Israeliti andare via liberi e gli egiziani morti, si misero a fare festa, ma Dio li fermò, perché se era vero che si poteva gioire per la liberazione d’Israele, tuttavia erano suoi figli anche gli egiziani che erano morti.

Su questo possiamo solo fare una breve considerazione: la prima è che l’esercito egiziano e il suo capo Faraone rappresentano, come dicevamo, l’avversario di Dio, l’oppressore, coloro che non vogliono la liberà di Israele, ma la sua schiavitù e che forse avrebbero preferito uccidere gli Israeliti piuttosto che lasciarli andare via liberi, come accade purtroppo in tutte le guerre. La fine degli egiziani ci mostra che chi mette in atto violenza ed oppressione non ha spazio nel piano di Dio. 

E chi sono invece gli Israeliti che Dio libera dalla schiavitù? Israele è anche qui, come in tutto l’Antico Testamento, un popolo ondivago, che oscilla tra fede e sfiducia, tra l’affidamento a Dio e il lamento quando le cose non vanno come vorrebbero. Esattamente come siamo noi… 

Qui ci viene presentato un popolo che all’inizio del racconto esce “a testa alta” dall’Egitto, che cammina sicuro verso la libertà. Ma poco dopo, appena vedono gli egiziani che si avvicinano e si sentono perduti, si lamentano e protestano contro Mosè: 

«Allora i figli d’Israele ebbero una gran paura, gridarono al SIGNORE, e dissero a Mosè: «Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto? […] era meglio per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto».

E in fondo hanno ragione, è meglio essere schiavi ma vivi, che essere morti. Ma la questione è proprio qui: Dio ovviamente non li vuole morti, ma non li vuole nemmeno schiavi, bensì vivi. Li vuole vivi e liberi. Liberi dalla schiavitù, liberi di servirlo, liberi di costruire un popolo che viva secondo giustizia, seguendo le norme della Torah, che gli darà sul Sinai.

Vivi e liberi. Questo è ciò che Dio vuole per il suo popolo, questo è ciò che Dio dona al suo popolo e che dona a noi nella resurrezione di Gesù. Vivi e liberi. A Dio non basta che noi siamo vivi, ci vuole liberi. Non gli basta che siamo vivi fuori, ci vuole vivi dentro, cioè liberi. 

Per essere libero, anzi per diventare libero – perché la Bibbia ci insegna che liberi non lo si è, ma lo si può solo diventare - Israele deve imparare a fidarsi. E spesso non ci riesce; possiamo proprio specchiarci in questo Israele che a un certo punto (e non solo qui, succederà di nuovo più volte nel deserto…!) preferirebbe tornare indietro, rinunciare alla libertà, si accontenterebbe di essere vivo, anche se schiavo…

È questo popolo qui che Dio libera dalla schiavitù d’Egitto. È questo popolo ondivago, incostante, che un attimo prima cammina a testa alta e un attimo dopo ha paura e si lamenta e si pente di essere partito dall’Egitto.

Siamo noi, con i nostri alti e i nostri bassi, con i nostri momenti di entusiasmo e i nostri momenti di paura e scoramento che Dio ha amati al punto di lasciare che Gesù venisse crocifisso, ed è per noi che lo ha risuscitato. 

La resurrezione di Cristo è per i discepoli e le discepole di Gesù allora, e per noi oggi, come il mare che si apre per Israele mentre esce dall’Egitto. Israele dubita e ciononostante Dio agisce, mantiene la promessa. Israele è libero. Vivo e libero. La strada è asciutta davanti a lui. 

Il racconto ci dice che quando vedono gli egiziani sconfitti, gli Israeliti credono in Dio e anche in Mosè. La fede di Israele, che aveva vacillato quando avevano visto gli egiziani che li stavano raggiungendo, ora rinasce, risorge.

Risorge grazie all’opera di Dio, che compie il miracolo della liberazione e dell’attraversamento del mare. Israele sperimenta che Dio è davvero il liberatore e può credere in lui e può anche fidarsi di colui che Dio ha scelto per guidare il suo popolo verso la libertà. Dio ha sconfitto gli egiziani, ora sono liberi. È una resurrezione.

È curioso che il racconto dica che il popolo crede anche in Mosè. È ovvio che Mosè non è Dio, che la fiducia in Mosè non è la stessa che si ha in Dio. E sappiamo anche che Mosè – insieme a Dio – sarà ancora  contestato altre volte, nel corso del cammino nel deserto. 

Senza dubbio Mosè ha un compito unico nella storia di Israele, ma mi sono chiesto che cosa può voler dire questa fiducia del popolo in Mosè che qui è messa in evidenza. Non ho la risposta esatta ovviamente, ma mi sono detto che forse ciascuno di noi per credere ha bisogno di qualcun altro che creda, non al nostro posto, ma con noi. 

E non uno, non un Mosè, ma tanti piccoli Mosè, tanti esempi di fede, tante sorelle e fratelli che in momenti diversi della nostra vita hanno fatto o detto qualcosa che ha aiutato noi a credere. Non è questione di avere dei capi o delle guide, ma di avere delle “fedi” che aiutano e sostengono la nostra fede. 

La fede di Mosè non era perfetta, nessuna fede è perfetta, conosciamo anche i suoi dubbi, e anche i suoi lamenti. Ma in quel momento ha avuto la fede di ascoltare il Signore e alzare il suo braccio perché si aprisse la strada nel mare. E credo che ciascuno di noi, se si guarda indietro o intorno, vede delle braccia alzate che hanno aperto e aprono la strada alla nostra fede.

Ma torniamo a Israele. Dove lo abbiamo lasciato? Lo abbiamo lasciato in mezzo al mare, che cammina però sulla terra asciutta.

La terra asciutta su cui camminano gli Israeliti è segno di salvezza. La stessa parola viene usata nel libro della Genesi quando Dio separa la terra dalle acque e nel libro di Giona, quando egli viene “sputato” dal pesce sulla terraferma. La terra asciutta è per Israele luogo di salvezza e segno della protezione di Dio. Sulla terra asciutta di Genesi l’essere umano potrà vivere, sulla terra asciutta Giona trova salvezza dalla morte.

Una bellissima immagine di liberazione, questa in cui Israele cammina sulla terra asciutta, con un muro di acqua a destra e un muro di acqua a sinistra. E gli egiziani alle spalle. 

Detta così sembra un po’ terribile… ma io la trovo molto efficace: gli egiziani non li raggiungeranno, finiranno sott’acqua e sott’acqua finiscono la schiavitù, la morte, la tirannia e la violenza che essi rappresentano.

E i muri d’acqua terranno su, perché è Dio che li tiene su. Israele deve solo guardare avanti e pensare a camminare sulla terra asciutta. 

Nella croce che abbiamo ricordato venerdì è morta la morte, è morta la schiavitù, è stata sconfitta la ferocia umana che ha portato Gesù sulla croce. E tutto ciò è avvenuto per noi. La resurrezione di Cristo è per noi la strada sulla terra asciutta che Dio ha costruito per noi. 

E sulla strada bisogna camminare, il cammino è lungo, ci sarà il deserto con tutto ciò che esso comporta, ci saranno altri lamenti, altri momenti di sfiducia ma anche altre braccia che aiuteranno la fede di Israele e la nostra. 

Cristo è risorto e in Cristo ci viene aperta una strada sulla terra asciutta. Siamo liberi di camminare, siamo stati liberati per camminare, per servire Dio e non i faraoni di ieri e di oggi, per servire Dio nel prossimo che a volte è sulla nostra stessa strada a volte la incrocia soltanto.

Cristo è risorto, il mare si è aperto e non ci sommergerà né ci impedirà di camminare. La terra sotto i nostri piedi è asciutta, il risorto ci precede, e come Mosè a Israele ci dice: “Non abbiate paura, guardate la salvezza che Dio ha operato per voi!”. Per questo Cristo è risorto, perché Dio ci vuole vivi, liberi e in cammino dietro a lui.


venerdì 2 aprile 2021

Predicazione di Venerdì 2 aprile 2021 (Venerdì Santo) su Isaia 52,13-53,12 a cura di Marco Gisola

Isaia 52,13 - 53,12

52,13 Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso.
14 Come molti, vedendolo, sono rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante al punto da non sembrare più un uomo, e il suo aspetto al punto da non sembrare più un figlio d’uomo),
15 così molte saranno le nazioni di cui egli desterà l’ammirazione; i re chiuderanno la bocca davanti a lui, poiché vedranno quello che non era loro mai stato narrato, apprenderanno quello che non avevano udito.
53:1 Chi ha creduto a quello che abbiamo annunciato? A chi è stato rivelato il braccio del SIGNORE?
2 Egli è cresciuto davanti a lui come una pianticella, come una radice che esce da un arido suolo;
non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né aspetto tale da piacerci.
3 Disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia, era spregiato, e noi non ne facemmo stima alcuna.
4 Tuttavia erano le nostre malattie che egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato;
ma noi lo ritenevamo colpito, percosso da Dio e umiliato!
5 Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità;
il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e mediante le sue lividure noi siamo stati guariti.
6 Noi tutti eravamo smarriti come pecore, ognuno di noi seguiva la propria via; ma il SIGNORE ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7 Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca.
8 Dopo l’arresto e la condanna fu tolto di mezzo; e tra quelli della sua generazione chi rifletté che egli era strappato dalla terra dei viventi e colpito a causa dei peccati del mio popolo? 9 Gli avevano assegnato la sepoltura fra gli empi, ma nella sua morte, egli è stato con il ricco, perché non aveva commesso violenze né c’era stato inganno nella sua bocca.
10 Ma il SIGNORE ha voluto stroncarlo con i patimenti. Dopo aver dato la sua vita in sacrificio per il peccato, egli vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni, e l’opera del SIGNORE prospererà nelle sue mani.
11 Dopo il tormento dell’anima sua vedrà la luce e sarà soddisfatto; per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti, si caricherà egli stesso delle loro iniquità.
12 Perciò io gli darò in premio le moltitudini, egli dividerà il bottino con i molti, perché ha dato se stesso alla morte ed è stato contato fra i malfattori; perché egli ha portato i peccati di molti e ha interceduto per i colpevoli.



«Vedranno quello che non era loro mai stato narrato, apprenderanno quello che non avevano udito». Che cos’è che non era mai stato narrato e che nessuno aveva mai udito raccontare? Che cos’è questa cosa nuova che il Signore compie per il suo popolo? La grande novità è rappresentata dalla figura del servo di Dio, figura che per noi è incarnata in Gesù di Nazaret, che Israele ovviamente interpreta in modo diverso, ma noi cristiani vediamo in lui il servo sofferente di Dio, che vive la drammatica esperienza della croce, che stasera ricordiamo insieme.
E questa novità incarnata dal servo, di cui il profeta parla al popolo, è da un lato che egli, il servo, che il popolo aveva giudicato percosso e abbandonato da Dio, era tutt’altro che abbandonato, ma era anzi il servo del Signore, il suo prescelto; anche nell’ebraismo ci sono delle interpretazioni messianiche di questo brano. Colui che noi - e in questo “noi” comprendiamo veramente anche noi - avevamo giudica­to percosso e abbandonato da Dio, era invece il suo servo, anzi per noi cristiani, era il suo figlio, che rivelava il volto e il cuore del Padre. Lo pensavamo lontano da Dio, appa­riva lontano, lontanissimo da Dio, e invece era il più vicino a Dio, era il suo servo, il suo figlio.

E in secondo luogo la grande novità rivelata da Dio attraverso Isaia, è che questo servo del Signore, che soffre in silenzio le ingiustizie e le violenze da parte degli esseri umani, «è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità». Dunque non solo colui che è percosso non è abbandonato da Dio ma, al contrario, è il suo servo, ma il suo soffrire è un soffrire per noi.
La grande novità è che il legame tra colpa e sofferenza – quel legame che già Giobbe contestava – qui è spezzato da Dio stesso: la colpa è del popolo, ma la sofferenza è del servo, che è innocente. Noi possiamo dire: la colpa è nostra, ma la sofferenza è di Gesù. Il legame tra colpa e sofferenza è spezzato, ed è spezzato da Dio stesso, attraverso il suo servo, che per noi è il suo figlio e nostro Signore.
Chi ha illustrato in un modo molto bello questo fatto è Lutero, che parla di ciò che Gesù ha fatto per noi come un “felice scambio”; questa è l’espressione che Lutero usa per descrivere quel che Gesù ha fatto per noi: felice scambio nel senso che Gesù ha preso su di sé ciò che è nostro e ci ha dato ciò che è suo, ha preso su di sé il nostro peccato e ci ha dato la sua grazia:

“Cristo è pieno di grazia, vita e salvezza, l’anima è piena di peccato, morte e dannazione. Ora si interpone tra loro la fede e accade che il peccato, la morte e l’inferno sono di Cristo, mentre la grazia, la vita e la salvezza sono dell’anima […] Se Cristo ha tutti i beni e la beatitudine, questo son propri dell’anima. Se l’anima ha in sé ogni difetto e peccato, questi diventano propri di Cristo. Qui si compie il felice scambio…” (La libertà del cristiano).

E questo “felice scambio” di cui parla Lutero avviene proprio sulla croce. Non solo il servo di Dio – per noi Gesù di Nazaret – che appare abbandonato da Dio è in realtà il suo servo, ma il suo servizio compie il nostro riscatto, perché il figlio di Dio si è fatto servo non solo di Dio ma di noi umani prendendo la nostra umanità e portandola fino in fondo, «fino alla morte, e alla morte di croce» (Filippesi 2).
Questa idea di scambio ci aiuta a capire il significato della morte di Gesù forse meglio di quell’altro modo di parlare della croce che torna spesso nel Nuovo Testamento, che è l’idea di “sacrificio”. L’idea di sacrificio fa pensare a molti a un Dio crudele che ha bisogno del sacrificio di Gesù per essere placato. Ma non è nulla di tutto ciò. Intanto, il linguaggio sacrificale deriva ovviamente dal culto sacrificale del tempio e poi era un linguaggio comprensibile anche ai pagani, per questo probabilmente è stato così usato. Ma non si tratta di un sacrificio per placare Dio, ma esattamente il contrario: è stato casomai un sacrificio di Dio, nella persona di Gesù.
Lo possiamo leggere proprio nel senso di Lutero, è uno scambio, è Dio che – in Cristo - si mette al nostro posto, che prende su di sé le conseguenze della nostra colpa. E la nostra colpa è il rifiuto che gli opponiamo. Dio viene nella carne dell’uomo Gesù, ma l’umanità lo rifiuta, e poiché Dio viene nella carne, cioè nella vita umana di un essere umano, il modo migliore per rifiutarlo è togliergli la vita, ucciderlo.

La morte di Gesù è il rifiuto che l’umanità oppone al Dio che, in Cristo, viene a portare il suo regno. E il fatto che Gesù vada “obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” è lo scambio, è il fatto che accetta di essere respinto anziché ascoltato, disprezzato anziché lodato, e infine ucciso anziché seguito.
A volte ci viene naturale la domanda se fosse necessario arrivare fino a questo punto, se Dio non poteva fermare gli assassini di Gesù, se davvero Dio aveva bisogno che Gesù morisse. Ma non è Dio che aveva bisogno che Gesù morisse, era l’umanità che ha avuto bisogno – o ha pensato di avere bisogno – di eliminare Gesù. E Dio non ha fermato gli assassini perché in Gesù si è fatto servo e ha scelto di mettersi totalmente nelle mani degli esseri umani fino alle estreme conseguenze, e questa estrema conseguenza, cioè la morte, è colpa degli esseri umani, non di Dio.
L’umanità ha opposto il suo rifiuto a Dio, e per farlo si è unita in una alleanza che potrebbe sembrare strana, ma non lo è, tra potere politico (Pilato), potere religioso (i capi degli ebrei - e non gli ebrei tout-court) e la folla, e in questa alleanza l’umanità ha esercitato tutta la sua ferocia. E davanti alle estreme conseguenze della ferocia umana, si è rivelato l’estremo amore di Dio per noi.

Alla ferocia senza limiti degli esseri umani – ferocia che vediamo ogni giorno nelle guerre, nelle stragi, nelle ingiustizie inenarrabili che accadono in ogni angolo del pianeta – Dio ha risposto con il suo amore senza limiti. Perché questa è in fondo la differenza sostanziale tra l’amore di Dio e il nostro: che il nostro amore è pieno di limiti - e il limite principale siamo noi stessi – mentre quello di Dio è senza limiti, al punto da non porre limiti alla ferocia e all’odio umani.

Che cos’è che non era mai stato narrato e che nessuno aveva mai udito raccontare? È questo amore senza limiti che Dio manifesta nella croce su cui muore Gesù. La profezia di Isaia si realizza per noi nella croce di Cristo, che rappresenta allo stesso tempo il nostro limite più grande - cioè il rifiuto che l’umanità ha opposto a Dio e che anche noi gli opponiamo ogni giorno - e l’amore senza limiti di Dio, che arriva fino alla morte di croce del suo figlio.
Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni […] il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui: nello scambio tra la nostra colpa e la sua grazia – scambio per noi felice, perché è la nostra salvezza – si rivela l’amore senza limiti di Dio, perché sono le nostre trasgressioni quelle per cui è stato trafitto, le ha prese su di sé, le ha portate su di sé, per portarle via da noi, perché noi avessimo pace.

Ma è vera anche l’altra parte della profezia, quello che Isaia dice all’inizio e alla fine di questo canto: «il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso». Dio non lo lascerà in balia della morte, lo riscatterà nella resurrezione e proclamerà che quello è proprio il suo servo, il suo figlio nel quale ha voluto rivelare il suo amore senza limiti, che la ferocia umana non ha potuto sconfiggere.
L’amore senza limiti di Dio non è stato limitato, fermato, nemmeno dal limite di ogni vita, cioè dalla morte che l’umanità ha inflitto al suo servo, al suo figlio.
E così il servo, «Dopo aver dato la sua vita in sacrificio per il peccato, egli vedrà una discendenza». Quella discendenza sono coloro che credono in lui, siamo anche noi, riscattati a caro prezzo dall’amore senza limiti di Dio.
Lo siamo per grazia, e per questo ogni giorno – ma soprattutto in questo giorno in cui guardiamo alla croce di Cristo – possiamo mettere tutti i nostri limiti e tutte le nostre colpe nelle mani dell’amore senza limiti che Dio in essa, nella croce, ci rivela. E lodarlo e ringraziarlo senza fine. Amen