martedì 25 maggio 2021

Predicazione di domenica 23 maggio 2021 (Pentecoste) su Genesi 11,1-9 a cura di Marco Gisola

 Genesi 11,1-9



1 Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. 2 Dirigendosi verso l’Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono. 3 Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!» Essi adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce. 4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra». 5 Il SIGNORE discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano. 6 Il SIGNORE disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. 7 Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l’uno non capisca la lingua dell’altro!» 8 Così il SIGNORE li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruire la città. 9 Perciò a questa fu dato il nome di Babel, perché là il SIGNORE confuse la lingua di tutta la terra e di là li disperse su tutta la faccia della terra.


Oggi celebriamo la Pentecoste e il nostro lezionario ci propone il racconto della torre di Babele. Questo racconto è stato spesso letto come il contrario della Pentecoste, o – per essere più precisi - l’evento della Pentecoste è stato spesso letto come il rimedio al fatto che al termine del racconto della torre di Babele c’è la confusione delle lingue.

Ma forse le cose non sono così semplici e forse questo brano di oggi ci vuole qualcosa di più.

Uno degli scopi di questo brano è sicuramente quello di spiegare l’esistenza di popoli diversi che parlano lingue diverse; e come spesso accade nel mondo antico, le cose che non si capiscono, che non si sa perché sono così come sono, vengono spiegate attraverso dei miti.

Il mito è che in un inizio ideale del mondo tutti gli esseri umani dovevano parlare un’unica lingua e c’è dunque il bisogno di spiegarsi perché invece esistessero tante lingue che impedivano agli esseri umani di capirsi tra loro. Ma questo è solo un primo livello, questo brano ci vuole dire di più.

Quello che è chiaro nel testo è che gli esseri umani hanno uno scopo, che è rappresentato dalla costruzione della torre e della città, e che questo obiettivo degli esseri umani non piace a Dio, che quindi interviene a disfare quello che gli esseri umani hanno fatto.

Ma che cosa vogliono ottenere gli esseri umani costruendo la torre? Attraverso la costruzione della città e della torre gli esseri umani cercano fama: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama». Acquistiamoci fama, letteralmente “facciamoci un nome”, vogliono successo, vogliono salire.

La torre deve arrivare fino al cielo e questo loro obiettivo ci può ricordare un po’ quello che il serpente dei primi capitoli della Genesi propone ad Adamo ed Eva: diventerete come Dio. Salire fino al cielo, andare oltre, non riconoscere i propri limiti di creature e non rendersi conto che il proprio posto è invece sulla terra.

La costruzione della città e della torre rappresentano il desiderio di fama e di potere, di essere grandi; gli esseri umani uniscono le loro forze per essere più forti e più potenti, si uniscono per compiere questa opera grandiosa. L’unità è indispensabile perché possano raggiungere il loro obiettivo.

In sé questo potrebbe essere visto come una cosa positiva della loro impresa, il fatto che non fanno qualcosa gli uni contro gli altri, ma si uniscono per un medesimo obiettivo.

Il loro obiettivo non è soltanto la costruzione della città e della torre ma è evitare la dispersione: «Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra».

Questo verbo disperdere è importante nel racconto. Gli esseri umani non vogliono essere dispersi, Dio invece confonde le lingue proprio perché si disperdano: «Così il SIGNORE li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruire la città». Ecco il punto su cui il progetto degli esseri umani e quello di Dio si differenziano: gli esseri umani non vogliono disperdersi, Dio vuole che si disperdano.

D’altra parte, nel capitolo precedente, ci era stata presentata la discendenza di Noè, da cui erano nate non solo molte famiglie, ma molte nazioni (che per altro parlavano già lingue diverse, ma questa è una delle tante incongruenze degli antichi racconti biblici…) che si erano sparse per tutta la terra, come del resto aveva detto detto Dio all’inizio della Genesi quando aveva detto a Adamo ed Eva «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra...».

Dunque Dio vuole la dispersione e perciò confonde le lingue. Si può allora dire che Dio non vuole l’unità dell’umanità? E che invece gli esseri umani volevano l’unità, ma Dio lo ha loro impedito? Forse le cose non sono così semplici.

Difficile pensare che Dio non voglia l’unità; l’umanità è una, Dio ha creato una umanità, una sola, non tante umanità…! Ma Dio ha creato un’umanità plurale fin dall’inizio: «maschio e femmina li creò». Come ho già detto altre volte, Dio non comincia da uno, comincia da due.

E poi appunto il capitolo dieci, che ci racconta come i discendenti di Noè si sono sparsi su tutta la faccia della terra (almeno quella conosciuta allora…) ci mostra che l’umanità, che è senza dubbio una sola, è però plurale per definizione, oggi diremmo che ha la pluralità e la molteplicità nel suo DNA.

Forse si può dire che Dio vuole l’unità nella diversità, come si usa dire nel linguaggio ecumenico. Certo che Dio vuole l’unità, ma la diversità non è per forza contraria all’unità, siamo noi spesso che non accettiamo la diversità e la viviamo male, trasformando la diversità in inimicizia.

I costruttori della torre, con il loro bisogno di fama e dunque di potere, cercavano forse più che altro una uniformità. Hanno cercato l’unità in vista della uniformità, e in questo andavano in direzione contraria ai progetti di Dio, secondo il quale l’umanità doveva disperdersi – in senso positivo – e riempire la terra.

Questa uniformità agli occhi di Dio era – come ha scritto qualcuno - l’“inizio della fine”: «ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare»: cioè non avranno più limiti.

Del resto la storia ci insegna che l’uniformità è ciò che vogliono e impongono tutti i totalitarismi che hanno sempre imposto l’uniformità e tentato di cancellare le diversità.

Dio ferma l’umanità che va verso l’uniformità e non vuole disperdersi (sempre in senso positivo) per riempire la terra, compito in vista del quale Dio aveva benedetto Adamo ed Eva.

Dio ferma l’umanità che cerca l’unità in se stessa e nella propria uniformità, a favore di un’umanità unita in lui, in Dio stesso, unita benché diversa e sparsa sulla faccia di tutta la terra.

Che c’entra tutto ciò con pentecoste? Se questa lettura del racconto della torre di Babele è corretta, allora pentecoste non è più l’opposto di Babele, ma da un lato è una sua conferma e d’altro lato un passo ulteriore in avanti.

D’altra parte, a Pentecoste i popoli rimangono tanti e diversi – basta vedere il lungo elenco dei paesi di provenienza di tutti gli ebrei presenti a Gerusalemme per celebrare la pentecoste ebraica, che anticamente era stata la festa delle primizie del raccolto ed era diventata la festa di ringraziamento per il dono della Torah.

E le lingue rimangono diverse: «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua», cioè se lo prendiamo alla lettera, gli ebrei di Roma sentivano gli apostoli parlare latino, gli ebrei provenienti dall’Egitto li sentivano parlare egizio, e così via per tutti i popoli rappresentati.

Una bella espressione che ho letto riguardo alla Pentecoste dice che in quell’evento dello Spirito sono “le orecchie che vengono guarite, non le lingue”. Sono le orecchie di chi ascolta l’evangelo ad essere trasformate dallo Spirito, cosicché ciascuno lo sente nella propria lingua e può comprenderlo. Non sono le lingue degli apostoli ad essere trasformate, ma le orecchie degli ascoltatori.

Pentecoste è la festa della comunicazione riuscita, dell’annuncio efficace; il miracolo dello Spirito va ben oltre la comprensione delle parole, ma riguarda anche la nascita della fede in Cristo.

Pentecoste non è dunque contro Babele, ma è – come Babele – l’unità nella diversità; il miracolo dello Spirito è che la diversità delle lingue non impedisce l’ascolto dell’evangelo e la nascita della fede. L’evangelo è uno, come Dio è uno, ma le persone che lo ascoltano sono tante e diverse, e diverse non solo per la lingua che parlano o il popolo cui appartengono, ma per molte altre ragioni.

Le diversità non vengono annullate, ma non sono più un ostacolo all’ascolto e alla comunione, le diversità sono riconciliate in Cristo per opera dello Spirito.

È anche un messaggio molto ecumenico quello di Babele-Pentecoste. Sparsi sulla faccia di tutta la terra, cristiani diversi, chiese diverse possono essere una ricchezza. L’uniformità potrebbe, al contrario, essere un problema e un danno all’evangelo. Del resto, la chiesa non è mai stata uniforme, lo è stata – ma solo in superficie – soltanto sotto l’impero romano-cristiano, è stata cioè uniforme solo sotto un totalitarismo che aveva bisogno dell’uniformità e di cancellare le diversità.

Ciò che conta non è parlare la stessa lingua, ma parlare lo stesso linguaggio, ovvero il linguaggio dell’evangelo della grazia, della giustizia e della speranza. Se questo evangelo è annunciato, non importa la lingua che si parla o la nazione a cui si appartenga, lo Spirito farà sì che venga ascoltato e creduto, e che tutti coloro che lo ascoltano e lo credono si comprendano gli uni gli altri.

Diversi ma uniti, non nella propria lingua, ma nell’evangelo, che è la lingua di Dio.

lunedì 17 maggio 2021

Predicazione di domenica 16 maggio 2021 su Giovanni 7,37-39 a cura di Marco Gisola

37 Nell’ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, Gesù stando in piedi esclamò: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. 38 Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno». 39 Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora glorificato.


Siamo a Gerusalemme, nell’ultimo giorno della festa ebraica delle capanne – in ebraico Sukkot, che vuol appunto dire capanne - festa che ricorda il cammino di Israele nel deserto. Per questa festa si costruivano – e si costruiscono, perché la festa viene celebrata ancora oggi – delle capanne con frasche e rami di albero, e per i giorni della festa ci si dorme anche dentro, cosa che diventa molto simpatica per i bambini.
Ai tempi di Gesù, ogni mattina dei sette giorni che durava la festa, i sacerdoti guidavano una processione, che si recava presso una fonte di acqua, quella che riempiva la piscina di Siloe (quella di cui parla il vangelo di Giovanni poco più avanti, in cui Gesù manda l’uomo cieco a lavarsi gli occhi ed egli recupera la vista).
Da questa fonte prendevano dell’acqua con una brocca d’oro che poi portavano al tempio, attraversando la porta chiamata appunto porta dell’acqua, mentre la gente cantava dei salmi; infine il sacerdote saliva verso l’altare e ci versava sopra l’acqua; l’ultimo giorno della festa – quello più solenne, in cui è ambientato il nostro episodio - la processione girava sette volte intorno all’altare.
Proprio in questo ultimo giorno Gesù pronuncia queste parole e dunque il contesto della festa e il momento in cui le pronuncia ci aiutano a capirle meglio e a cogliere il senso e la portata delle sue parole:
La festa si riferisce alla permanenza di Israele nel deserto, luogo dove l’acqua manca per definizione e questo rito così solenne dell’acqua fa pensare all’episodio accaduto in quel lungo tempo trascorso dal popolo nel deserto, in cui Dio stesso fa scaturire l’acqua dalla roccia.
Il popolo aveva sete e si era lamentato con Mosè, che si era rivolto a Dio, il quale dice a Mosè di colpire la roccia con il suo bastone e ne fa scaturire l’acqua per dissetare il popolo. È in questo contesto che Gesù dice, anzi proclama, parlando in piedi alla folla che è lui l’acqua che disseta: «se qualcuno ha sete venga a me e beva».

Non l’acqua che scaturisce dalla roccia, non il bastone di Mosè, ma l’acqua che scaturisce da Gesù e la sua Parola dissetano veramente. È sempre acqua che viene da Dio, che è dono di Dio, ma non è acqua che disseta solo il corpo perché viva, ma acqua che disseta la fede, che disseta tutta la persona, perché creda e perché speri. Gesù sta dicendo al suo popolo che lui è la fonte dell’acqua e che lui è in grado di dargli ciò che Dio aveva dato ai loro antenati nel deserto.
Questo è il messaggio centrale di questo breve racconto, che – e apriamo una piccola parentesi - presenta due difficoltà proprio nel testo: la prima è che Gesù dice “come ha detto la Scrittura” ma non c’è nella Bibbia una parola identica a quella che cita Gesù. Per risolvere questa difficoltà, si dice che Gesù si riferisce in modo generico a quei molti testi che parlano dell’acqua come dono di salvezza da parte di Dio.
La seconda difficoltà è sempre nella frase detta da Gesù, ma è più sostanziale, perché ne cambia un po’ il significato. In alcuni manoscritti c’è un punto che si trova qualche parola più in là per cui le frasi sono diverse; senza entrare nei dettagli, mentre nella nostra traduzione il seno (che poi sarebbe il “ventre” cioè l’interno della persona) da cui sgorgano fiumi di acqua viva è quello del credente, con questa variazione il seno o il ventre da cui sgorga l’acqua è quello di Gesù stesso.
La differenza è se questa parola ci vuole dire che i credenti che bevono da Gesù diventano a loro volta fonte per altre persone, oppure se tutto il testo si voglia concentrare su Gesù.
In ogni caso, il credente, “chi crede in me” come dice Gesù, è innanzitutto chi ha sete e trova in Gesù la fonte a cui dissetarsi. Il centro di questa parola mi sembra in questa affermazione: l’acqua, cioè la vita, e la fiducia, la speranza e la libertà di cui abbiamo bisogno per vivere la troviamo in Gesù e in lui soltanto.
Se poi Gesù ha voluto dire che questa acqua che possiamo attingere in lui la possiamo offrire a qualcun altro, questa è una conseguenza, anzi è un dono e una responsabilità. Ma è sempre Gesù colui che disseta.
E dicendo ciò, abbiamo già chiuso la parentesi e siamo tornati al cuore del racconto.


È infatti una parola per chi ha sete quella di oggi, una parola per chi è nel deserto. Se abbiamo sete è una parola per noi, se ci siamo già dissetati altrove, no. Se ci siamo costruiti un oasi nel deserto con scorta di acqua in bottiglia e stiamo lì a prendere il sole non è una parola per noi. È una parola per chi deve camminare nel deserto della vita e affrontare il viaggio della fede.
La parola di Gesù contiene infatti un invito e una promessa. L’invito è quello di andare a lui: chi ha sete venga a me. È lui la fonte e la sua Parola è l’acqua che dà vita. Non dobbiamo dare troppo per scontato questo invito. Ogni invito è un dono.
Se qualcuno ti invita a cena, vuol dire che ti apre la sua casa e prepara qualcosa per te. Poi, certo, tu puoi ricambiare l’invito, ma quando sei tu l’invitato significa che qualcuno ha fatto qualcosa per te e ha deciso di fare qualcosa per te.
Gesù ci invita perché ha deciso di fare qualcosa per noi, di dissetarci, di aprirci la sua casa dove c’è abbondanza di perdono, di speranza e di gioia, tutte cose che ha preparato per noi, tutte cose che riceviamo attraverso la sua parola.
Nel vangelo di Giovanni troviamo, molto più avanti, un particolare che ci aiuta a comprendere questa parola di Gesù: quando Gesù è crocifisso, subito dopo la sua morte, i soldati si avvicinano a lui e «uno dei soldati gli forò il costato con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua» (Giovanni 19,34).
Giovanni è l’unico evangelista che ci racconta questo episodio; e se è normale che dal corpo di Gesù esca sangue, non è normale che esca dell’acqua. E quindi qualcuno collega questi due testi e dice che la parola che Gesù dice durante la festa della capanne sulle acque che sgorgheranno da lui si realizza nella sua morte sulla croce.
Ovviamente l’acqua ha un significato simbolico, rappresenta appunto la vita che scaturisce dalla morte di Gesù, la vita nostra che scaturisce dalla morte sua. Anche perché, come ripetiamo spesso, per Giovanni la crocifissione è un evento meno drammatico rispetto agli altri vangeli e rappresenta già la sua glorificazione di Gesù.
Gesù è glorificato perché dalla sua morte scaturisce immediatamente la vita, la vita per noi, per chi crede in lui, e questo è raffigurato anche fisicamente nell’acqua che esce dal corpo del crocifisso trafitto dalla lancia del soldato romano.

E poi dopo l’invito c’è la promessa: «Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui». L’acqua – cioè la vita, la vita nuova donata a chi crede - continua a scaturire anche dopo la glorificazione di Gesù, cioè anche quando Gesù non sarà più presente in carne e ossa perché sarà risuscitato e tornato al padre.
Allora sarà lo Spirito a continuare a dissetare chi crede in Gesù. O meglio: Gesù continuerà a dissetare chi crede in lui attraverso lo Spirito, che ricorderà ai discepoli e alle discepole tutto ciò che Gesù ha fatto e ha detto e ha insegnato.
Non ci sono due fonti – Gesù e lo Spirito - ce n’è una sola perché Dio è uno solo. E non ci sono due acque, ce n’è una sola, la Parola di Dio è unica, l’evangelo è unico ed è che Gesù è venuto ed è morto e risorto per noi, è sempre Gesù che ci viene annunciato attraverso lo Spirito santo.
Il dono dello Spirito, che avverrà a Pentecoste, è la promessa e l’assicurazione che la fonte della grazia è inesauribile e continua per sempre a dissetare chiunque abbia sete.
È una parola per chi ha sete quella che riceviamo oggi. Una parola per noi, che siamo qui – come molti cristiani nel mondo - ad ascoltarla perché abbiamo sete. E abbiamo sete perché siamo già stati dissetati alla fonte della Parola di Dio.
Ma come abbiamo bisogno ogni giorno dell’acqua, abbiamo bisogno ogni giorno dell’acqua che scaturisce da Gesù e che ci dà la vita nuova in lui. A noi dissetati che abbiamo sete è rivolto l’invito ad andare a lui ed è rivolta la promessa che il dono del suo Spirito non ci farà mai mancare l’acqua che è la sua Parola, che è fonte di vita, di gioia e di speranza.