domenica 26 settembre 2021

Predicazione di domenica 26 settembre su Romani 10,9-17 a cura di Marco Gisola

 Romani 10,9-17

9 [perché,] se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; 10 infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. 11 Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso». 12 Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13 Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.

Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci? 15 E come annunceranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!» 16 Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?» 17 Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.



Nel nostro brano di oggi ci sono diversi verbi importanti per la fede e la vita cristiana: confessare, credere, invocare, ascoltare, annunciare, mandare… verbi fondamentali per la nostra fede e la nostra teologia, proprio alcuni dei verbi che sono centrali per parlare di Dio e della nostra fede, cioè – come si dice – per fare teologia. C’è molta teologia in queste parole di Paolo.

E poi ci siamo noi. Ci sei tu, c’è la tua bocca e il tuo cuore; e anche se non sono menzionate, ci sono anche le tue orecchie. E c’è anche tutto il resto, c’è tutta la nostra esistenza, c’è la vita che viviamo davanti a Dio e grazie a Dio. Anche questa è teologia, perché la teologia non è solo parlare di Dio, ma della relazione che Dio crea con noi.

C’è in queste parole di Paolo quello che il NT chiama “salvezza”, che non è certo solo quello che noi chiamiamo l’aldilà, perché la salvezza è la vita che Dio ci dona ogni giorno, è la possibilità che Dio ci dà ogni giorno di vivere nella fiducia e nella gioia, nella giustizia e nella speranza.

E come ci raggiunge questo dono di Dio, questa salvezza che viene da Dio? Questo è il tema di questi versetti così densi, che si trovano all’interno di quel lungo discorso che Paolo fa nei capp.9, 10 e 11 della sua lettera ai Romani in cui parla del popolo di Israele.

In questi versetti Paolo si preoccupa di affermare che questo dono è offerto a tutti, non più solo al popolo eletto – che rimane eletto, dirà poco più avanti, e non rinnegato come i cristiani hanno pensato per secoli – ma anche ai pagani:

chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato”, perché “non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano”.

Questo è il contesto in cui Paolo pronuncia queste parole: la salvezza è per “chiunque avrà invocato il nome del Signore”, per “tutti quelli che lo invocano”, senza distinzioni. E come si arriva ad invocare Gesù Cristo? E che cosa vuol dire invocare Gesù Cristo?

Qui entrano in gioco la nostra bocca e il nostro cuore. Il cuore per Paolo è il centro dell’essere umano, non solo e non tanto dei suoi sentimenti, ma del suo pensiero e delle sue decisioni, anche della sua fede: si crede con il cuore, dice Paolo, il che non vuol dire che la fede sia un sentimento, ma che la fede abita nel nostro intimo e coinvolge tutta la nostra esistenza.

Potremmo dire così: il cuore rappresenta la fede dentro di noi, la bocca rappresenta la fede che “esce” (per così dire) da dentro di noi e diventa vita. Confessare la fede non è solo dire o ripetere una confessione di fede, non è solo dire delle parole.

Quando nel culto confessiamo la fede con il credo o altre confessioni di fede, compiamo un atto liturgico che come tutti gli atti liturgici ha un valore simbolico.

Quando diciamo il credo non diciamo solo delle parole, ma dicendo quelle parole, attraverso quelle parole esprimiamo fiducia, riconoscenza, speranza, attraverso quelle parole ci dichiariamo discepoli e discepole di quel Cristo che confessiamo, e che quindi vogliono ascoltare e seguire.

Pensiamo a un mondo, quello di Paolo, in cui – ancora più di oggi – c’era una divisione netta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e spesso chi faceva un lavoro manuale non aveva nessuna istruzione e non sapeva nemmeno leggere.

E quindi chi prendeva parola, chi parlava in pubblico era solo chi aveva una certa cultura e apparteneva quindi a una certa classe sociale.

Nel culto della chiesa, quando si confessa la propria fede, prendono parola tutti, perché tutti e tutte sono uguali e tutti e tutte confessano la stessa fede con le stesse parole, anche gli analfabeti che imparano a memoria le parole della fede, nessuno deve tacere.

Ma quello che accade nel culto, nella liturgia cristiana, è segno di quello che accade fuori, nella vita cristiana: attraverso la bocca facciamo uscire quello che abbiamo nel cuore, non nel senso che andiamo all’angolo della strada e ripetiamo il credo, ma nel senso che diciamo pubblicamente che cosa crediamo e non solo con le parole ma con la nostra intera esistenza, con le nostre parole, i nostri gesti quotidiani e le nostre scelte.

Il cuore è la dimensione intima della fede, la bocca esprime la dimensione pubblica della fede, la dimensione culturale e sociale della fede.

Ma torniamo alla domanda di prima: come si arriva ad invocare il nome del Signore? Qui entrano in gioco tutti quei verbi che Paolo usa. Paolo risponde andando a ritroso, parte cioè dalla fine per risalire all’inizio, alla fonte:

per invocare il nome di Gesù Cristo è necessario credere; per credere è necessario ascoltare; per ascoltare è necessario ricevere l’annuncio; per ricevere l’annuncio è necessario che l’annunciatore o l’annunciatrice sia mandato/a (sottinteso: da Dio).

E Paolo conclude il suo pensiero dicendo “Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo”. È l’ascolto della sua parola il mezzo che Dio ha scelto per far nascere e far crescere la nostra fede. L’ascolto della sua parola, parola di Cristo, che non vuol dire soltanto le parole che Gesù ha detto ma anche le parole che sono state dette su di lui, dagli apostoli dopo di lui e dai profeti prima di lui, cioè tutta la Bibbia.

Ascolto della sua parola annunciata e predicata da piccoli e fallibilissimi esseri umani. Questo ha scelto Dio come mezzo per far nascere e crescere la nostra fede, per nutrirla giorno dopo giorno.

Poteva forse scegliere di meglio il nostro Signore! Qualcosa di più sicuro e di più potente della parola pronunciata da piccoli e peccatori esseri umani e ascoltata da altrettanto piccoli e peccatori esseri umani.

Parola fragile, sempre soggetta a non essere capita, prima di tutto da chi è chiamato a predicarla e poi da chi è chiamato ad ascoltarla… Sempre soggetta a essere fraintesa, confusa o – peggio - trascurata, abusata, piegata alla propria volontà… Poteva scegliere qualcosa di più potente ed efficace, di più sicuro…

E invece no, “Dio ha scelto le cose deboli del mondo” come scrive sempre Paolo nella 1 lettera ai Corinzi (1,27).

Ha scelto la nostra debole umanità per mandare il suo figlio nel mondo, ha continuato a scegliere la debole umanità di chi ha scritto la Bibbia e la debole umanità di chi è chiamato ad annunciare la sua parola.

Questo perché Dio ama la nostro debole umanità che lui stesso ha creato e che ha assunto nel suo figlio Gesù. Ma soprattutto perché non ci sia dubbio che l’efficacia e la forza non sono in noi, ma in lui che opera attraverso il suo Spirito.

È lo Spirito che fa nascere e crescere la nostra fede, e che si serve del nostro parlare e del nostro ascoltare.

Ma poi, penso, anche per un’altra ragione: la fede nasce dal nostro ascolto della sua parola perché Dio ci vuole partner attivi, presenti, consapevoli, vuole che ci mettiamo lì ad ascoltarlo. Perché nel nostro ascolto ci siamo noi, ci sono le nostre orecchie, la nostra volontà di ascoltare, e c’è il nostro cuore, ci siamo tutti noi stessi.

La fede nasce dall’ascolto della sua parola perché la fede è relazione in cui noi siamo soggetti, interpellati, chiamati, anche giudicati dalla sua parola, ma soprattutto accolti e “salvati” nel senso che dicevamo prima: che nell’ascolto della parola di Dio scopriamo e riscopriamo ogni volta la straordinaria possibilità che Dio ci offre di una vita nuova, vissuta nella fiducia e nella speranza.

La fede è questa relazione che nasce e vive nell’ascolto che diventa dialogo, nella parola ascoltata che esige una risposta, che coinvolge la nostra bocca che invoca il nome del Signore, ma anche le nostre mani chiamate a servire il nostro prossimo e le nostre gambe chiamate ad andargli incontro.

Una relazione e una risposta che non ci sarebbe se la fede nascesse da miracoli spettacolari davanti ai quali non avremmo nulla da dire e nulla da fare, ma solo da guardare.

E invece no, nell’evento della fede non c’è nulla da guardare, c’è solo da ascoltare. Di questo ascolto, attento, attivo e consapevole, siamo pienamente responsabili, come siamo responsabili di fare uscire la fede che nasce nel cuore attraverso la nostra bocca e tutta la nostra vita.

Questo ascolto, che diventa vita, perché attraverso di esso Dio ci dona e ci apre a una nuova vita, è la nostra vocazione, di cui siamo responsabili. Tutto il resto è dono di Dio.

martedì 14 settembre 2021

Predicazione di domenica 12 settembre 2021 su Luca 17,5-6 a cura di Marco Gisola in occasione della Festa di Fra’ Dolcino

 Luca 17,5-6

1 Gesù disse ai suoi discepoli: «È impossibile che non avvengano scandali, ma guai a colui per colpa del quale avvengono! 2 Sarebbe meglio per lui che una macina da mulino gli fosse messa al collo e fosse gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno solo di questi piccoli. 3 State attenti a voi stessi! Se tuo fratello pecca, riprendilo; e se si ravvede, perdonalo. 4 Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: "Mi pento", perdonalo».

5 Allora gli apostoli dissero al Signore: «Aumentaci la fede!» 6 Il Signore disse: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo sicomoro: "Sràdicati e trapiàntati nel mare", e vi ubbidirebbe.



Il brano di oggi sono i vv. 5-6 del capitolo 17 di Luca. Questo brano inizia con la richiesta che gli apostoli rivolgono a Gesù di aumentare la loro fede. Ma perché i discepoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede? Non lo chiedono in modo generico, per essere migliori, più buoni o per essere dei bravi testimoni.

Lo chiedono in base a ciò che Gesù ha detto appena prima. Rileggiamo il testo, a partire dal v. 1. È davanti alle parole di Gesù su scandalo e perdono che arriva la richiesta dei discepoli che vorrebbero avere più fede. Pensano che per fare quello che Gesù chiede loro di fare ci voglia molta fede, più fede di quella che hanno. Sentono di non avere abbastanza fede per fare quello che ha detto Gesù, cioè per non scandalizzare e per riuscire a perdonare.

Questa richiesta dei discepoli letta nel suo contesto ci dice una cosa molto importante: la nostra fede ci serve anche per relazionarci in modo giusto con gli altri, in particolare, secondo le parole di Gesù, non scandalizzandoli e perdonandoli. La nostra fede, cioè, è una fede vissuta nella relazione, non abbiamo fede soltanto per noi, ma per relazionarci nel modo giusto con gli altri. Per questo il contesto in cui viene la richiesta dei discepoli è importante. Che cosa ha appena detto Gesù, che porta i discepoli a chiedere di aumentare la loro fede? Gesù ha parlato di scandalo e di perdono.

La prima parola di Gesù, quella sullo scandalo è molto dura: lo scandalo va evitato al punto che sarebbe meglio per un discepolo essere buttato in mare con una pietra legata al collo piuttosto che scandalizzare “uno di questi piccoli”. Che cosa vuol dire scandalizzare nel NT? La parola scandalo in greco, la lingua del NT, viene dall’uso delle trappole per catturare gli animali. Lo scandalo è lo “scatto” della trappola e poi, per estensione, la trappola stessa. È ciò che fa cadere, che cattura. Lo scandalo nella vita comunitaria è dunque ciò che fa cadere, è un comportamento che fa cadere un fratello o una sorella, che li porta sulla strada sbagliata. Lo scandalo è dunque il male consapevole, non quello fatto per errore, senza volerlo. È il male fatto sapendo di fare del male.

Ora, detto così, è probabile che la maggioranza di noi si ritenga innocente: se per caso facciamo del male a qualcuno, di certo lo facciamo involontariamente…! Probabilmente è così, ce lo auguriamo, ma qui Gesù ci sta suggerendo di vedere le cose in modo diverso, da un altro punto di vista: se il fratello cade, se la sorella cade a causa di qualcosa che abbiamo detto o fatto, quello è male. Se qualcosa – che per noi magari è una leggerezza – fa cadere il fratello o la sorella, in realtà non è una leggerezza, è uno scandalo.

Gesù ci invita a considerare quello che facciamo a partire dalle sue conseguenze sul fratello o sulla sorella e non a partire dalle nostre opinioni. Ci invita a chiederci: quello che sto per fare o sto per dire potrà scandalizzare – nel senso di far cadere - qualcuno? Come sempre Gesù ci apre e ci dona un altro punto di vista.

E poi il perdono. Gesù dice che se a te, che ritieni di essere suo discepolo o sua discepola, viene chiesto perdono, devi perdonare anche sette volte in un giorno. Sette è un numero simbolico, un numero che indica completezza, come i giorni della settimana. Sette vuol dunque dire sempre, vuol dire che, tutte le volte che il perdono viene chiesto, il discepolo e la discepola di Gesù devono concederlo. Non c’è limite al perdono.

Notiamo che Gesù dice che la persona che chiede perdono si pente: “Se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: “Mi pento”, perdonalo”. Pentimento e perdono sono le cose che ri-costruiscono una relazione.

Non parliamo qui di un perdono rituale, o di un perdono che viene dall’alto, ma del perdono tra sorelle e fratelli, parliamo di una frattura che si ricompone, di una ferita che guarisce, di una relazione rotta o interrotta che ricomincia. Parliamo cioè di riconciliazione, che è appunto la ri-costruzione di una relazione che si è rotta, che qualcuno ha rotto. La volontà di Dio che qui Gesù ci insegna è che non ci debba essere limite alla ricerca della riconciliazione e ci mostra che la riconciliazione tra due persone ha bisogno di una decisione di entrambe le persone.

Qui Gesù parla di un perdono chiesto e concesso. Chi ha rotto, deve pentirsi – cioè capire e ammettere di aver sbagliato, di aver fatto del male e di avere rotto una relazione – e chi ha subito il male deve accogliere la richiesta di perdono. Ci si riconcilia in due. In particolare qui Gesù si rivolge a chi è richiesto di concedere il perdono e gli dice semplicemente: se ti viene chiesto perdono, se sei cristiano, se sei cristiana lo concedi.

Ma il verbo “concedere” non è quello più giusto, perché sa – appunto – di concessione. Meglio dire accogliere la richiesta di perdono, perché accogliendo la richiesta di perdono si accoglie la sorella o il fratello che chiedono perdono. Riconciliazione significa accogliersi e riconoscersi di nuovo – dopo la rottura – come sorelle e fratelli.

Lo scandalo di cui Gesù ha appena parlato è ciò che rompe una relazione, il perdono è ciò che la ricostruisce. E avete notato che Gesù dice che è impossibile che non avvengano scandali, cioè è impossibile che non ci si faccia cadere a vicenda. Perché siamo umani e siamo fatti così, perché è molto difficile mettersi davvero nei panni del prossimo. Per questo il perdono è essenziale, proprio per ricostruire ciò che inevitabilmente rompiamo.

E davanti a questi compiti i discepoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede, perché sembra loro di essere davanti a compiti troppo grandi, per cui la loro fede non basta. E qui viene la seconda parte del brano di oggi. La risposta di Gesù è di nuovo paradossale. Alla richiesta dei discepoli di aumentare la loro fede, Gesù risponde che basta pochissima fede – grande quanto un granello di senape che è piccolissimo – per spostare un sicomoro, che è un albero con radici molto profonde (Matteo in una parola simile di Gesù dice addirittura una montagna, ma il senso è lo stesso).

È un paradosso: i discepoli chiedono maggior quantità di fede, Gesù risponde che basta – anzi: basterebbe – una piccolissima quantità di fede. Ed è un paradosso anche perché ovviamente lo scopo della fede non è spostare alberi o montagne, ma è non scandalizzare e perdonare. Che è più difficile di spostare alberi!

Gesù dice «Se aveste fede quanto un granello di senape...», quindi presuppone che i discepoli non ce l’abbiano. Ma questi discepoli ce l’hanno o non ce l’hanno la fede? O una fede sufficientemente grande? E noi? Ce l’abbiamo?

Gesù sta dicendo ai discepoli e a noi che la fede non si misura e non si quantifica. Avere fede non significa “possedere” la fede o averne una certa quantità, più o meno di altri. La fede non sta in tasca o in un magazzino o in cassaforte. Quando parliamo di una fede grande (come di un grande amore) sono modi di dire, non vere e proprie misure di quantità. La fede è fiducia, è fidarsi, è credere che è giusto ciò che Gesù dice, che è giusto non scandalizzare, non far cadere il prossimo e che è giusto perdonare ogni volta a chi ce lo chiede.

La fede è credere che questo è giusto e che questa è la volontà di Dio. E dunque agire di conseguenza. La volontà di Dio non è che noi spostiamo alberi nel mare, la volontà di Dio è che ci rapportiamo al prossimo e al mondo come Gesù si è rapportato, con giustizia e misericordia.

La nostra piccola fede è sufficiente quando riconosciamo che da soli non riusciamo né a perdonare, né a non scandalizzare. Di più: che da soli non vogliamo né perdonare né non scandalizzare.

La nostra piccola fede è sufficiente se riconosce questo e se si affida a Dio – che lui solo è grande – affinché Dio trasformi la nostra volontà nella sua, giorno dopo giorno.

La giustizia e la misericordia di Dio sono grandi, enormi. Se ci affidiamo a lui, la nostra piccola fede può imparare a vivere i grandi doni che egli ci fa dell’amore che non fa cadere e del perdono che riconcilia.

Non cerchiamo la grande fede che non possiamo avere. Riponiamo piuttosto la nostra piccola fede nel Dio il cui grande amore e la cui grande misericordia possono ogni cosa.

domenica 5 settembre 2021

Predicazione di domenica 5 settembre 2021 su Luca 19,1-10 a cura di Marco Gisola

 Luca 19,1-10

Gesù, entrato in Gerico, attraversava la città. Un uomo, di nome Zaccheo, il quale era capo dei pubblicani ed era ricco,  cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. Allora per vederlo, corse avanti, e salì sopra un sicomoro, perché egli doveva passare per quella via. Quando Gesù giunse in quel luogo, alzati gli occhi, gli disse: «Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua». Egli si affrettò a scendere e lo accolse con gioia. Veduto questo, tutti mormoravano, dicendo: «È andato ad alloggiare in casa di un peccatore!» Ma Zaccheo si fece avanti e disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo». Gesù gli disse: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abraamo; perché il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto».


«il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto». Il testo biblico di oggi è un racconto che ci dice chiaramente che cosa è venuto a fare Gesù: a cercare e a salvare. A cercare e a salvare ciò che era perduto, ovvero chi era perduto, in questo caso Zaccheo. E, con Zaccheo, tutti e tutte noi. Cercare e salvare.

Partiamo dal cercare. E partiamo dagli sguardi, dagli occhi dei personaggi di questo racconto; in ogni racconto che si rispetti – dalle fiabe ai grandi romanzi, e vale anche per la Bibbia – i dettagli sono importanti.

Zaccheo vuole vedere Gesù; quali siano le sue intenzioni profonde il racconto non ce lo dice, se sia solo curiosità, se pensa che quell’uomo possa significare qualcosa per la sua vita… il testo dice solo che vuole vederlo, forse gli basta vederlo da lontano. Zaccheo è molto determinato, sale persino sopra un albero di Sicomoro, perché è basso di statura e c’è molta gente che impedisce al suo sguardo di arrivare dove vuole arrivare, cioè a Gesù. Comunque in questo voler “vedere” è lui, Zaccheo, il soggetto e Gesù è l’oggetto.

Gesù è l’oggetto del suo sguardo, è lui – Zaccheo - che decide che vuole vederlo e come vuole vederlo, forse, appunto, solo vederlo, senza lasciarsi troppo interpellare da lui, vederlo un attimo mentre passa e via… Il testo dice «cercava di vedere chi era Gesù», chi era questo strano tipo che faceva parlare molto di sé, di cui si diceva che a volte condivideva la tavola con i suoi colleghi pubblicani, gli esattori delle tasse, che erano odiati dal resto della popolazione, perché lavoravano per conto degli occupanti romani, e si arricchivano sulla pelle del popolo.

Zaccheo poi era il capo dei pubblicani di Gerico ed era molto ricco, era potente e ricco e quindi molto odiato. Nessuno lo avrebbe fatto passare per permettergli di assistere al passaggio di Gesù, per questo sale sul sicomoro.

Ma il suo sguardo incontra lo sguardo di Gesù, o meglio: è trovato dallo sguardo di Gesù: «Quando Gesù giunse in quel luogo, alzati gli occhi, gli disse: “Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua”».

È detto di passaggio, ma è un dettaglio importante: Gesù alza gli occhi e non lo fa per caso, non perché incuriosito da quell’uomo arrampicato su un albero… No, non è un caso, lo sguardo di Gesù cerca Zaccheo. «È venuto a cercare e salvare ciò che era perduto»…

Lo chiama persino per nome: «Zaccheo scendi presto….!» Chi glielo aveva detto come si chiamava? Chi gli aveva detto che questo Zaccheo era sull’albero? È chiaro che è un racconto che non è logico, ma teo-logico, ovvero non segue la logica umana, ma la logica di Dio.

Tu sei lì a cercare di vedere Gesù, per capire chi è, per decidere poi, forse, se ti interessa, se vuoi lasciarti coinvolgere, o se ti basta vedere che faccia abbia… e lui ti sorprende, ti chiama per nome, ti dice: io cercavo te! Altro che vedermi passare, altro che vedere chi sono…

No, non sei tu che vedi me, sono io che guardo te, che cerco te, che sono qui per te: «devo fermarmi a casa tua». Passiamo da un Zaccheo che voleva vedere Gesù a un Zaccheo che è guardato da Gesù, che è cercato da Gesù, il quale ora gli dice che vuole entrare in casa sua, cioè nella sua vita.

Gesù vuole entrare nella casa e nella vita di un impuro, di un perduto. Di uno che voleva vederlo passare, per vedere chi fosse. E Gesù gli fa capire chi è: è colui che è mandato da Dio a cercare e salvare ciò che è perduto.

E Zaccheo scende subito e conduce Gesù a casa sua, dove lo accoglie con gioia. Di nuovo i dettagli sono importanti: la fretta e la gioia.

La fretta, perché davanti a Gesù, davanti alla grazia non c’è tempo da perdere, non c’è da pensare. La fretta – Gesù che dice «scendi presto» e Zaccheo che scende effettivamente subito - esprime che quel momento è cruciale, unico.

Ma non nel senso che bisogna fare in fretta, perché bisogna fare qualcosa in fretta, bensì nel senso che è già tutto stato fatto, che la grazia ha già fatto tutto, e si può – Zaccheo può – cominciare subito una vita nuova.

Zaccheo scende dall’albero diverso da come vi è salito, perché tra il momento in cui è salito e il momento in cui ne è sceso è stato trovato dallo sguardo di Gesù, è stato trovato dallo sguardo della grazia di Dio. È salito sull’albero un Zaccheo perduto, ne scende un Zaccheo ri-trovato, salvato.

Perché Gesù è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto, e oggi è venuto per lui, per Zaccheo, che era perduto e ora è salvato, che il suo sguardo – lo sguardo della grazia di Dio - ha cercato, trovato, salvato. E dopo la fretta la gioia.

E qui entriamo nel secondo verbo importante: Gesù è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto: il primo frutto del salvare è la gioia di Zaccheo.

Gioia, perché è stato trovato; gioia, perché è stato salvato; gioia, perché davanti a lui si spalanca una possibilità nuova, impensabile fino a pochi minuti prima, impensabile prima che quello sguardo lo trovasse. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo della grazia.

Gioia, perché Gesù entra in casa sua; nessuno entrava in casa sua, forse qualche collega pubblicano come lui, ma il resto del suo popolo non sarebbe mai entrato in casa sua; gli uomini di Dio, i “veri credenti”, non sarebbero mai entrati in casa sua, perché era un impuro, un perduto.

E infatti Gesù è criticato per il fatto di entrare in casa sua: «tutti mormoravano, dicendo: “È andato ad alloggiare in casa di un peccatore!”». E certo, perché Gesù cerca e trova chi è perduto, entra nella casa e nella vita dei peccatori.

Gioa, dicevamo, perché davanti a Zaccheo si apre una nuova vita, una nuova possibilità e questa possibilità si chiama giustizia. Se il primo frutto della grazia, dell’incontro con lo sguardo di Gesù, è la gioia, il secondo – ma bisognerebbe dire il primo a pari merito – è la giustizia.

Salvezza è giustizia. È anche molto altro, è anche appunto gioia, speranza, fede, amore, è tutte queste cose insieme, ma non si può prescindere dalla giustizia. Zaccheo era oggettivamente ingiusto, oggi sarebbe un piccolo mafioso, ricco e potente grazie alla sua ingiustizia.

La novità, il cambiamento, la conversione sta qui: nel rinunciare all’ingiustizia e nel praticare la giustizia. Nel restituire il maltolto: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; se ho frodato qualcuno di qualcosa gli rendo il quadruplo». E restituire il maltolto vuol dire implicitamente riconoscere la propria colpa e chiedere perdono.

Zaccheo è cambiato, quello sguardo lo ha trasformato tutto, nell’intimo (la gioia, la fede, la speranza…) ma anche nel portafoglio (la giustizia): non può più vivere e godere delle ricchezze ingiuste che ha accumulato taglieggiando la povera gente, deve restituire.

Questo racconto da un lato ci mostra ancora una volta come nella Bibbia la salvezza sia strettamente legata alla giustizia, cosa che spesso lungo i secoli si è dimenticata. E d’altro lato, ci dice che non vi è ingiustizia così grande – e quella di Zaccheo era grande – che lo sguardo di Gesù non possa trasformare.

Lo sguardo della grazia di Dio trasforma Zaccheo e lo converte dall’ingiustizia alla giustizia e trasforma anche noi e ci converte dall’ingiustizia alla giustizia. La giustizia è conseguenza della grazia, insieme alla gioia, alla fede, alla speranza e all’amore.

Che tutto ciò sia frutto dello sguardo di Gesù, che è venuto a cercare e salvare ciò che è perduto, che è venuto a cercare e salvare anche noi, è una cosa meravigliosa di cui possiamo essergli grati per tutta la nostra vita.