domenica 31 ottobre 2021

Predicazione di domenica 31 ottobre 2021 (domenica della Riforma) su Galati 5,1-6 a cura di Marco Gisola

 

Galati 5,1-6

1 Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi; state dunque saldi e non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della schiavitù. 2 Ecco, io, Paolo, vi dichiaro che, se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. 3 Dichiaro di nuovo: ogni uomo che si fa circoncidere, è obbligato a osservare tutta la legge. 4 Voi che volete essere giustificati dalla legge, siete separati da Cristo; siete scaduti dalla grazia. 5 Poiché quanto a noi, è in spirito, per fede, che aspettiamo la speranza della giustizia. 6 Infatti, in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l'incirconcisione; quello che vale è la fede che opera per mezzo dell'amore.



1. Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi. Letteralmente il testo greco dice “Cristo ci ha liberati per la libertà”. E che cosa è la libertà secondo Paolo? La libertà per Paolo consiste nell’essere in Cristo, o come dice altrove “di Cristo”. Per la visione biblica si è liberi solo se si è di Cristo. Cristo il liberatore ci libera perché diventiamo suoi. Così come Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto per fare di Israele il suo popolo, il suo tesoro particolare.

Oggi quando parliamo di libertà pensiamo all’indipendenza, all’autonomia, a non essere di nessuno, nel senso di non essere sottomessi a nessuno; e ovviamente questo è sacrosanto per quanto riguarda i rapporti umani e i diritti umani e sociali. Pensiamo al dramma dei femminicidi, dove l’uomo tratta la donna come una sua proprietà e piuttosto di perderla, arriva ad ucciderla! Nell’antichità, invece, e quindi anche in Paolo, non si può non appartenere a nessuno o appartenere soltanto a se stessi, non c’è questa idea. Quindi la questione è a chi appartieni.

Per Paolo, dunque, o appartieni a Cristo o appartieni a qualche altro signore. E solo se appartieni a Cristo sei veramente libero. Per questo dopo questa bella parola solenne sulla libertà in Cristo, che ci ha liberati perché fossimo liberi, Paolo scrive un’altra parola solenne, ma questa volta una parola dura e chiara: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. I cristiani delle chiese della Galazia devono scegliere se appartenere a Cristo oppure alla circoncisione, cioè alla legge. Cioè, nella visione di Paolo, devono scegliere se rimanere nella libertà che Cristo ha data loro o ricadere nella schiavitù.

Perché per Paolo, voler aggiungere, o pensare di dover aggiungere, qualcos’altro alla libertà che Cristo ci ha dato equivale ricadere nella schiavitù. Ma i Galati – o almeno alcuni fra loro che si opponevano a Paolo – la pensavano diversamente. Volevano farsi circoncidere, perché volevano appartenere a Cristo. La circoncisione era, secondo loro, il segno e il mezzo per appartenere a Cristo. Per gli oppositori di Paolo la circoncisione è la ricerca di una garanzia umana e visibile, impressa addirittura nel corpo, che appunto garantisca di essere di Cristo.

Paolo sta invece dicendo loro che non c’è bisogno di nessuna altra garanzia. Soltanto Cristo è necessario e sufficiente: Solus Christus, ha detto la Riforma. Ma non solo! Paolo è radicale: se a Cristo aggiungi o affianchi qualcosa, non appartieni più a Cristo, ma a quella cosa – qui è la circoncisione – che metti accanto a Cristo. Se vi fate circoncidere, scrive ai Galati, “Cristo non vi gioverà a nulla”. Non c’è bisogno di altra garanzia se non Cristo stesso, la sua morte e la sua resurrezione.

Questo discorso sulla circoncisione, che a noi può sembrare lontano e di scarso interesse, invece ci riguarda, ed è un campanello di allarme per tutti noi: ogni volta che cerchiamo, o siamo tentati di cercare, una garanzia oltre a Cristo, accanto a Cristo, è come se volessimo farci circoncidere. Non c’è bisogno di trovare una garanzia materiale che ci dia o ci confermi di appartenere a Cristo, e non solo non ce n’è bisogno, ma non ci può essere un’altra garanzia oltre a quella che ci dà la fede.

Se noi cerchiamo una garanzia in noi stessi, nella chiesa, nella nostra identità, nella nostra storia, siamo fuori strada. Per quanto possiamo amare la nostra chiesa, appassionarci alla nostra storia, avere a cuore la nostra identità protestante, esse non sono garanzia di alcunché: l’unica garanzia è Cristo. E se proprio cerchiamo una garanzia materiale, l’unica garanzia materiale che l’evangelo ci da è la croce, come segno dell’amore di Dio per noi.

Questo non aver bisogno di altre garanzie dell’amore di Dio, rivelato per noi nella morte e resurrezione di Gesù, è la nostra libertà. È questa la nostra libertà, libertà di mettere in discussione tutte le garanzie umane, tutte quelle certezze che si aggiungono o intrecciano alla nostra fede nella grazia di Dio.

Pensiamo alla nostra storia recente: per secoli anche le chiese della Riforma hanno pensato che le donne non potessero avere diritto di accedere al ministero pastorale; eppure a un certo punto, nel nome di Cristo e della sua Parola siamo stati liberi di superare quella che per secoli era stata una certezza.

Per secoli abbiamo pensato che le persone e le coppie omosessuali non avessero diritto di cittadinanza nella chiesa; eppure a un certo punto, nel nome di Cristo e della sua Parola, siamo stati liberi di mettere in discussione quella che per secoli era stata una certezza; e così via …

La nostra libertà è non avere altra garanzia e altra certezza che l’amore gratuito e immeritato (Sola Gratia) che Dio ci ha manifestato in Cristo soltanto (Solus Christus), che conosciamo attraverso la scrittura (Sola Scriptura), e che crediamo per fede (Sola fide). La fede che nasce dall’evangelo è quella che ci dà questa grande libertà di appartenere a Cristo e a lui soltanto e di non avere altri signori. Tutto il resto può dunque essere messo in discussione, a partire ovviamente da noi stessi. Perché ogni idea, tradizione, abitudine, prassi rischiano di renderci schiavi se non siamo liberi di metterle in discussione. Questa è la nostra grande libertà, che ci data in Cristo e soltanto in Cristo.


2. È per fede soltanto che noi “aspettiamo la giustizia di Dio”. “Aspettare” qui non ha un significato negativo, come nella nostra concezione molto “italica” di attesa come tempo perso. Qui l’attesa è sinonimo di speranza: si attende ciò che si sa che accadrà; si attende il ritorno di Cristo, che si sa che avverrà; si attende il regno di Dio, che si sa che verrà.

Aspettare” la giustizia di Dio, o il regno di Dio, significa che quel regno noi non possiamo prendercelo con i nostri sforzi, non possiamo guadagnarcelo né meritarcelo, ma possiamo solo aspettarlo, aspettarcelo da Dio, perché è un suo dono, è opera solo sua e non nostra. Noi possiamo aspettarlo con gioia, perché appunto sappiamo che verrà, come un bambino aspetta un dono la mattina di Natale, sapendo che quel dono non dipende da lui o da lei, ma sa che quel dono verrà.

Nei confronti di Dio non si può dunque che aspettare, in senso positivo, cioè con fiducia, con gioia e con riconoscenza. Questo “aspettare” è la speranza, che è la sorella gemella della fede, perché la fede crede e spera, spera perché crede nelle promesse del Signore e crede perché Gesù è già venuto a liberarci, morendo per noi e per noi vincendo la morte la notte di Pasqua.

E che si fa mentre si aspetta ciò che può fare Dio soltanto? Che cosa fa la fede che aspetta la giustizia di Dio? Questa fede – dice Paolo - “opera per mezzo dell’amore”. La fede opera, agisce, ovvero: ama. È la tua fede che ama. Non è il tuo buon cuore, la tua gentilezza, la tua generosità. È la fede che ti insegna ad amare e ti rende capace di amare, che ti rende libero di amare. È Cristo che ti insegna ad amare, perché appartieni a lui che ha vissuto l’amore fino in fondo e ci ha indicato l’amore come la strada per andare incontro al prossimo e per dare senso alla nostra vita.

La fede “opera”: i riformatori non hanno mai sminuito le “opere”. Hanno affermato – leggendo Paolo – che le opere non salvano, non hanno nessun valore salvifico, nessun valore davanti a Dio, ma hanno tanto, tantissimo valore davanti al prossimo. Anzi: l’unica cosa da fare, l’unica cosa giusta da fare davanti al prossimo, in obbedienza fiduciosa alla Parola di Dio, è amarlo.

La fede opera per mezzo dell’amore. La fede in Cristo opera nel prossimo, amandolo. Potremmo dire: Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi di amare. A che cos’altro dovrebbe servire la libertà che Cristo ci ha guadagnato venendo crocifisso per noi, se non ad amare? A che cosa dovrebbero “servire” i cristiani nel mondo se non ad amare? O detto meglio: quale dovrebbe la ragione d’essere, cioè la vocazione dei cristiani nel mondo se non quella di amare, di cercare il regno e la giustizia di Dio e lavorare per la giustizia e la pace?

La nostra libertà – che Cristo ci ha donato – e la nostra fede hanno uno scopo: operare per mezzo dell’amore. Non è scontato essere liberi di amare, amare persino i nemici, persino chi non ci ama. È un dono essere liberi di amare; è anche questo frutto della liberazione che Cristo ha operato per noi.

Oggi, “domenica della Riforma”, noi in realtà non “celebriamo” la Riforma come evento storico, ma celebriamo l’evangelo che la Riforma ha rimesso al centro della fede e della vita dei cristiani e della chiesa: siamo stati liberati, e dunque siamo di Cristo e non abbiamo alcun altro signore, per essere liberi di amare e di operare per mezzo dell’amore.

Questo evangelo, è il tesoro di cui parlava Lutero [“Il vero tesoro della Chiesa è il sacrosanto Evangelo della gloria e della grazia di Dio” (tesi 62, dalle 95 tesi del 1517)].

Questo dono, questo amore, questa libertà è il tesoro che ci è dato e affidato. Ci aiuti il Signore a viverlo e a condividerlo con umiltà e con riconoscenza.

lunedì 11 ottobre 2021

Predicazione di domenica 10 ottobre 2021 su Marco 2,1-12 a cura di Daniel Attinger

 

COSA SIGNIFICA CREDERE ?

Testo: Marco 2,1-12

Entrato di nuovo Gesù a Cafarnao, dopo qualche giorno si sparse la voce: “È in casa!”. E si radunarono tanti che non c’era posto nemmeno davanti alla porta, e espo­neva loro la Parola. Vengono a portargli un paralitico, trasportato da quattro perso­ne, e non potendo raggiungerlo a causa della folla scoperchiano il tetto dove era Gesù e, fatto un buco,calano la barella dove era sdraiato il paralitico. Gesù, vista la loro fede, dice: “Figlio, i tuoi peccati sono perdonati!”. C’erano là alcuni degli scribi che stavano seduti e ragionavano in cuor loro: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?”. E subito Gesù, compreso nel suo animo che così ragionavano in se stessi, dice a loro: “Perché ragionate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire al paralitico: ‘sono perdonati i tuoi peccati’ o dire: ‘alzati, pren­di la tua barella e cammina?’ E perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra – dice al paralitico – dico a te: alzati, prendi la tua barella e vattene a casa tua” E quello si alzò e subito, presa la barella, uscì in presen­za di tutti, tanto che tutti erano strabiliati e davano gloria a Dio dicendo: “Una cosa così non l’abbiamo mai vista”.


Sorelle e fratelli, carissimi,

All’inizio del suo evangelo, Marco ha riassunto l’essenziale della predicazione di Gesù in queste parole: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è avvicinato, convertitevi e credete nell’evangelo”. Vi è quindi fin dall’inizio del ministero di Gesù un forte invito a credere. Ma cosa significa credere? Sappiamo evidentemente che credere vuol dire aderire a ciò che ci dicono le Scritture su Dio e su Gesù Cristo. Ma il testo che abbiamo letto oggi ci presenta un altro volto della fede. Tra l’altro è significativo rilevare che è qui che si trova la prima men­zione della parola “fede” nell’evangelo secondo Marco. Cosa dunque questo episodio ci dice della fede?

Gesù è a Cafarnao, cittadina che ha scelto per farne il centro della sua attività. La casa che gli serve di luogo di riparo dalle folle che, vedendo i suoi doni di guaritore, lo circondano per farsi guarire da ogni sorta di malattie, è verosimilmente quella di Simon Pietro e di Andrea, suo fratello, i primi che Gesù ha chiamati alla sua sequela. Ma anche in casa, non lo si lascia tranquillo! La folla si accalca e blocca il passaggio ad un gruppo di uomini che cercano di con­durre un paralizzato fino a Gesù. Lungi dal rinunciare alla loro intenzione, intraprendono un percorso piuttosto complesso: salgono sul tetto della casa, vi fanno un buco abbastanza gran­de per poter calare il paralizzato fino ai piedi di Gesù. Non è il caso di chiederci se le cose si sono davvero svolte in questo modo: Marco non intende informare i suoi lettori su un parti­colare della vita di Gesù, vuole invece farci capire cosa sia la fede, non dimentichiamolo!

Quando chi legge questo racconto per la prima volta giunge al momento in cui l’infermo è posto davanti a Gesù sa già che sarà guarito, ma non sa come ciò avverrà. Forse Gesù imporrà le mani sul malato; forse, dopo avergli detto di alzarsi, gli tenderà la mano per aiutarlo; forse si accontenterà di una sola parola. Ora, la guarigione avviene effettivamente, ma in un modo sorprendente. Gesù non dice: “Alzati e cammina!”, ma: “Figlio, i tuoi peccati sono perdonati!”

Si può immaginare la delusione dei portatori e del malato: speravano un miracolo e la guarigione. Invece il racconto va in tutt’altra direzione. Ma non c’è solo un annuncio di perdo­no; Marco scrive infatti: “vista la loro fede, Gesù dice: ‘Figlio, i tuoi peccati sono perdonati!’”.

Ritornerò fra poco su questa “delusione”. Per ora, fermiamoci sulla fede. Marco dice di Gesù che ha “visto la loro fede”. Ma che cosa ha visto in realtà? Quando pensiamo alla fede pensiamo a quella che si proclama in una confessione di fede come il credo che diciamo nel culto. La fede designa essenzialmente per noi un contenuto: si crede in Dio, nella salvezza; fede per noi è ciò che si tiene per vero. Dove sta dunque la fede che Gesù ha “visto” in questi uomini? Non ha sentito alcuna dichiarazione “ortodossa” di fede, ha visto invece lo sforzo e la volontà di questi uomini di condurre ad ogni costo, anche a costo di un’avventura rocambo­lesca, il paralizzato da Gesù perché possa essere guarito.

È forse questa la fede? Certo, la fiducia in Gesù è un elemento importante della fede, e la loro testardaggine sottolinea la forza della loro fiducia, ma in realtà vi è qualcosa di più.

Chiediamoci: di chi è la fede che Gesù ha visto? Certamente dei portatori che non esitano a scavalcare ogni ostacolo, pur di portare il loro amico da Gesù. Ma è anche dell’infermo; al suo posto avremmo forse detto: “Vedete che non ce la facciamo, lasciate perdere... Se Dio vorrà, vi sarà un’altra occasione”. Invece no, si lascia fare. Quando dunque Marco scrive che Gesù ha vi­sto la “loro” fede, non pensa solo a quella dei portatori, ma alla fede dei cinque, paralitico com­preso; ma allora quale fede? La loro perseveranza nel fare qualsiasi cosa pur di arrivare a Gesù è certo l’espressione di una grande fiducia nella sua capacità di guarire il paralitico. Pro­babilmente non vedono in lui il Figlio di Dio, ma il guaritore, quasi lo stregone. È forse questa la loro fede? Probabilmente no. Essa si esprime invece piuttosto nell’amicizia che unisce que­sti uomini e nella solidarietà fuori dal comune che li anima. Fede non è solo credere in Dio e nelle realtà divine, conformemente ad una confessione di fede ortodossa; credere è anche far fiducia al fratello o alla sorella, confidare in ciò che di umano sta nell’altro, chiunque egli sia, essere fedeli gli uni agli altri.

È dunque su questa base che Gesù annuncia il perdono: delusione probabile per i prota­gonisti dell’episodio, ma soprattutto scandalo per gli scribi che stanno osservando Gesù. Ora è proprio questo che Marco intende sottolineare, non la momentanea delusione, ma la differen­za, che potremmo dire “ottica”, esistente tra Gesù e le autorità religiose presenti. Attenzione però, non tra Gesù e gli ebrei… perché il modo di vedere di Gesù è quello di un ebreo, ma non è quello che abitualmente si trova presso le autorità religiose, anche nelle Chiese. Le autorità pensano in categorie legalistiche: cos’è permesso, cos’è proibito? Per loro l’importante è la liceità: a Gesù non è lecito annunciare il perdono, perché questo compete solo a Dio. Gesù è dunque un usurpatore e bestemmia. Invece Gesù ha “visto”… ha visto l’amore che anima que­sti uomini, i portatori come l’infermo: questo amore è la prova che il perdono e la miseri­cordia di Dio già li avvolgono. Gesù non ha quindi neanche bisogno di “perdonare”, constata solo che il perdono c’è già, che Dio ha già perdonato.

C’è però un problema: agli occhi degli scribi – ma anche spesso ai nostri occhi – il perdo­no non si vede! Allora chi sa se davvero il perdono è stato dato. Ancora una volta siamo nella logica degli scribi, non in quella di Gesù, perché lui, come dicevo, ha “visto” il perdono nell’a­micizia che univa questi uomini, amicizia che li ha fatti vincere tutti gli ostacoli. Perciò aggiun­ge la domanda: “Che cosa è più facile? Dire:‘sono perdonati i tuoi peccati’ o dire: ‘alzati, prendi la tua barella e cammina’?”

Non è che ci sia un rapporto immediato tra peccato e paralisi. La paralisi non è la punizio­ne di qualche peccato commesso da quest’uomo. Lo vediamo dal fatto che, dopo aver ricevuto l’annuncio del perdono, l’infermo rimane paralizzato: in quel momento è perdonato e paraliz­zato! No! La domanda di Gesù concerne, una volta ancora, la fede: Gesù intende convincere le autorità religiose che Dio accoglie effettivamente con misericordia chiunque viene a lui, anzi che questo è il giudizio di Dio: la sua misericordia. Per lui, vedere il perdono di Dio o gua­rire un paralizzato sono due realtà di uguale difficoltà, e perciò conferma il primo miracolo, quello della visione del perdono, con il secondo, quello della guarigione del paralizzato.

L’autorità che Gesù rivendica per sé di “perdonare i peccati”, non è una usurpazione, per­ché in realtà non ha rapito a Dio il suo potere di perdonare, ha solo saputo discernere chi, in quel momento, era già stato perdonato da Dio. E la guarigione dell’infermo è l’attestazione che Gesù ha visto giusto. Lo è per la folla che attornia Gesù e che proclama: “Una cosa così non l’abbiamo mai vista”; forse lo è anche per gli scribi che comunque non possono replicare; ma questo messaggio, secondo il quale il giudizio di Dio è la sua misericordia, deve valere soprat­tutto per il lettore di Marco, e dunque per noi, qualunque sia la situazione in cui ci troviamo. È proprio questa convinzione – che poi è la nostra stessa fede – che ci permette di fare di ogni situazione che viviamo, anche situazioni di disagio, di fragilità o di scoraggiamento, un cam­mino di amore che si apra sulla speranza e la gioia dell’evangelo.

Voglia il Signore conservarci in questa fede, affinché attraverso di noi il suo Nome sia sempre glorificato. Amen.

domenica 3 ottobre 2021

Predicazione di domenica 3 ottobre 2021 su 2 Corinzi 9,6-15 a cura di Marco Gisola

 2 Corinzi 9,6-15 

6 Ora dico questo: chi semina scarsamente mieterà altresì scarsamente; e chi semina abbondantemente mieterà altresì abbondantemente. 7 Dia ciascuno come ha deliberato in cuor suo; non di mala voglia, né per forza, perché Dio ama un donatore gioioso. 8 Dio è potente da far abbondare su di voi ogni grazia, affinché, avendo sempre in ogni cosa tutto quel che vi è necessario, abbondiate per ogni opera buona; 9 come sta scritto: «Egli ha profuso, egli ha dato ai poveri,la sua giustizia dura in eterno». 10 Colui che fornisce al seminatore la semenza e il pane da mangiare, fornirà e moltiplicherà la semenza vostra e accrescerà i frutti della vostra giustizia. 11 Così, arricchiti in ogni cosa, potrete esercitare una larga generosità, la quale produrrà rendimento di grazie a Dio per mezzo di noi. 12 Perché l'adempimento di questo servizio sacro non solo supplisce ai bisogni dei santi ma più ancora produce abbondanza di ringraziamenti a Dio; 13 perché la prova pratica fornita da questa sovvenzione li porta a glorificare Dio per l'ubbidienza con cui professate il vangelo di Cristo e per la generosità della vostra comunione con loro e con tutti. 14 Essi pregano per voi, perché vi amano a causa della grazia sovrabbondante che Dio vi ha concessa. 15 Ringraziato sia Dio per il suo dono ineffabile!


1. Oggi la Parola di Dio ci parla di soldi. L’apostolo Paolo ci parla di una colletta che le chiese della diaspora – come quella di Corinto a cui sta scrivendo – sono invitate a fare a favore della chiesa di Gerusalemme, che era in difficoltà economiche.

Noi quando parliamo di soldi, di solito, parliamo dei soldi che guadagniamo o dei soldi che spendiamo. Con il lavoro – o con la pensione, che è comunque un frutto indiretto del lavoro che si è fatto per una vita – guadagniamo i soldi che ci servono per vivere, e quei soldi li spendiamo per le nostre necessità e qualche volta, quando possiamo, per qualche altra cosa. I soldi sono da un lato il frutto del nostro lavoro e dall'altro sono lo strumento con cui ci procuriamo ciò che ci serve.

La Parola di Dio quando parla di soldi invece parla di donare e di condividere. Anzi, prima di parlare di dono donato, parla di dono ricevuto: Paolo parla del seminatore e di “Colui che fornisce al seminatore la semenza e il pane da mangiare”. È Dio che fornisce il seme al seminatore e che quindi gli fornisce il pane. Il seme è dono, perché tutto è dono. E nella chiesa non possiamo parlare del nostro donare senza prima parlare dei doni che abbiamo ricevuto. Impariamo a donare solo se siamo consapevoli di avere tutto ricevuto in dono.

Anche il seme che il seminatore semina nel suo terreno è un dono di Dio. Anche lo stipendio che ti sudi in fabbrica, a scuola, nel reparto di ospedale o, appunto, nei campi… È ovvio che dal punto di vista umano, del diritto del lavoro o sindacale lo stipendio è la giusta retribuzione per un lavoro compiuto. Ma dal punto di vista della fede è dono, perché tutto è dono. Ciò che per il mondo mi guadagno, davanti a Dio è un suo dono. Insieme a doni ancora più grandi che Dio ci fa, il più grande dei quali è suo figlio venuto e morto e risorto per noi, e poi la fede che è dono di Dio, la speranza nel regno di giustizia di Dio, la comunità con cui condividiamo tutto ciò.

E allora il nostro dono, il dono che noi facciamo è una risposta riconoscente al dono di Dio ed è una condivisione del dono di Dio. Se tutto è dono, quando io dono, non faccio altro che condividere ciò che ho ricevuto in dono da Dio. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” dice Gesù ai discepoli che manda in missione. Dono chiama dono, anzi: dono genera dono. Poiché riceviamo tutti questi doni da Dio, siamo chiamati a donare.

Ma quanto? E come? Paolo dice: generosamente e liberamente. Il nostro dono, secondo Paolo, ha queste due caratteristiche: generosità e libertà. Paolo invita alla generosità, che vuol dire non donare le briciole, non donare il minimo del superfluo, ma Paolo non prescrive e non comanda: “Dia ciascuno come ha deliberato in cuor suo; non di mala voglia, né per forza, perché Dio ama un donatore gioioso”. “Ciascuno quanto ha deliberato in cuor suo”, cioè liberamente e responsabilmente. Non di malavoglia, non per forza, ma con gioia. Una terza caratteristica del dono è che è fatto con gioia, liberamente e quindi con gioia. Altrimenti non è un dono, ma un obbligo o una forzatura. Paolo parla dunque di soldi con grande libertà – mentre noi facciamo sempre un po’ di difficoltà – e ne parla senza moralismi. Parla di generosità, perché donare le briciole sarebbe ipocrisia; di libertà, perché il dono non è una tassa, ma è appunto un libero dono e - in quanto libero - responsabile; e di gioia, perché il dono è innanzitutto risposta gioiosa ai doni ricevuti da Dio. 

 

2. E poiché oggi la Parola di Dio ci parla di soldi, tocchiamo anche un tema di cui di solito non si parla nelle predicazioni, cioè le contribuzioni alla nostra chiesa. Forse una remora che noi pastori abbiamo a parlare di questo è che ci sembra di chiedere soldi per i nostri stipendi. Paolo, come abbiamo detto, non parla del mantenimento dei ministri della chiesa, ma di una colletta per i cristiani di Gerusalemme che sono in difficoltà economiche. Ma possiamo fare rientrare un attimo anche questo discorso, perché la nostra chiesa ha fatto la scelta di avere dei pastori e delle pastore a tempo pieno e quindi retribuiti (non tutti, vi sono dei pastori che lo fanno oltre al proprio lavoro e non sono retribuiti) e ha fatto la scelta che questa retribuzione fosse frutto del dono e della condivisione delle risorse dei membri di chiesa.

Le parole di Paolo ci indicano i criteri che valgono anche per la contribuzione che siamo tutti chiamati a dare per la vita della chiesa, in particolare per pagare gli stipendi dei pastori e delle pastore e il funzionamento della nostra chiesa: la contribuzione che siamo chiamati a dare è libera, non è una tassa, ma un dono; è libera e dunque responsabile, e infatti è un impegno che tutti noi ci siamo preso al momento in cui siamo diventati membri di chiesa. È una condivisione di ciò che ciascuno di noi ha e dunque ha ricevuto. Ed è – o dovrebbe e vorrebbe essere – gioiosa, perché nasce dalla gioia di aver ricevuto il dono della grazia di Dio che ogni domenica cerchiamo qui di annunciare e di vivere.

Ma il principio è che la chiesa – in senso lato, cioè tutta la chiesa valdese – mantiene le persone che ha incaricato di predicare l’evangelo attraverso la condivisione delle risorse che ciascuno ha e che ciascuno sceglie liberamente e responsabilmente, “in cuor suo”, di donare. È una condivisione delle risorse di ciascuno e ciascuna di noi che permette la condivisione dell’annuncio della parola di Dio, della formazione sulla Parola di Dio, della fede e della preghiera vissute insieme. Un dono che rende possibile tutto ciò a chi sa di aver ricevuto dal Signore il dono più grande, che è quello della grazia nel suo figlio Gesù.


3. Torniamo infine al testo: il dono, che ha tutte queste caratteristiche di cui abbiamo appena detto, per Paolo è un atto di culto. Paolo non usa il termine colletta, come ho detto io per brevità all’inizio, per parlare della raccolte delle offerte per la chiesa di Gerusalemme, ma usa altre parole: parla di “opera di grazia” e arriva a dire che si tratta di un “servizio sacro”, quindi un atto di culto (9,12). E la parola che la nostra Bibbia traduce con “sovvenzione” (v. ) è diaconia, cioè servizio. Donare è culto ed è servizio. Donare è uno dei modi che abbiamo per celebrare il culto anche attraverso le nostre risorse materiali, mettendole al servizio di chi ne ha bisogno.

La distinzione così netta tra materiale e spirituale che spesso c’è nella nostra mentalità non è biblica. Per la Bibbia il materiale è spirituale. Gesù insegna alle folle e poi le sfama, fa tutte e due le cose, certo prima insegna, ma poi, quando hanno fame, fa in modo che mangino. E Gesù guarisce senza pretendere che tutte le persone che ha guarito diventino suoi discepoli.

Il dono è un atto di culto ed è un segno di comunione. I cristiani di Gerusalemme loderanno Dio per il dono che riceveranno e Paolo scrive: “per la generosità della vostra comunione con loro”. Usa proprio questa parola “ comunione”: il dono è comunione.

E pensiamo che i cristiani di Corinto e quelli di Gerusalemme non si sono mai visti e forse non si vedranno mai; gli uni provengono dal paganesimo, gli altri dall’ebraismo. Eppure sono in comunione, che è sia materiale, sia spirituale, perché anche il materiale è spirituale.

E a questo riguardo c’è una cosa bellissima in questo brano; Paolo aggiunge: Essi [i cristiani di Gerusalemme] pregano per voi, perché vi amano a causa della grazia sovrabbondante che Dio vi ha concessa. I cristiani di Corinto fanno un dono in denaro e i cristiani di Gerusalemme pregano per loro. C’è comunione, che si esplicita nel dono di chi ha di più verso chi ha di meno, e nella preghiera.

La comunione in Cristo supera tutte le barriere, geografiche, etniche, sociali. E comprende ogni aspetto della vita, dal denaro alla preghiera. Non c’è nulla nella nostra vita di ciò che siamo e di ciò che abbiamo che non debba o non possa diventare strumento di comunione, nel dono reciproco di ciò che si ha e di ciò che si è.

Perché ciò che si ha e ciò che si è dono del donatore supremo, dono che viene prima ed è l’origine di ogni altro dono. E quindi, come dice Paolo, Ringraziato sia Dio per il suo dono ineffabile!