lunedì 23 gennaio 2017

Predicazione su 2 Corinzi 5,14-20 a cura di Marco Gisola in occasione della Celebrazione ecumenica della Parola nell'ambito della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani presso la Chiesa di san Filippo (Biella) domenica 22 gennaio


2 Corinzi 5,14-20
14 infatti l'amore di Cristo ci costringe, perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; 15 e ch'egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. 16 Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così. 17 Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove. 18 E tutto questo viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. 19 Infatti Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe, e ha messo in noi la parola della riconciliazione. 20 Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio.


Quest’anno, in cui le chiese protestanti insieme alle altre chiese cristiane ricordano l’inizio della Riforma Protestante, ci viene proposto per la SPUC questo testo dell’apostolo Paolo. Un testo molto bello, molto denso, di cui possiamo oggi solo sottolineare alcuni aspetti.
In questo brano siamo al cuore dell’evangelo, e il cuore dell’evangelo, della buona notizia per tutta l’umanità, è ciò che Dio ha fatto per noi in Cristo. Questo è il tema di questo brano di Paolo: ciò che Dio ha fatto per noi, cioè la morte e resurrezione di Cristo.
Vorrei provare a dire tre cose su questo testo così ricco:

1. la prima cosa che vorrei dire è che qui Paolo parla di ciò che Dio ha fatto usando una parola che nel Nuovo Testamento usa quasi soltanto lui, la troviamo infatti alcune volte nelle sue lettere e solo due volte nei vangeli: la parola riconciliazione.
Paolo non usa il classico termine “salvezza”, non usa nemmeno il termine che per lui è così importante “giustificazione”, ma - appunto - “riconciliazione”. Nella chiesa di Corinto ci sono dei conflitti che coinvolgono anche lui e che Paolo vuole tentare, appunto, di riconciliare.
Per riconciliare questi conflitti, Paolo fa appello a ciò che Dio ha fatto per noi. Con la parola “riconciliazione” Paolo infatti descrive ciò che Dio ha fatto per noi: “Dio ... ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo […]. Infatti Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe”.
Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, cioè: la riconciliazione è opera di Dio, di Dio soltanto: è lui che ha deciso, è lui che ha operato.
Riconciliazione vuol dire fare pace. Se c’è bisogno di fare pace, vuol dire che la pace non c’è. Non c’era pace tra Dio e gli esseri umani, e spesso ancora non c’è pace perché noi esseri umani in fondo non vogliamo che Dio sia Dio, nel senso che non vogliamo che Dio regni sulle nostre vite, non vogliamo ascoltare quello che ha da dirci e preferiamo fare di testa nostra, lasciandoci guidare, in fondo, dal nostro egoismo.
Questa è la nostra colpa. E come fa Dio a fare pace? Paolo ci dice: “non imputando agli uomini le loro colpe”. E questa è la grazia, che la Riforma protestante ha rimesso al centro e che Paolo qui descrive senza nominarla. La grazia, ovvero quell’amore che ci spinge, costringe…..
Come opera Dio la riconciliazione tra lui e noi? Tra lui, tre volte santo, e noi, peccatori e colpevoli? non imputandoci le nostre colpe.
Dio mi dice e ti dice: tu sei colpevole, non sei innocente (e spesso il peccato più grosso è proprio quello di ritenersi innocenti, come il fariseo della parabola), ma io non ti imputo la tua colpevolezza, ovvero non tengo conto della tua colpa. Questo non ti rende innocente, ma ti giustifica, per usare quella parola che Paolo usa così spesso. Rimani peccatore, ma un peccatore perdonato.
La grazia giustifica e dunque riconcilia, fa pace. Ciascuno di noi può quindi dire a Dio: Se tu, Signore, non tieni conto della mia colpa, io posso trovare pace in te. Perché Cristo è morto e risuscitato per noi, anche per noi, come per tutta l’umanità.
Ecco il cuore dell’evangelo, detto con una parola nuova, una parola che dovremmo usare più spesso: riconciliazione.
La riconciliazione parla della stessa opera di Dio che chiamiamo salvezza, o che chiamiamo giustificazione, solo che mette l’accento più sulle conseguenze dell’opera di Dio: Dio riconcilia, Dio fa pace, firma un trattato di pace unilaterale, e lo firma – scusate l’immagine un po’ cruenta – con il sangue di Gesù, versato per noi sulla croce.
Paolo usa questa parola qui – e altrove nelle sue lettere – perché gli interessa appunto parlar delle conseguenze dell’opera riconciliatrice di Dio.

2. E qui – e vengo alla seconda cosa che vorrei dire – la parola chiave è “nuovo”. Se la guerra, il conflitto era la situazione di prima, la pace è la nuova situazione.
Paolo elenca almeno due novità, due grosse, enormi novità: la prima è che “quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro”. La tua vita cambia, cambia obiettivo, cambia scopo. Lo scopo della tua vita non sei più tu, non vivi più per te stesso, ma per Cristo, che è morto e risuscitato per te.
Ciò significa che Cristo è ora il Signore della tua vita, il che ha molte, moltissime conseguenze. Ne dico solo una perché in realtà chiedersi che cosa voglia dire che Cristo è il Signore della nostra vita equivale a chiedersi che cosa voglia dire essere cristiani, riflessione che dura tutta la vita.
L’unica cosa che abbiamo il tempo di dire ora è che se Cristo è il Signore della nostra vita, nella nostra vita non ci sono altri signori. E questa è la nostra libertà: sapere che l’unico a cui dobbiamo obbedire e rendere conto è il nostro Signore Gesù Cristo.
Questa consapevolezza e questa libertà l’hanno testimoniata nella storia cristiani di tutte le chiese, a volte fino al martirio; non l’hanno fatto tutti – forse l’hanno fatto in pochi - e non l’hanno fatto sempre, ma di questi testimoni ce ne sono nella storia di ciascuna delle nostre chiese.
La seconda novità è che “da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano” (nemmeno Gesù, che non è solo più l’uomo Gesù, il falegname di Nazaret, ma è il nostro Salvatore, o se preferite Riconciliatore).
Non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano, perché “Se … uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove”.
La persona che hai di fianco, o incontri per strada o sul lavoro o nella vita sociale della tua città non è un persona qualunque ma è una sorella o un fratello per cui Cristo è morto e risorto, anche se è un estraneo.
Questa è la novità frutto della riconciliazione che Dio ha operato tra lui e noi: che possiamo vedere l’altro essere umano in modo riconciliato, con occhi riconciliati, come colui o colei per cui Cristo è morto e risorto.
Questo cambia tutto; o meglio, cambierebbe tutto, se sapessimo viverlo davvero. Anche e proprio tra noi: il cristiano dell’altra chiesa non è solo un valdese, un ortodosso, un avventista, un cattolico… è prima di tutto colui o colei per cui Cristo è morto e risorto.
Ma anche nella nostra vita sociale fuori dalla chiesa: l’altro o l'altra che incontro tutti i giorni o una sola volta in vita mia, prima di essere simpatico o antipatico, italiano o straniero, cristiano o musulmano, o buddista o ateo è colui o colei per cui Cristo è morto e risorto. Non per cristianizzare tutti, ma perché questo è il nostro punto di vista riconciliato, perché Dio ci riconcilia con il prossimo, chiunque egli sia.

3. Infine, la terza e ultima cosa: questo brano contiene anche un compito per tutti e tutte noi: Paolo dice che Dio “ci ha affidato il ministero della riconciliazione … ha messo in noi la parola della riconciliazione. Noi dunque facciamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro”.
Siamo ministri, ambasciatori della riconciliazione che Dio ha operato tra lui e noi e delle riconciliazioni possibili tra noi esseri umani. Perché Dio ha messo in noi la parola della riconciliazione, la Parola dell’evangelo che ci annuncia che Dio ha fatto pace con noi, parola che siamo chiamati a vivere, annunciare e testimoniare.
Siamo tutti e tutte ministri, abbiamo un ministero - in greco è “diaconia”, ovvero servizio - siamo quindi servi della riconciliazione. Abbiamo un compito: vivere, dire e seminare riconciliazione.
Come se Dio esortasse per mezzo nostro”, dice Paolo: Dio ha bisogno della nostra voce e della nostra vita, dei nostri gesti e delle nostre scelte per far conoscere questo grande dono della riconciliazione, quella che lui ha operato in Cristo e quelle possibili di cui abbiamo bisogno tra di noi.
Inutile dire quanto bisogno c’è nel mondo bisogno di riconciliazione, a partire dalle nostre famiglie e dalle nostre chiese fino ai numerosi conflitti che insanguinano il mondo; già nella chiesa di Corinto, a cui Paolo scrive, c’era bisogno di riconciliazione. È dunque chiaro quanto bisogno c’è di ministri, di servi della riconciliazione.
Oggi siamo qui, cattolici, ortodossi, avventisti, valdesi, riconciliati da Dio con sé e quindi tra di noi. Siamo qui come sorelle e fratelli per cui Cristo è morto e risorto, a chiedere a Dio di aiutarci prima di tutto a credere nella riconciliazione che ha operato in Cristo, a credere che ci ha riconciliati con sé; poi a vivere le grandi novità che questa riconciliazione comporta, guardando il prossimo con occhi riconciliati.
E infine a essere ministri, servi, ambasciatori della sua riconciliazione per cercare di portarla laddove ce n’è bisogno. È questo un compito che possiamo senza dubbio portare avanti insieme.

Predicazione di domenica 22 gennaio 2017 su Giovanni 4,46-54 a cura di Marco Gisola

Giovanni 4,46-54
46 Gesù dunque venne di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l'acqua in vino.
Vi era un ufficiale del re, il cui figlio era infermo a Capernaum.
47 Come egli ebbe udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, andò da lui e lo pregò che scendesse e guarisse suo figlio, perché stava per morire. 48 Perciò Gesù gli disse: «Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete». 49 L'ufficiale del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50 Gesù gli disse: «Va', tuo figlio vive». Quell'uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detta, e se ne andò. 51 E mentre già stava scendendo, i suoi servi gli andarono incontro e gli dissero: «Tuo figlio vive». 52 Allora egli domandò loro a che ora avesse cominciato a stare meglio; ed essi gli risposero: «Ieri, all'ora settima, la febbre lo lasciò». 53 Così il padre riconobbe che la guarigione era avvenuta nell'ora che Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa.
54 Gesù fece questo secondo segno miracoloso, tornando dalla Giudea in Galilea.


Questo racconto è senza dubbio un racconto di miracolo. Possiamo però chiederci quando accade il miracolo e quale sia il miracolo che viene qui raccontato.
Tutti noi lettori di questo brano, a una prima lettura, diremmo sicuramente che il miracolo è la guarigione del figlio dell’ufficiale del re e che esso accade quando Gesù pronuncia le parole: “va’, tuo figlio vive”.
E senza dubbio le cose stanno così. Si tratta di un racconto di guarigione di un bambino o un ragazzo per il quale il padre va a chiedere aiuto a Gesù.
Ma ci sono alcuni dettagli di questo racconto che ci suggeriscono che non si tratta soltanto di un racconto di miracolo, che la guarigione non è l’unica cosa che accade.
Ripercorriamo il racconto: l’ufficiale abita a Capernaum, che si trova a circa 26 chilometri di distanza da Cana, dove Gesù si trova in questo momento. 26 chilometri a piedi non si fanno in mezzora, quell’uomo ha camminato qualche ora per raggiungere Gesù e gli chiede di fare insieme la stessa strada al contrario, per andare a guarire suo figlio.
La prima reazione di Gesù è negativa, Gesù critica una fede fondata sul miracolo: «Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete» dice Gesù, e probabilmente non parla soltanto all’ufficiale, ma si rivolge a tutti quelli che lo ascoltano in quel momento.
Nei vangeli più volte vediamo che Gesù è critico verso quelli che cercano in lui il guaritore e basta, quelli che vogliono miracoli e nient’altro. Non è questa la fede che Dio vuole da noi, Gesù non è solo un guaritore, è il Figlio di Dio, ma molti non vanno oltre il miracolo, non cercano altro.
Gesù, beninteso, non ce l’ha con la richiesta dell'ufficiale: che un padre chieda che suo figlio in pericolo di vita, venga guarito è una richiesta più che legittima e quel padre non può certo essere criticato per questo. Gesù vuole però capire se è tutto lì.
Come reagisce l'ufficiale? Gesù in fondo non ha risposto alla sua richiesta, ha solo fatto una critica generale a chi cerca solo miracoli. Non gli ancora detto di no. l’uomo avrà pensato: posso ancora provare a insistere. E lo fa: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». “Scendi” chiede l’uomo, perché Capernaum è più in basso verso il lago rispetto a Cana, dove si trovano ora.
Egli insiste perché Gesù vada di persona a guarire il figlio; evidentemente non riesce a immaginare che Gesù possa guarire suo figlio senza “scendere”, senza andare da lui.
E questa volta Gesù lo esaudisce, ma senza andare fino a Capernaum: «Va', tuo figlio vive». Gesù guarisce il figlio dell’ufficiale. Ma... siamo sicuri che lo abbia guarito? Suo padre, soprattutto, come fa a sapere che Gesù ha guarito suo figlio, che se ne sta laggiù a Capernaum, a 26 chilometri di distanza? Non ne ha alcuna prova.
Possiamo fare una piccola pausa nell’analisi di questo racconto. La storia continua e sappiamo come va a finire: il figlio è veramente guarito. Ma facciamo una pausa, fermiamo la scena: immaginiamoci che questo racconto sia un film e di fermarlo proprio nel momento in cui Gesù ha appena detto all'ufficiale: «Va', tuo figlio vive».
Ecco, in questo fermo immagine ci siamo noi. Noi viviamo la nostra vita e la nostra fede come se ogni giorno fosse questo momento.
Non nel senso che siamo fermi immobili, ma nel senso che ogni giorno siamo nella situazione dell’ufficiale, siamo davanti alla Parola che Gesù ci dice e non abbiamo le prove di quello che Gesù ci dice. Siamo davanti alla Parola di Dio che chiede semplicemente la nostra fiducia.
Questo racconto ci mostra in modo chiaro, l’una di fronte all’altra, la grazia e la fede: il figlio è guarito, Gesù ha agito, il miracolo è avvenuto e il miracolo è grazia, è dono. E la fede è partire credendoci, come fa l’ufficiale, come fece Abramo tanto tempo prima. Partire per fede, senza avere la prova della verità della Parola di Dio, partire fidandosi.
Non possiamo che fidarci. Oppure non fidarci. L’ufficiale può fidarsi di Gesù oppure può non fidarsi e insistere ancora una volta.
Potrebbe dire a Gesù: ti prego, Signore, scendi a Capernaum, vieni da mio figlio e guariscilo lì, voglio vederti mentre lo guarisci, per essere sicuro che sia tu a guarirlo! Non mi lasciare con questo dubbio per tutte le lunghe ore di cammino che devo fare per ritornare a casa.
Si fiderà o non si fiderà? Avremmo dovuto interrompere la lettura del testo a quel punto, perché noi sappiamo già come va a finire, sappiamo già che si fiderà. E noi ci fidiamo o non ci fidiamo di quella Parola che riceviamo da Gesù ogni domenica e ogni volta che apriamo la Scrittura? Questa è la grande domanda che questo testo ci pone.
Ma il testo non ci pone solo la domanda, ma ci dà anche un esempio: l'ufficiale si fida, parte, da solo, senza Gesù, farà i 26 chilometri del ritorno pieno di speranza – e forse con qualche dubbio, come vedremo tra poco - per andare a vedere se davvero suo figlio è guarito. Dal racconto sappiamo che arriverà l’indomani, quindi c’è anche una notte che separa la fiducia dalla conferma.
Gesù lo ha esaudito, ma non ha voluto andare di persona a Capernaum, non perché non ne avesse voglia, ma perché voleva che l’ufficiale si fidasse, credesse alla sua Parola. Gesù lo porta dalla fede nel miracolo alla fede nella sua Parola. Vuole che creda senza avere prove, proprio come noi.
Il miracolo di guarigione è avvenuto, ma ne avviene in fondo anche un altro, che è la fede dell’ufficiale, fede che non nasce dal miracolo, ma dalla Parola di Gesù.
La conclusione del racconto è molto curiosa: quando l'ufficiale incontra i suoi servi che vengono a dirgli che suo figlio è guarito, chiede a che ora sia avvenuta la guarigione.
L’uomo vuole verificare, che è un atteggiamento molto umano. Il racconto non lo dipinge come un eroe della fede. Prima chiede che Gesù vada a casa sua, poi insiste e richiede di nuovo, infine si fida, ma poi cerca di verificare che le cose siano veramente andate come ha detto Gesù e non sia solo un caso.
Da un lato Giovanni, con questa parte finale del racconto, vuole dimostrare ai suoi lettori che è proprio Gesù che ha guarito il figlio dell’ufficiale. Ma così facendo ci descrive quest’uomo che ha un bisogno di sicurezza molto umano e con questo ci vuol forse anche dire che la fede non esclude mai del tutto il dubbio. Che siamo sempre tutti credenti e allo stesso tempo un po’ increduli.
Forse potremmo anche ritrovare noi stessi in un altro fermo immagine del nostro film, che è questo racconto. Abbiamo detto che ci troviamo nella situazione dell’ufficiale che ascolta la Parola di Gesù e deve fidarsi di questa parola.
Se abbiamo fatto il primo passo della fiducia – e se siamo qui è perché abbiamo creduto alla Parola che Gesù ci ha rivolta – allora non ci troviamo più soltanto nell’immagine dell’ufficiale che ascolta la Parola di Gesù. Ci troviamo anche nell'immagine dell'ufficiale che è partito per andare a casa a vedere il figlio guarito.
Questo cammino è la nostra fede vissuta: abbiamo ascoltato la Parola del Signore e siamo in cammino - ma non per verificare se quello che ha detto è successo davvero - ma siamo in cammino per condividere e testimoniare la gioia della buona notizia che Gesù ci porta.
Andiamo, poi torniamo dal Signore per riascoltare la sua Parola e ripartiamo di nuovo per andare nel mondo a viverla e condividerla. La nostra vita è tutto un andare dalla Parola al mondo e dal mondo alla Parola.
In questo cammino il Signore tollererà i nostri dubbi e le nostre domande, ma ci chiederà di tornare sempre di nuovo a nutrire la nostra fede alla fonte della sua Parola.




domenica 15 gennaio 2017

Predicazione di domenica 15 gennaio 2017 su Giovanni 2,1-12 a cura di Daniel Attinger


Il primo segno di Gesù

Giovanni 2,1-12

letture: Osea 2,21-25; Apocalisse 21,9-14

1 Tre giorni dopo, ci fu una festa nuziale in Cana di Galilea, e c'era la madre di Gesù. 2 E Gesù pure fu invitato con i suoi discepoli alle nozze. 3 Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 Gesù le disse: «Che c'è fra me e te, o donna? L'ora mia non è ancora venuta». 5 Sua madre disse ai servitori: «Fate tutto quel che vi dirà». 6 C'erano là sei recipienti di pietra, del tipo adoperato per la purificazione dei Giudei, i quali contenevano ciascuno due o tre misure. 7 Gesù disse loro: «Riempite d'acqua i recipienti». Ed essi li riempirono fino all'orlo. 8 Poi disse loro: «Adesso attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. 9 Quando il maestro di tavola ebbe assaggiato l'acqua che era diventata vino (egli non ne conosceva la provenienza, ma la sapevano bene i servitori che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: 10 «Ognuno serve prima il vino buono; e quando si è bevuto abbondantemente, il meno buono; tu, invece, hai tenuto il vino buono fino ad ora».
11 Gesù fece questo primo dei suoi segni miracolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.
12 Dopo questo, scese a Capernaum egli con sua madre, con i suoi fratelli e i suoi discepoli, e rimasero là alcuni giorni.


Tradizionalmente, dai primi secoli del cristianesimo, sono stati associati alla festa dell’Epi­fania che avete ricordato domenica scorsa tre misteri, o tre manifestazioni:
– la manifestazione di Cristo al mondo pagano, attraverso l’apparizione della stella e la visita dei magi d’Oriente,
– la manifestazione a Israele, attraverso il battesimo di Gesù da parte di Giovanni Battista e la voce celeste che lo proclama: “mio figlio, amato”,
– e la manifestazione ai discepoli, attraverso il miracolo avvenuto durante le nozze a Cana; quello del dono di un’abbondanza di vino, testo che si conclude, come abbiamo sentito con le parole: “Gesù fece questo primo dei suoi segni in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,12).
Ecco perché ho scelto di centrare la mia predicazione su questo miracolo. Faccio però subito notare che parliamo solitamente del “miracolo di Cana”, mettendo così l’accento sulla straordinarietà dell’evento, e ci chiediamo magari come Gesù abbia fatto per cambiare l’acqua in vino, o addirittura se possiamo credere in un tale miracolo che, per di più, offende la sensibilità degli astemi! L’evangelo di Giovanni però non parla di “miracolo”; usa sempre, per parlare dei prodigi compiuti da Gesù, del termine “segno”. Ora, lo sappiamo, un segno è un indicatore: indica qualcos’altro. È ciò che ricorda un celebre proverbio cinese: “Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito!”. Interrogarci sul come dell’atto di Gesù è fuorviante; dobbiamo invece interrogarci su che cosa questo segno indica. E l’evangelo ce lo rivela subito: indica la “gloria” del Cristo. Ma in che senso questo gesto è portatore di una tale rivelazione?
Senza pretendere di esaurire i significati di questo episodio così ricco di significati che occorrerebbe molto più tempo per scoprirne tutti i sensi, vorrei accennare solo a tre dimensioni particolari di questo evento, che sono anche tre ingredienti della gloria di Cristo.
Anzitutto, questo racconto parla della partecipazione di Gesù a una festa. Cana è oggi una città di circa 20000 abitanti, ma allora era un villaggio forse appena più grande di Nazareth, dal momento che a Cana si disprezzavano i Nazareni: “Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth?” (Gv 1,46) aveva chiesta Natanaele quando Filippo gli aveva parlato di Gesù. Nel villaggio, c’è festa per due giovani che si sono sposati. Come avviene ancora oggi nei villaggi dell’Oriente, quando una famiglia è in festa, tutto il villaggio partecipa alla festa. Così, a questa festa era stata invitata Maria, la madre di Gesù, ma anche Gesù e i suoi discepoli. Il gesto che Gesù compie, su richiesta della madre, di provvedere ad un tratto a fornire un’enorme quantità di vino (si tratta di circa 600 litri di vino!) mostra che Gesù vuole che la festa possa continuare nella gioia; Gesù non viene a guastare le nostre feste con la serietà di colui che annuncia cose importanti. Per lui, oggi, è importante che gli sposi possano far festa con i loro commensali. Poco importa come Gesù abbia potuto cambiare l’acqua in vino: l’importante è l’offerta di un vino a profusione… e di un vino eccellente fino alla fine, perché la festa sia riuscita e la gioia sia piena. In questo Gesù rivela qualcosa della sua gloria: essa consiste nel trovare il modo di ren­dere gli esseri umani felici e gioiosi. Dio non è un guastafeste; Dio si rallegra quando ci vede nella gioia, perché il nostro Dio è un Dio gioioso. Ce lo ricorda quella parabola dei talenti in cui i servi che hanno messo a profitto i beni ricevuti sentono il Signore dichiarare: “Bene, servo buono e fedele … entra nella gioia del tuo Signore!” (Mt 25,21.23). Ecco una dimensione di Dio che noi, protestanti, abbiamo forse un po’ tendenza a dimenticare; rischiamo di prenderci troppo sul serio! Accogliamo quindi questo sorriso di Dio manifestato a Cana: il nostro è un Dio che ama la gioia!
Ma vi è un’altra manifestazione in questo racconto: prima di procedere al dono del vino, Gesù dà ordine ai servitori di riempire di acqua sei recipienti che servivano per la purificazione dei Giudei. Se Giovanni sente il bisogno di precisare che questi recipienti avevano un ruolo cul­tuale, ci dev’essere un motivo. Non si tratta solo di indicare la grandezza di queste giare, dal momento che essa viene specificata: due-tre misure, cioè tra 70 e 100 litri ciascuna. Con il suo gesto Gesù intende dire che ora non c’è più bisogno di acqua per rendersi puri davanti a Dio, l’acqua non serve più; ciò che invece conta è la gioia dei commensali: essa è espressione della purezza che si credeva di ottenere attraverso le abluzioni. Ma quella gioia, non è solo quella provocata dal vino, è invece la gioia che viene dal Cristo: è lui, con la sua presenza, con la sua parola, e le sue azioni … anzi con la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione che ci rende puri e ci permette di stare alla presenza di Dio nella consapevolezza di trovare in lui non un giudice che fa paura, ma un padre ricco di tenerezza.
Ma vi è ancora una terza manifestazione, più difficile da afferrare, ma essenziale al nostro episodio. In Giovanni, Maria, la madre di Gesù, appare solo qui e alla fine dell’evangelo, quan­do Gesù è sulla croce. Questo lascia sottintendere che esista una relazione tra questi due episo­di, tanto più che qui come là, il nome di Maria non è pronunciato, ma si parla solo della “madre di Gesù” e, fatto più notevole ancora, in entrambe le scene Gesù si rivolge alla madre chiaman­dola “Donna!”. “Che c’è fra te e me, o donna?” e, sulla croce, vedendo sua madre e il discepolo amato, Gesù dichiara: “Donna, ecco tuo figlio” (Gv 19,26). Infine, notiamo che è a Cana, du­rante quelle nozze, che Gesù accenna per la prima volta alla sua ora, di cui sappiamo, per il resto dell’evangelo, che è proprio l’ora della croce. Allora quale relazione esiste tra quel matri­monio di Cana e la morte di Cristo sulla croce?
Per comprenderla è importante rilevare che qui Gesù partecipa a un matrimonio, ma stra­namente, non si parla affatto della sposa, e lo sposo è solo appena nominato. In realtà, le due figure importanti dell’episodio sono Gesù e sua madre, come al momento della morte di Gesù. Qui, a Cana, Gesù non si rivolge solo a Maria chiamandola “donna”, cosa tutto sommato piut­tosto strana sulle labbra di un figlio, ma Gesù sembra anche non riconoscere alcun legame fa­miliare con Maria: “Che c’è fra te e me?”. Sembra che attraverso questo procedimento l’evan­gelista intenda innescare un discorso simbolico, come se dicesse: Non fermatevi alla relazione madre-figlio; guardate piuttosto a quell’altra relazione: quella che esiste tra l’Uomo – quello ve­ramente autentico, come Dio lo vuole: Gesù – e la Donna – quella che Dio cerca fin da princi­pio per farne la sua Sposa: quella di cui parla Dio nella profezie di Osea che abbiamo ascoltato, quella di cui parla anche l’altro testo che abbiamo letto nell’Apocalisse –.
Ebbene, proprio questo sposalizio avviene sul Golgota; è là che l’Uomo – così Pilato ha presentato Gesù alla folla: “Ecco l’Uomo!” (Gv 19,5) –, il nuovo Adamo si unisce alla Donna-madre, la nuova Eva; e da questa unione nasce il primo figlio, il discepolo amato: “Donna, ecco tuo figlio!”, che è figura di ogni cristiano. Certamente, la croce rimane un orrido supplizio, ma nella fede Giovanni ha saputo vedervi la sorgente da cui nasce la Chiesa, la Sposa dell’Agnello. E noi, figli di queste nozze, diventiamo in questo modo parte della gloria stessa di Cristo!
Allora, nonostante la nostra debolezza e piccolezza, non cessiamo di rendere grazie a Dio e al Figlio suo che ci ha amati fino a dare per noi la sua vita. A Lui, lode e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.

lunedì 9 gennaio 2017

Predicazione di domenica 8 gennaio 2017 su Matteo 2,1-12 (Culto dell'Epifania) a cura di Massimiliano Zegna

Matteo 2,1-12
 
1 Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode. Dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: 2 «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo».
3 Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. 4 Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere. 5 Essi gli dissero: «In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta:
6 "E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda;
perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele"».
7 Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa; 8 e, mandandoli a Betlemme, disse loro: «Andate e chiedete informazioni precise sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, affinché anch'io vada ad adorarlo».
9 Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra. 10 Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia. 11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. 12 Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un'altra via.

Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode. Dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo».
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere. Essi gli dissero: «In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta:
"E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda;
perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele
"».
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa; e, mandandoli a Betlemme, disse loro: «Andate e chiedete informazioni precise sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, affinché anch'io vada ad adorarlo».
Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra. Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un'altra via.

L'arrivo dei Magi nel brano dell'Evangelo di Matteo è una pagina stupenda che ha dato origine a interpretazioni belle e fantasiose. In essa sono racchiuse molte ed importanti vicende che meglio fanno comprendere la storia di Gesù Cristo dal momento della nascita fino a quella che è chiamata l'Epifania ossia la manifestazione alle genti, a tutto il mondo della venuta del figlio di Dio.
Essendo la data dell'Epifania il 6 gennaio che si è celebrata quest'anno venerdì scorso, dopo essermi consultato con il pastore Marco Gisola, ho pensato di ricordare questo avvenimento nella domenica successiva, ossia oggi 8 gennaio, utilizzando le letture proposte da “Un giorno, una parola” appunto di venerdì scorso del lezionario comune riveduto che è una raccolta di testi per il culto compilati negli Stati Uniti da un comitato ecumenico di cui fanno parte protestanti e cattolici e adottato ufficialmente dalle principali denominazioni protestanti di tutto il mondo.
Del resto la questione delle date è abbastanza relativa in quanto la vera nascita di Gesù secondo studi più approfonditi storicamente risale tra il 7 e il 5 avanti Cristo, anche perché lo stesso regno di Erode il grande avviene tra il 37 e il 4 avanti Cristo. Anche la stessa data del 25 dicembre per la nascita di Gesù è stata stabilita in tempi successivi e così nel mondo occidentale si è deciso per convenzione di celebrarlo in questa data mentre da parte dei cristiani ortodossi si celebra il 6 gennaio per la nascita di Gesù e in tempi successivi per l'Epifania (quest'anno è il 19 gennaio). A noi non importa però verificare le date esatte in quanto la nostra lettura dei Vangeli si basa su criteri che vanno al di là degli avvenimenti storici.
Il fatto che Gesù nacque a Betlemme è frutto della profezia di Michea che nel capitolo 5 ai versetti da 1 a 4 si legge: “Ma da te, o Betlemme, Efrata, piccola per essere tra le migliaia di Giuda, da te mi uscirà dominatore in Israele, le cui origini risalgono ai tempi antichi, ai giorni eterni. Perciò egli li darà in mano ai loro nemici, fino al tempo in cui colei che deve partorire, partorirà; e il resto dei suoi fratelli tornerà a raggiungere i figli di Israele. Egli starà là e pascolerà il suo gregge con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. E quelli abiteranno in pace, perché allora egli sarà grande fino all'estremità della terra. Sarà lui che porterà la pace".
Dalle parole di Matteo che richiama quelle del profeta Michea è richiamato il primo segnale di umiltà che si esprime in Gesù Cristo. Non nascere in una grande città, come poteva essere per un re, ma nella mangiatoia di un piccolo paese come poteva essere per un pastore. Eppure allora che non c'erano i moderni mezzi di comunicazione per cui un avvenimento così grande sarebbe stato diramato in tutto il mondo dalle televisioni, dai giornali, da internet vi era però una stella e dei messaggeri importanti.
La stella può essere visibile da tutto il nostro pianeta e non solo e i Magi arrivavano dall'oriente probabilmente dalla Mesopotamia, dall'Iraq ed erano dei Magi, degli scienziati, degli astronomi che scrutavano il cielo con i mezzi di allora. Hanno visto comunque un segnale importante che era un segnale rivolto appunto non solo alla gente che viveva nei territori di Giuda e di Israele ma a tutte le genti del pianeta, e come diceva il profeta Michea “egli sarà grande fino all'estremità della terra”.
Questo avvenimento provoca turbamento in Erode che era il potente dell'epoca chiamato appunto il Grande.
Quindi anche Erode conosceva il passo biblico in cui si dice che da Betlemme uscirà dominatore in Israele, grande fino all'estremità della terra.
Ecco due atteggiamenti contrapposti nei confronti della nascita di Gesù: da un lato i Magi quando videro la stella si rallegrarono di grandissima gioia e partirono dall'Oriente per andare ad adorarlo e a porgere i loro doni; dall'altro Erode che quando seppe della nascita di un bimbo che temeva potesse diventare suo rivale nel regno decise di fare strage di tutti i bimbi che erano nati in quel periodo.
Ma i Magi ebbero un sogno premonitore e non tornarono da Erode per informarlo su dove si trovava il bimbo che avevano visto.
Un altro importante segnale per comprendere la venuta dei Magi e l'epifania di Gesù è il versetto 4 del capitolo 60 del profeta Isaia in cui si legge: “Alza gli occhi e guardati attorno: tutti si radunano e vengono da te; i tuoi figli giungono da lontano, arrivano le tue figlie, portate in braccio”.
Nell'Evangelo di Luca l'annuncio della nascita di Gesù avviene in un modo diverso ma altrettanto significativo: in Matteo vi sono i Magi che partono da Oriente e giungono fino a Betlemme, in Luca vi sono i pastori.
Desidero leggere i passi dell'Evangelo di Luca che riguardano la nascita di Gesù al capitolo 2 versetti 8 – 20
In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia"».
E a un tratto vi fu con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch'egli gradisce!»
Quando gli angeli se ne furono andati verso il cielo, i pastori dicevano tra di loro: «Andiamo fino a Betlemme e vediamo ciò che è avvenuto, e che il Signore ci ha fatto sapere». Andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia; e, vedutolo, divulgarono quello che era stato loro detto di quel bambino. E tutti quelli che li udirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori. Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo. E i pastori tornarono indietro, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato loro annunciato”.
Ed ora vorrei, come faccio solitamente, leggere un brano di una predicazione sul testo di Matteo che il pastore Salvatore Ricciardi aveva fatto
Gli scienziati venuti dall’Oriente. racconta Matteo, si inginocchiano davanti a Gesù, e lo adorano. Mettono ai piedi di Gesù la loro scienza, e poi ripartono. Tornano ai loro paesi, alle loro pergamene, ai loro cannocchiali, alle loro osservazioni, ai loro calcoli. Resta però difficile pensare che, dopo aver riconosciuto nel bambino di Betlemme il re dell’universo, e dopo averlo adorato, essi possano ancora conservare una visione assolutamente sacrale, idolatrica, della loro scienza. Essi hanno compreso che tutto va sottoposto al potere di quel bambino che è il Signore, che è il criterio, il metro di giudizio della scienza e di tutto quel che accade nel mondo. I Magi trovano in Gesù, e solo in lui, il senso, e forse anche il limite della loro ricerca. Non voglio dire che la sottomissione a Gesù debba costituire una limitazione alla cultura. Voglio dire che in Gesù va scoperta una cultura del limite e che con l’inerme Gesù, che da adulto si è voluto assimilare ai più deboli del mondo, va confrontato ogni delirio di onnipotenza.
I Magi ci fanno pensare che la scienza può (e spesso non è) neutrale, ma corre il rischio di essere asservita al potente di turno, politico o religioso che sia. Essi sono rimasti però uomini liberi, perché hanno trovato in Gesù, e in lui soltanto, il metro della loro vita e della loro ricerca. Ci dia il Signore di comprendere il senso della loro scelta”
Che cosa rappresentava allora la stella apparsa sopra i cieli che hanno portato i Magi e i pastori a Betlemme. Questa stella è l'Evangelo che ancora oggi conserva la sua validità e la sua indicazione di pace e di fratellanza. Oggi è un messaggio che è ancora molto lontano e quasi impossibile. Spesso ci chiediamo. Come possiamo influire noi piccoli esseri umani nei confronti dei potenti della terra che per dimostrare la loro potenza si misurano in base alle guerre che stanno provocando.
Quanti bimbi innocenti come quelli sterminati da Erode dovranno morire per far terminare gli odi e la sete di potere?
Probabilmente ci vorranno ancora molti anni, ci vorranno ancora molte lacrime in tutto il mondo dove si combatte ma fino a quando vi saranno persone come noi in questa piccola chiesa che si riuniranno per adorare il Signore, che ha voluto dimostrarci che si può essere grandi ed umili contemporaneamente, la speranza ci sarà. A volte sembrerà un lumicino ma non dobbiamo perderci d'animo perché questo lumicino può diventare una fiaccola più grande se sapremo, come avviene nelle gare di staffetta, consegnarlo ad altre persone. Grazie Signore per avere la forza di trasmettere questo messaggio dell'Evangelo. Amen




mercoledì 4 gennaio 2017

messaggio di apertura della marcia della pace Biella-Oropa del 31 dicembre a cura di Marco Gisola

I messaggi rivolti ai partecipanti alla marcia della pace Biella-Oropa del 31 dicembre 2016 (uno all'apertura e due nelle due tappe della marcia) sono stati curati dal gruppo ecumenico che ha preparato la giornata ecumenica per il creato nel mese di settembre. Il messaggio di apertura è stato a cura del past. Marco Gisola. Poiché il tema della giornata era la nonviolenza, il testo scelto è stata la parola di Gesù sull'amore per i nemici, tratta dal Sermone sul monte.


Matteo 5,43-48
Voi avete udito che fu detto: "Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste.


Amate i vostri nemici”: Queste parole di Gesù non sono un invito a un ingenuo buonismo. Queste parole di Gesù sono un invito alla conversione, nel senso letterale del termine “conversione”, e cioè: cambiamento di mentalità.
Gesù invitando all’amore per i nemici, vuole che eliminiamo dalla nostra mente e dal nostro cuore l’idea, il concetto di “nemico”.
La storia ci insegna che per intraprendere una guerra, un attacco o un aggressione bisogna prima che chi vuole fare la guerra, chi vuole attaccare o aggredire qualcuno si convinca che quel qualcuno sia un suo nemico. Prima si costruisce l’idea del nemico e poi, allora, si può fare la guerra, perché c’è un nemico da combattere. È accaduto così con gli ebrei: prima di arrivare alla tragedia della Shoah nel secolo scorso, si è costruita per secoli l’idea che essi fossero dei nemici, che per l’ideologia nazifascista sono diventati “i nemici” per eccellenza. È accaduto così migliaia di volte nella storia e accade ancora oggi.
Spesso c’è anche una tappa intermedia: prima di indicare una persona o un gruppo di persone come “nemico” o “nemici”, li si bolla spesso come “diversi”, cosicché l’essere “diverso” è la prima tappa sulla strada per diventare un “nemico”. Il diverso è un potenziale nemico, e quindi dall’essere “diverso” all’essere “nemico” il passo è breve.
Gesù dice “Amate i vostri nemici”. Che cosa vuole dirci Gesù con queste parole? A mio parere, non vuole parlare ai nostri sentimenti, non dobbiamo intendere “odio” e “amore” come sentimenti. Dobbiamo piuttosto intenderli come modi di vedere il prossimo, per questo ho usato la parola conversione: Posso vedere il mio prossimo appunto come un nemico – o come un diverso, che come dicevamo è un potenziale nemico – oppure no.
La strada che Gesù ci indica è quella di non guardare all'altro, al prossimo come a un nemico; e non è solo la strada che Gesù ci indica, ma è la strada che Gesù ha praticato, non considerando nemici nemmeno coloro che lo stavano uccidendo.
Ma, ripeto, non è ingenuo buonismo. Gesù sa che esistono persone giuste e persone ingiuste, azioni giuste e azioni ingiuste. Infatti dice che Dio “fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”, dunque è chiaro che vi sono malvagi e buoni, giusti e ingiusti.
Vi sono azioni e idee che vanno condannate, perché contrarie all’evangelo. Ma condannare un’azione (per esempio il recente attentato di Berlino) è ben diverso dall’usare questo evento tragico per costruirsi l’idea di un nemico (per esempio: i musulmani sono nostri nemici).
Inoltre, la Parola di Dio ci insegna a distinguere tra il peccato e il peccatore. Questa distinzione ci aiuta a evitare di costruirci troppo facilmente l’idea del nemico.
Scegliere di non vedere il prossimo come un nemico è il primo passo verso una mentalità nonviolenta. La nonviolenza non è rinunciare a rivendicare i propri diritti, tutt'altro: è un metodo (ed è prima di tutto appunto una mentalità, un modo di vedere il prossimo) che intende rivendicare i propri diritti attraverso metodi che non usano la violenza, cioè che non mirano a distruggere l’altro perché non lo considerano un nemico.
In realtà, l’obiettivo che ci propone la Parola di Dio va ancora oltre, perché l’obiettivo è la riconciliazione, ovvero la pace. Cristo è morto e risorto perché noi fossimo riconciliati con Dio e chiede a noi di essere ministri di riconciliazione tra gli esseri umani (2 Corinzi 5).
È un obiettivo molto alto, che non sempre si raggiunge, o forse raramente si raggiunge, ma che da cristiani non possiamo non tentare di raggiungere: la riconciliazione, ovvero trasformare i nemici in amici.
L’amore per il nemico, ovvero iniziare noi stessi, noi per primi, a non considerarlo più un nemico, è il primo passo per trasformarlo in amico. Obiettivo molto difficile, lo so. Ma è l’obiettivo di Dio. E Gesù ci chiede: “siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste”, ovvero ci chiede di volere ciò che Dio vuole, di fare nostri gli obiettivi di Dio. Gesù sa che ci sta chiedendo una cosa difficile. Ma sa anche che è proprio di questo che abbiamo bisogno per vivere bene e per vivere in pace.

martedì 3 gennaio 2017

Predicazione di domenica 1 gennaio 2017 su Colossesi 3,12-17 a cura di Marco Gisola

Colossesi 3,12-17
Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose rivestitevi dell'amore che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti.La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l'impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.


Queste parole di Paolo si trovano quasi alla fine della sua lettera ai Colossesi, sono quindi una delle ultime cose che l’apostolo scrive a questa comunità. È, come avete sentito, una serie di esortazioni, di indicazioni che l’apostolo dà alla sua chiesa.
Vorrei dividere in tre parti questo brano per vedere insieme a voi che cosa Paolo dice alla chiesa di Colosse; potremmo dire: che cosa Paolo chiede ai Colossesi di fare o di essere per essere insieme una chiesa, cioè un luogo dove l’evangelo è ascoltato e vissuto.

1. la prima indicazione è di rivestirsi “di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza”, di “sopportarsi” gli uni gli altri e “perdonarsi” a vicenda. E ancora, scrive Paolo, “al di sopra di tutte queste cose rivestitevi dell'amore che è il vincolo della perfezione”.
Non sono solo esortazioni a comportarsi bene o a essere buoni. L’apostolo chiede alla sua comunità, in pratica, di comportarsi come si è comportato Gesù.
A prima vista sembrano saggi consigli molto umani, quelli che Paolo dà qui alla sua comunità. In effetti, chiunque potrebbe consigliare ad altri di vivere con misericordia, con benevolenza, con umiltà, con mansuetudine, con pazienza, chiunque potrebbe invitare a vivere sopportandosi gli uni gli altri e perdonandosi a vicenda.
Ma non possiamo non leggere queste parole senza Gesù, come del resto emerge subito dopo. Non sono virtù umane quelle che consiglia l’apostolo, ma invita la comunità a vivere le relazioni al suo interno nel modo in cui Gesù ha vissuto le relazioni con le persone che ha incontrato.
Sono dunque le relazioni, quelle di cui Paolo si preoccupa in questa lettera. Paolo sa che la chiesa nasce dall’ascolto della Parola e nasce e vive per opera dello Spirito Santo,
ma sa anche che la Parola e lo Spirito creano relazioni di fraternità nella chiesa, che non è un’associazione culturale o ricreativa (per quanto bene facciano le associazioni culturali e ricreative nella nostra società...)
La chiesa non dipende dalla nostra bontà o dalla nostra buona volontà, dipende dalla Parola che lo Spirito ci aiuta ad ascoltare e a vivere. Ma ascoltare insieme la Parola e l’azione dello Spirito sulla comunità, crea relazioni comunitarie, che a noi è chiesto di coltivare.
Queste relazioni tra noi, che non ci siamo scelti, che siamo tutti diversi e diverse, che abbiamo su molte cose opinioni e posizioni diverse, queste relazioni tra noi sono un dono che il Signore ci fa e che ci è chiesto di coltivare attraverso la pratica della misericordia, della benevolenza, dell’umiltà, della mansuetudine, della pazienza, qualche volta anche della sopportazione e sempre attraverso la pratica del perdono e sopratutto, come dice Paolo, l’amore.
Dobbiamo anche essere consapevoli che – oggi più di ieri - queste relazioni sono la prima testimonianza che diamo della nostra fede. Se qualcuno dovesse voler provare a fare un pezzo di strada con noi e non trovasse buone relazioni tra di noi, potrebbe anche trovare l’apostolo Paolo in persona a predicare da questo pulpito, potrebbe anche trovare i migliori biblisti a tenere gli studi biblici, ma se non trovasse l’amore e tutte le altre cose che Paolo elenca, probabilmente se ne andrebbe in fretta altrove.


2. La seconda indicazione è al v. 16. Paolo scrive: La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente. Poiché non è la nostra buona volontà che fa la chiesa, abbiamo bisogno di ascoltare abbondantemente la Parola di Cristo, che è in grado di convertire la nostra volontà e orientarla verso la volontà di Dio.
Senza Parola non c’è la chiesa. Se è vero quello che dicevo poco fa, che oggi le persone desiderano andare a pregare in luoghi dove sono ben accolte, dove c’è un clima caloroso e fraterno e non dove si litiga sempre, è vero anche che non bastano le buone relazioni per fare la chiesa.
Ci possono essere relazioni fondate sull’amore e sull’aiuto reciproco in un gruppo di amici, nell’associazione di volontariato o nel gruppo di trekking del CAI, ottime relazioni che non fanno ovviamente di questi gruppi una chiesa.
La chiesa c’è dove c’è la Parola. Ce lo ha insegnato la Riforma, che in questo 2017 che oggi inizia ricorderemo molte volte. Come qualunque essere vivente ha bisogno di acqua per vivere, la chiesa per vivere ha bisogno della Parola, altrimenti muore.
Se una chiesa fosse ricca di riti molto coinvolgenti, ricca di cultura e ricca di impegno sociale, ma fosse povera della parola di Dio, sarebbe una chiesa più di nome che di fatto. Se invece una chiesa è ricca della Parola ascoltata, meditata e pregata e questa Parola genera voglia di conoscere, e quindi cultura, genera riti ricchi della Parola stessa e di risposta alla Parola nella preghiera, genera forza e entusiasmo per dare la propria testimonianza nella società in cui si vive, allora sì che sarebbe chiesa di nome e di fatto.
Da anni diciamo che la nostra chiesa è in crisi e forse nessuno ha la ricetta giusta per uscire dalla crisi. Nemmeno io, ovviamente, ma sono persuaso che non ne usciremo puntando di meno sulla Parola, ma ne usciremo, forse, solo mettendo sempre di più la Parola al centro della nostra vita di chiesa e di singoli. Non con meno Parola, ma solo con più Parola possiamo sperare di avere un futuro.


3. E infine c’è l’ultimo versetto, il versetto della domenica: Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.
Qualunque cosa facciate…, fate ogni cosa… L'apostolo è convinto che Gesù – per dirla con parole molto terra terra – c’entri in tutto ciò che facciamo e diciamo: “parole o opere...”.
La venuta di Gesù, che abbiamo celebrato a Natale, mette fine alla più grande tentazione della religione: relegare Dio nelle cose della religione, nelle cose di chiesa, nelle mura della chiesa.
Tentazione presente in ognuno di noi, perché tutti noi siamo tentati dall’idea che vi sono cose, vi sono ambiti in cui Dio non c’entra. Che cosa c'entra Dio quando faccio la spesa, quando devo chiamare un idraulico perché il rubinetto perde o nell’assemblea condominiale?
L'apostolo ci dice che Gesù c’entra anche lì, perché in tutto ciò che facciamo possiamo vivere quelli che l’apostolo chiamava i “sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza”… di sopportazione e perdonando, oppure no, oppure lasciar prevalere l’egoismo, la rabbia e l'orgoglio.
In ogni cosa che faccio – dalla spesa all’assemblea condominiale – posso far prevalere sentimenti di giustizia e la ricerca della pace, oppure fregarmene degli altri e pensare solo a me stesso.
Fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù” possiamo interpretarlo come: fate ogni cosa secondo la volontà di Gesù, fate ogni cosa come la farebbe Gesù.
Ogni cosa che fai e che dici, guarda il prossimo che hai davanti come colui per cui Gesù è nato, è vissuto ed è morto e risorto. Il prossimo che hai davanti – chiunque egli o ella sia – non è nulla di meno di questo: colui o colei per cui Cristo è morto e risorto.
Questo è il nostro culto quotidiano, questo è il nostro adorare e celebrare il Signore: rivedere nel prossimo colui o colei per il quale Cristo è morto. In questo modo Gesù è presente in tutto ciò che facciamo. Nel prossimo che grazie a Gesù diventa nostro fratello, nostra sorella, perché Cristo è venuto ed è morto ed è risuscitato per lui o per lui tanto quanto per me.
Nel nome del Signore Gesù” non vuol dire che dobbiamo nominare Gesù in ogni cosa che facciamo. Vuol dire che dobbiamo ricordarci che Gesù c’entra con qualunque persona veniamo in relazione.
Di questo dobbiamo essere grati. L’apostolo due volte parla di ringraziamento in questo brano, anche nell’ultima frase che abbiamo appena commentato: “fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù ringraziando Dio Padre per mezzo di lui”.
Fai ogni cosa nel nome di Gesù, ringraziando, ci dice Paolo. Possiamo essere riconoscenti per i molti doni di Dio, riconoscenti per i fratelli e le sorelle che il Signore ci mette accanto, riconoscenti che in Gesù riceviamo un senso e uno scopo per la nostra esistenza. Senza riconoscenza la nostra vita è povera di gioia.
Che il Signore ci aiuti a vivere questo anno che si apre oggi, curando le relazioni tra di noi e con il nostro prossimo, facendo abitare abbondantemente la Parola di Cristo tra di noi, facendo ogni cosa nel nome del Signore Gesù che è sempre presente nel suo Spirito e nel nostro prossimo.
E ringraziando Dio che ci ha donato tutto questo.