lunedì 28 ottobre 2019

Predicazione di domenica 27 ottobre 2019 su Matteo 14,22-33 a cura del predicatore locale Giuseppe Sgroi

Matteo 14,22-33
22 Subito dopo, Gesù obbligò i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, mentre egli avrebbe congedato la gente. 23 Dopo aver congedato la folla, si ritirò in disparte sul monte a pregare. E, venuta la sera, se ne stava lassù tutto solo. 24 Frattanto la barca, già di molti stadi lontana da terra, era sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. 25 Ma alla quarta vigilia della notte, Gesù andò verso di loro, camminando sul mare. 26 E i discepoli, vedendolo camminare sul mare, si turbarono e dissero: «È un fantasma!» E dalla paura gridarono. 27 Ma subito Gesù parlò loro e disse: «Coraggio, sono io; non abbiate paura!» 28 Pietro gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire da te sull'acqua». 29 Egli disse: «Vieni!» E Pietro, sceso dalla barca, camminò sull'acqua e andò verso Gesù. 30 Ma, vedendo il vento, ebbe paura e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!» 31 Subito Gesù, stesa la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» 32 E, quando furono saliti sulla barca, il vento si calmò. 33 Allora quelli che erano nella barca lo adorarono, dicendo: «Veramente tu sei Figlio di Dio!»


Tu sei veramente il Figlio di Dio
Questa è la frase che era alla base del credo della chiesa delle origini…. e chiaramente anche della chiesa di oggi.
Ma proprio nell’oggi che viviamo, questo tipo di confessione di fede non è facilmente comprensibile da tutti e quindi anche la sua accettazione crea, alcune volte dei problemi, per differenti ragioni che però appaiono logicamente valide
Un giorno un uomo si reca dal suo barbiere come tutti i mesi. I due uomini si conoscono da molto tempo. Durante il lavoro del barbiere, l’uomo che aveva con sé una bibbia, leggeva. Il barbiere non gli disse nulla, lo lasciò nella sua lettura e continuò il suo lavoro. Una volta finito, l’uomo pagò come sempre; a quel momento, il barbiere gli disse: “ho visto che mentre io ti tagliavo i capelli, tu leggevi la bibbia; beh volevo dirti che io non credo e non potrò mai credere ad un dio e nemmeno al Dio biblico. Si perché – continuò il barbiere – se Dio esistesse veramente, allora il male che vediamo tutti i giorni nel mondo non esisterebbe, né le malattie, né le guerre, né la cattiveria, né la morte né il dolore.
No! Dio non esiste!
L’uomo non seppe rispondere a questa posizione così chiara, franca, netta; lo salutò e si avviò verso l’uscita. Uscendo però, sul marciapiede davanti la porta d’ingresso al salone del barbiere, c’era un ragazzo, uno di quelli girovaghi e un po’ barboni, con una chitarra e un piattino per raccogliere gli spiccioli; aveva i capelli lunghi, barba lunga e incolta.
L’uomo si fermò un istante e poi chiese al ragazzo di entrare con lui nel salone del barbiere, solo alcuni istanti.
Stranamente il ragazzo accettò e così entrarono. A quel punto l’uomo disse al barbiere: “sai amico mio, i barbieri non esistono!” La risposta del barbiere fu attonita ma anche secca: “Impossibile, i barbieri esistono, io sono un barbiere e sono qui in carne e ossa e tu sei nel mio salone”.
No” – rispose l’uomo – “il fatto che tu sia qui e che questo sia un salone da barbiere, non vuole assolutamente dire che i barbieri esistano. No! I barbieri non esistono, perché se esistessero non ci sarebbero delle persone come questo giovane con i capelli lunghi e la barba incolta”
A quel punto il barbiere rispose: “questo non vuol dire che i barbieri non esistano ma semplicemente, sono le persone come questo ragazzo che non vengono da noi.
Ecco” - rispose l’uomo – “per quanto riguarda Dio è la stessa cosa: non è Lui che non esiste ma sono gli uomini che non si rivolgono a Lui”!
Questa storiella semplifica molto e se si vuole, banalizza certe domande aperte, pensieri, argomenti seri che riguardano Dio e la sfera del divino.
Ma la frase “Tu sei veramente il Figlio di Dio” ritorna indirettamente in questo discorso.
Esattamente come ritorna la questione dell’esistenza di Dio tout court.
È anche vero che molte persone (anche se non si può generalizzare ovviamente), nominano Dio solo nei momenti di difficoltà peggiori. Viene nominato solo quando il fragore della tempesta della vita è veramente forte, quando le avversità sono significative, quando le ondate arrivano ad inondare la vita, ad affondare l’esistenza.
Nella maggior parte dei casi quindi, Dio è il tappabuchi dell’esistenza umana.
Spesso dunque, le persone, uomini e donne, credenti compresi, noi ci si ritrova quasi come il racconto dei discepoli nella loro navicella.
Occorre dire che i vangeli e generalmente tutti gli scritti neotestamentari, erano indirizzati a dei lettori cristiani e quindi la chiesa nel suo complesso, era la destinataria verso la quale anche questo vangelo era inizialmente indirizzato.
Infatti, in questo testo la barca è stata individuata, durante tutta la storia del cristianesimo, alcune volte come il simbolo della chiesa, della sua vita e delle sue difficoltà, altre volte come simbolo della vita spirituale dell’uomo, della donna, dell’umanità insomma.
Leggendo questo racconto che si trova anche nell’evangelo di Marco, anche se con accenti differenti, non è la prima volta che i discepoli si ritrovano in mezzo ad una tempesta; già al capitolo 8 di questo stesso Vangelo è raccontato dei discepoli sulla loro navicella, nella loro piccola barca sballottati dalle onde e dai venti e il Maestro con loro ma dormiente; nel testo odierno invece, il Maestro è assente.
In ambedue i casi, Gesù era inattivo. Non faceva nulla oppure non era con loro.
In questo passaggio, Gesù dice ai suoi discepoli, di passare all’altra riva; Lui personalmente avrebbe congedato le folle, in modo da poter riservare un piccolo spazio tutto per sé, per salire sul monte e pregare in disparte.
Un’immagine molto romantica se si vuole, qualcuno potrebbe dire spirituale, io direi importante in quanto la sua assenza e la sua riapparizione in maniera sbalorditiva, è di fatto l’obiettivo di questo racconto.
È proprio nell’assenza che i discepoli sperimentano il bisogno e nel suo ritorno sulla scena, con la sua voce rassicurante, che possono realizzare le proprie speranze.
Ed è proprio ciò che i discepoli avrebbero dovuto provare, ma il racconto ci dice che non andò esattamente così
Al capitolo 8 la scena è simile: anche in quel caso viene raccontato che c’è una forte tempesta; nel testo greco quando si trova la parola tradotta con “tempesta” è invece “sisma”. Tempesta e sisma, terremoto divengono sinonimi d’avversità. I nostri concittadini del centro Italia ne sanno qualcosa in proposito.
Questo terremoto arriva quando nessuno ci pensa, quando le vite scorrono felicemente o se non vogliamo esagerare, scorrono tranquillamente.
Ed ecco, ad un bel momento, quando non né attesa né prevista, la tempesta arriva, le onde sono forti, un terremoto che distrugge tutto ciò che c’è intorno a noi, e in noi anche. E allora, si cerca di reagire, di resistere alle ondate impetuose, ai venti contrari, ai terremoti dell’anima. Ed è esattamente la stessa cosa che i discepoli stavano cercando di fare in quei momenti dove tutto appariva compromesso.
E quando il Maestro appare, per loro non è che un fantasma, si un fantasma.
Invece di essere contenti di vederlo, al contrario, ebbero paura, un’ulteriore paura, sommata alla paura della tempesta: lo vedevano camminare sulla acque, sulle onde che non lo affondavano…. “non è possibile, è sicuramente un fantasma! Non può essere Lui! No! ”
Non serve a nulla sentire la sua voce familiare che li rassicura: “non abbiate paura, sono io”
Sono io” dice Gesù messo in evidenza come l’“Io Sono” dei testi veterotestamentari, del tetragramma ebraico del nome divino, sinonimo dunque di potenza e di forza.
La risposta di Pietro è altrettanto sbalorditiva: “Signore se sei tu, allora ordinami di camminare sulle acque e di venire verso di te come se niente fosse, come se le onde non esistessero. Perché se tu me lo dici allora vuol dire che ciò è veramente possibile, perché mi ricordo di te, quando hai calmato i venti e le acque quando noi ti abbiamo svegliato durante la tempesta nel mentre che tu dormivi. Quindi se tu me lo dici allora vuol dire che posso farlo!”. Questo è ciò che Pietro richiede.
Quante volte abbiamo sentito e sentiamo richieste dello stesso tenore, non importa se a farle siano dei credenti oppure no.
Quante volte l’evidenza è trasformata in un fantasma dagli occhi e anche dalla volontà di non voler vedere la realtà.
Quante volte questa realtà è dura da guardare in tutto il suo peso.
Quante volte questo peso fa sì che richiediamo delle prove di fede estreme.
Come abbiamo detto, secondo molti commentatori, soprattutto cattolici, la barca è il simbolo della chiesa, una chiesa che è sballottata.
Si, se pensiamo a tutti quei posti del mondo dove i cristiani vivono delle difficoltà reali, delle limitazioni alla propria libertà di celebrare il proprio culto, si! È così. La navicella è la chiesa.
Oppure laddove la chiesa ha una voce molto flebile nella denuncia delle ingiustizie umane, si! Questa piccola barca è la chiesa.
O ancora, laddove nelle situazioni opposte, si ritrova d’accordo con il governo del proprio paese che intende o addirittura costruisce muri di filo spinato, e non importa se ciò blocca il passaggio di disperati, così come accade in Ungheria, dove delle personalità ecclesiastiche di alto rilievo, si dicono d’accordo con la politica di chiusura del proprio governo, si! Anche in questo caso quella navicella è la chiesa!
E allora questa chiesa, come la navicella, è sbattuta dai venti contrari ai quali non è capace d’opporsi e il Maestro non appare che come un fantasma e la sua voce non è più riconosciuta.
Gesù disse: “non abbiate paura sono io”! E ancora oggi questo messaggio è reale, come se Gesù ancora oggi ci dicesse di persona: “state tranquilli, fratelli e sorelle, amici miei, le mie braccia sono aperte, le mie mani sono pronte ad aiutarvi. Stai tranquilla cara chiesa, perché laddove ci sono coloro che lavorano per il proprio prossimo, io sono lì con loro con le mie mani sempre operanti e le mie braccia accoglienti”.
Ma ritornando al nostro racconto, c’è Pietro. È sempre il primo a parlare, esprime spesso ciò che gli altri non sanno esprimere o forse è solo la sua impulsività che lo fa parlare.
Il dubbio di Pietro è chiaramente espresso nella frase “se sei tu”…. Si perché è difficile, nel bel mezzo della tempesta, del terremoto, di riconoscere il Maestro o come abbiamo detto, la sua voce; perché il dubbio è molto forte…. “e se non fosse lui? E se si trattasse veramente di un fantasma”?
E allora questo “se sei tu” diventa l’inizio, l’introduzione ad una relazione, un dubbio che non si risolve ma che prospetta una soluzione nell’invito di Gesù “vieni”!
Vieni perché sono qui, vieni perché sono pronto ad aiutarti, vieni perché stai ascoltando la mia voce rassicurante, vieni perché sono io che te lo dico”.
Non sono quindi le acque calme o agitate che possono fare la differenza. E in effetti, Pietro era illogico nelle sue paure; non è possibile per un essere umano di camminare sulle delle acque calme come sul mare agitato, e quindi questo “se sei tu” può essere compreso solo in un quadro di fede dove l’anima da un lato domanda per risolvere i propri problemi e dall’altro lato, accoglie la soluzione proposta dal Maestro che ritroviamo nell’invito “vieni”!
Pietro individualmente quindi, presenta questa fede che, abbandonando la comodità terrestre della navicella, va all’incontro di Gesù, Pietro cammina sull’acqua – impresa ardita – ma basata sulla parola di Gesù: “vieni”!
Non ci sono appoggi, non c’è alcuna possibilità di camminare, l’uomo in quanto tale affonda per il fatto stesso di trovarsi in una simile situazione e posizione.
D’altronde la tempesta non cambia nulla: chi affonda, affonda sia che l’acqua sia calma, sia che l’acqua sia agitata, sia nella bella giornata come nella tempesta.
Dunque niente lo può sostenere sulle acque, salvo che la parola di Gesù: “vieni”!
E anche se per la forza di questa parola Pietro fa una cosa eccezionale, cammina sull’acqua, le circostanze gli fanno perdere di vista quello che è lo scopo. Allora affonda, la parola “vieni”, diventa nuovamente una parola lontana. Ed ecco il grido: “Signore salvami!”.
Gesù, il Maestro, quello al quale ha chiesto la salvezza, ritorna al centro ma ancora una volta come tappabuchi.
Bonhoeffer in una delle sue lettere scritte dal carcere disse:
mi piacerebbe parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nella debolezza ma nella forza, non in relazione alla morte e al dolore ma nella vita e nel benessere dell’uomo”.
Molte volte si parla di Dio in relazione allo sconforto, alla tristezza, alle difficoltà, come la soluzione di ogni problema; ma altrettanto spesso coloro che ci ascoltano, sono toccati da questi problemi; non è facile per costoro credere esattamente come il barbiere della nostra storiella.
Forse occorrerebbe parlare di Dio non come la soluzione dei problemi ma come la base della gioia; non come l’obbligo di cambiamento ma come la possibilità di un cambiamento, un cambiamento che ci porta una soluzione il cui risultato è una condizione di benessere intimo.
Gesù è là e tende la mano a Pietro, un uomo di poca fede; poca fede non significa senza fede, ma significa avere una fede che non è cresciuta molto o non molto se si vuole, una fede paralizzata. Questa era la condizione dei cristiani della seconda o terza generazione ai quali questo evangelo era inizialmente indirizzato.
Ma forse, questa è la condizione di una parte dei cristiani di oggi.
Gesù è là e ci tende la mano; anche se siamo uomini e donne di poca fede, o chiesa sballottolata, o credenti con poche forze, Lui sale con noi nella nostra navicella, sul piccolo battello della nostra vita, sulla barca della nostra esistenza e, per la gioia e il piacere d’averlo con noi nella nostra vita, la tempesta si calma, il terremoto, i venti e le onde, anche se continuano a creare subbuglio, per noi è come se cessassero.
Allora non abbiamo più paura di andare verso ciò che è sconosciuto, uscendo fuori dalla nostra barca, dal perimetro della nostra esistenza, andando verso l’altro, verso i nostri fratelli e sorelle, il nostro prossimo, perché Gesù è lì, con le mani aperte e braccia accoglienti.
Allora, in questo modo, noi potremo dire ancora una volta: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!” Amen

martedì 22 ottobre 2019

Predicazione di domenica 20 ottobre 2019 su Giacomo 2,14-26 a cura di Marco Gisola

Giacomo 2,14-26
14 A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? 15 Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, 16 e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve? 17 Così è della fede; se non ha opere, è per se stessa morta. 18 Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». 19 Tu credi che c'è un solo Dio, e fai bene; anche i demòni lo credono e tremano.
20 Insensato! [Doglio traduce “vuoto”, “vano”] Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore? 21 Abraamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere quando offrì suo figlio Isacco sull'altare? 22 Tu vedi che la fede agiva insieme alle sue opere e che per le opere la fede fu resa completa; 23 così fu adempiuta la Scrittura che dice: «Abraamo credette a Dio, e ciò gli fu messo in conto come giustizia»; e fu chiamato amico di Dio. 24 Dunque vedete che l'uomo è giustificato per opere, e non per fede soltanto. 25 E così Raab, la prostituta, non fu anche lei giustificata per le opere quando accolse gli inviati e li fece ripartire per un'altra strada? 26 Infatti, come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta. 
 


La fede si vede. Questo è il messaggio di questo brano della lettera di Giacomo. Una fede senza opere non è fede. La questione non è: o la fede o le opere. La questione è: la fede e le opere. O meglio: la fede che opera.
È un errore mettere Giacomo contro Paolo. Qui dobbiamo ammettere che Lutero ha sbagliato; Lutero ha definito la lettera di Giacomo una “lettera di paglia”, cioè una lettera che non vale nulla e avrebbe voluto eliminarla dalla Bibbia.
Ma questa volta si sbagliava, Giacomo non è contro Paolo, Giacomo non intende affermare la salvezza per opere e dunque negare la salvezza per grazia. Forse Giacomo si oppone alle idee di chi aveva frainteso Paolo e affermava una salvezza per fede senza opere, cosa che Paolo non ha mai fatto.
Paolo ha affermato con forza la salvezza per grazia, salvezza che si può soltanto credere per fede e non guadagnarsi per opere né meritare, ed ha affermato che questa fede nella salvezza per grazia ha come conseguenza le opere dell’amore. Paolo polemizza contro le opere della legge, le opere legalistiche o moralistiche, ma afferma e chiede che i cristiani pratichino le opere dell’amore.
Ai Galati scrive che «quello che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore» (Gal. 5,6). La salvezza si ha per grazia; la grazia si crede per fede; e la fede opera per mezzo dell’amore.
Grazia – fede – opere: credo che su questo percorso in tre tappe potrebbero essere d’accordo sia Paolo sia Giacomo.
Il grosso fraintendimento, la causa per cui sembra che Paolo e Giacomo siano in contrapposizione sta nell’idea che si ha di opere: Paolo polemizza contro le opere della legge, le opere dei farisei, le opere fatte pensando che così si sia a posto davanti a Dio. Pago la decima, faccio tutti i rituali, dico tutte le preghiere, il sabato faccio solo quello che è lecito fare e tutto il resto non conta.
Ma non ha nulla contro le opere dell’amore, le opere della giustizia, che al contrario Paolo raccomanda insistentemente. Per Paolo è chiaro: la fede opera, la fede ama, la fede compie atti di giustizia. E su questo Giacomo sarebbe perfettamente d’accordo.
Detto ciò, che non c’è contrapposizione tra Paolo e Giacomo, allora ringraziamo Dio che c’è la lettera di Giacomo! Che ci avverte del possibile fraintendimento – e tradimento – della teologia di Paolo: ci avverte che possiamo fraintendere che cosa è la fede e trasformarla in un opera rituale:
Giacomo, quando contrappone le opere alla fede, con fede intende qui non la fiducia in Dio che spinge ad amare e ad agire, ma intende l’etichetta di cristiano: sono cristiano perché sono battezzato, credo più o meno che le cose che recitiamo nel Credo siano vere, vado in chiesa, non faccio male a nessuno e quindi tutto ok, sono un bravo cristiano.
Eh no! Dice Giacomo (e lo direbbe anche Paolo!), non basta, anzi non è che non basta, è proprio un'altra cosa. Non è che ci vuole di più, ci vuole altro, ci vuole – potremmo dire - banalmente la fede. Perché una fede che basta a se stessa non è fede, è un sacco vuoto.
Laddove al v. 20 la nostra Bibbia traduce con “Insensato” un biblista propone la traduzione “uomo vuoto”, che mi sembra molto efficace. La fede contro cui polemizza Giacomo non è la fiducia del cuore di cui parla Lutero, non è la fede che è fiducia nel Dio che mi ha salvato, è una scatola vuota.
Se io ti porto una bella scatola su cui c’è il nome di una marca di buonissimi cioccolatini e tu la apri con l’acquolina in bocca e… scopri che è vuota, che cosa pensi? Che quella scatola è inutile, perché c’è solo il nome e forse l’immagine dei cioccolatini, ma dentro … nulla. Anzi, quella scatola è un inganno.
O, per essere meno materialisti, se ti faccio vedere una bottiglia di acqua e tu hai sete e quando provi a versare l’acqua non esce nulla… la tua sete rimane, e allora quella bottiglia vuota è inutile, anzi è un’illusione, una presa in giro. Questa è la fede contro cui polemizza Giacomo.
I cristiani che pensano che basti andare in chiesa e fare altre due o tre cosette religiose per essere a posto, sono vuoti, sacchi vuoti, scatole vuote, la loro fede non si vede: «mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (v. 18).
Se mi mostri una scatola vuota o una bottiglia vuota, di quella scatola e di quella bottiglia non me ne farò nulla. Un cristiano vuoto è in fondo un non-credente. Un credente non operante, non amante, non servente è in realtà un non credente.
Dunque non «Tu hai la fede, e io ho le opere», come dice provocatoriamente Giacomo, l'alternativa non è tra fede da una parte e opere dall’altra, ma tra fede che opera, e falsa fede che non opera, fede di cui c’è solo la scatola che però è vuota, che non contiene proprio nulla.
Ascoltiamo da un testo di 450 anni fa qual è il senso e il significato delle opere; si tratta di un catechismo riformato che vi ho già citato altre volte, il Catechismo di Heidelberg, del 1563:
Domanda 86
Essendo dunque stati redenti dalla nostra miseria per grazia, per mezzo di Cristo, senza alcun nostro merito, perché dobbiamo fare buone opere?
Risposta:
Perché Cristo, dopo averci acquistato con il suo sangue, ci rinnova anche a sua immagine mediante il suo Spirito Santo, affinché con tutta la nostra vita ci mostriamo grati a Dio per il suo beneficio, ed egli sia celebrato per mezzo nostro. Inoltre anche per poter essere di noi stessi sicuri della nostra fede, vedendone i frutti, e anche per conquistare a Cristo il nostro prossimo con la santità della nostra condotta.


Il catechismo di Heidelberg dice che Dio non si limita a salvarci in Cristo, ma continua anche a rinnovarci mediante il suo Spirito. Dio non ha soltanto operato in Cristo duemila anni fa, ma continua a operare in noi con il suo Spirito anche oggi, e ogni giorno.
Dio non ci vuole solo “salvati”, ci vuole anche “a sua immagine” e dunque ci rinnova attraverso il suo Spirito e la sua Parola. Le opere – potremmo dire la nostra vita, ciò che facciamo giorno dopo giorno – sono il segno del nostro rinnovamento, del fatto che la grazia ci trasforma, lentamente giorno dopo giorno, anno dopo anno.
E se questo rinnovamento c’è lo vediamo dalle nostre opere, cioè da come guardiamo e trattiamo il nostro prossimo, dalla scelte che facciamo, dal modo in cui ci rapportiamo agli altri e nel mondo.
E questo rinnovamento, cioè le nostre opere, sono il segno della nostra gratitudine nei confronti di Dio. Tutto ciò che facciamo – e Gesù ci ha detto in particolare tutto ciò che facciamo ai minimi tra i nostri fratelli e sorelle – lo facciamo per gratitudine nei confronti di Dio, ed è come se lo facessimo a lui, per ringraziare lui, a cui dobbiamo tutto.
Questo antico Catechismo dice poi ancora: per poter essere di noi stessi sicuri della nostra fede, vedendone i frutti. La fede deve dare frutti come un buon albero sano e forte. Se non ci sono frutti l’albero è malato o è morto, se la fede non dà frutti è malata o è vuota, cioè morta.
La mancanza di frutti è sintomo di una malattia della fede; non si possono separare fede e opere come non si possono separare albero e frutto.
E infine dice: e anche per conquistare a Cristo il nostro prossimo con la santità della nostra condotta. L’espressione “per conquistare a Cristo” forse non ci è più così congeniale. Ma sostituite a “conquistare a Cristo”, “testimoniare l’evangelo di Cristo”: per testimoniare l’evangelo di Cristo al nostro prossimo con la santità della nostra condotta.
La tua prima testimonianza non è quello che dici – e questo vale in primo luogo per tutti i pastori/e e predicatori/trici – ma quello che fai.
Se ti parlo di amore, di solidarietà, di condivisione e poi non ti ascolto quando mi parli dei tuoi problemi, le mie parole sono come la scatola vuota, di cui parlavamo prima, sono un albero senza frutti.
Se invece vivo l’amore gratuito per il prossimo, se sono davvero solidale e so condividere ciò che sono e ciò che ho, allora la mia fede si vedrà, si vedranno i suoi frutti e sarà occasione per parlare dell’albero da cui quei frutti provengono, delle radici della grazia di Dio, della linfa della sua Parola e della luce del suo Spirito che fa sì che quell’albero viva e dia frutti.
Allora le mie opere saranno semplicemente la riconoscenza verso il Signore che ha riscattato la mia esistenza a caro prezzo e che continua a rinnovarla con la sua parola e il suo Spirito.
Allora non saremo vuoti, ma saremo riempiti dei doni che Dio non smette di donarci, allora potremo dire con Giacomo: con le mie opere ti mostrerò la mia fede. Non ti mostrerò la mia bontà, la mia bravura, la mia coerenza, il mio impegno… perché tutto ciò rimane sottoposto alla mia debolezza e alla mie mancanze.
No, con le mie opere ti mostrerò semplicemente la mia fede nel Dio che mi ha fatto la grazia di dare il suo figlio anche per me. Con le mie opere ti mostrerò la fede che opera, perché sia la fede, sia le opere sono doni di Dio e senza di lui non potrei né credere, né operare.

domenica 6 ottobre 2019

Predicazione su Isaia 58,1-12 di domenica 6 ottobre 2019 a cura di Marco Gisola

Isaia 58,1-12
1 «Grida a piena gola, non ti trattenere, alza la tua voce come una tromba;
dichiara al mio popolo le sue trasgressioni, alla casa di Giacobbe i suoi peccati.
2 Mi cercano giorno dopo giorno, prendono piacere a conoscere le mie vie,
come una nazione che avesse praticato la giustizia e non avesse abbandonato la legge del suo Dio;
mi domandano dei giudizi giusti, prendono piacere ad accostarsi a Dio.
3 "Perché", dicono essi, "quando abbiamo digiunato, non ci hai visti?
Quando ci siamo umiliati, non lo hai notato?"
Ecco, nel giorno del vostro digiuno voi fate i vostri affari ed esigete che siano fatti tutti i vostri lavori.
4 Ecco, voi digiunate per litigare, per fare discussioni e colpite con pugno malvagio; oggi, voi non digiunate in modo da far ascoltare la vostra voce in alto.
5 È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l'uomo si umilia?
Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere,
è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al SIGNORE?
6 Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità,
che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi che si spezzi ogni tipo di giogo?
7 Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?
8 Allora la tua luce spunterà come l'aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del SIGNORE sarà la tua retroguardia.
9 Allora chiamerai e il SIGNORE ti risponderà; griderai, ed egli dirà: "Eccomi!" Se tu togli di mezzo a te il giogo, il dito accusatore e il parlare con menzogna; 10 se tu supplisci ai bisogni dell'affamato, e sazi l'afflitto, la tua luce spunterà nelle tenebre, e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno; 11 il SIGNORE ti guiderà sempre,ti sazierà nei luoghi aridi, darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai.12 I tuoi ricostruiranno sulle antiche rovine; tu rialzerai le fondamenta gettate da molte età e sarai chiamato il riparatore delle brecce,
il restauratore dei sentieri per rendere abitabile il paese.


Questo brano del profeta Isaia è uno dei molti brani biblici che ci presentano quale sia la volontà di Dio in modo chiaro e diretto, nudo e crudo.
1. La prima parte del capitolo è un deciso atto di accusa: Il popolo digiuna, il popolo cerca Dio, ma mentre digiuna litiga, fa i suoi affari, usa violenza, insomma si comporta in modo contrario alla volontà di Dio. E poi si lamenta perché Dio non apprezza il suo digiuno, perché Dio non lo ascolta.
E qui allora i casi sono due: o il popolo non ha capito nulla di Dio, oppure è decisamente ipocrita e quindi si fa beffe di Dio.
Potrebbe anche essere che il popolo, o alcuni del popolo, non abbiano capito Dio, sebbene Dio abbia detto ed espresso la sua volontà tante volte e in tanti modi. Ma è successo spesso, anche nella storia del Cristianesimo, che Dio sia stato frainteso, che sia stato scambiato per un Dio che bisogna placare o accontentare con qualche sacrificio o con qualche rito.
O peggio ancora che Dio sia stato scambiato con un Dio “commerciante”, che va comperato con qualche opera o rito particolare.
Se Dio è stato frainteso, se è stato scambiato per un Dio da placare o da comperare, allora questa predicazione di Isaia vuole rimettere le cose a posto, vuole far capire chi è Dio e che cosa egli vuole.
Se invece si tratta di pura ipocrisia, come in effetti è molto probabile, se cioè il popolo ha capito e sa che cosa Dio vuole da lui, e tuttavia fa il contrario di quello che Dio vuole, allora il brano è un duro atto di accusa.
Come ha detto qualcuno, forse tra il popolo c’è chi pensa che il digiuno possa essere una soluzione rapida per arrivare più facilmente a Dio. In fondo è più facile digiunare che sporcarsi le mani a fianco dei miseri. Quando la pratica religiosa ci porta lontano dalla società, dai suoi problemi e dalle sue ingiustizie, allora la religione è davvero, come diceva Marx, oppio dei popoli.
Se invece il culto ci porta dentro la società, se l’evangelo ci manda nel mezzo del mondo a realizzare la volontà di Dio, con gli altri e a fianco degli altri, allora il culto sarà gradito a Dio, sarà il motore che ci spinge a fare la sua volontà e sarà ciò che ci da la forza di tentare di farla.
Invece, nel caso di coloro a cui si rivolge Isaia, il culto è celebrato semplicemente per se stessi, per mettersi a posto la coscienza, davanti a sé e davanti agli altri, che magari dicono “Oh ma guarda quanto è religioso quel tale”, anche se poi quel tale truffa, inganna e sfrutta i poveri.
E infatti, la prima cosa di cui parla Dio nel suo atto di accusa sono i rapporti economici. La volontà di Dio si gioca anche nei rapporti economici perché i rapporti economici sono il primo campo in cui si vede se vi è giustizia o ingiustizia. Le più grandi ingiustizie accadono proprio nei rapporti economici che arricchiscono i pochi e lasciano nella miseria i molti.
Dunque, la giustizia: questa è la volontà di Dio per tutti gli esseri umani. E la giustizia dipende molto dall’economia e oggi nella nostra società complessa lo vediamo in modo molto chiaro. Ma era già così ai tempi dell’Antico Israele. Era così ai tempi di Isaia, era così ai tempi di Gesù ed è così anche oggi, solo moltiplicato per mille volte.
Se qualcuno non ha da mangiare o da vestirsi significa che la volontà di Dio non è fatta. E se qualcuno non ha da mangiare non è un caso e non è una disgrazia, ma è una colpa ed è questa colpa che Dio mette al centro del suo giudizio.


2. la seconda parte del brano parla del digiuno che Dio vuole, e qui parla sostanzialmente di liberazione: che si spezzino le catene, che si sciolgano i legami, che si lasciano liberi gli oppressi; e di condivisione: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra.
Liberazione e condivisione. Questa è la vocazione a cui Dio ci chiama ed è questo che ha fatto lui per primo, e che ha fatto anche in Gesù, che ha condiviso, donato addirittura, la sua vita per la nostra liberazione.
Gesù nel corso del suo ministero ha continuamente liberato: dalle malattie che impedivano agli esseri umani di avere una vita dignitosa, dai cosiddetti “demoni”, cioè da quelle forze che si impossessavano della volontà e della personalità altrui, una sorta di malattia mentale; dalla legge, o meglio non tanto dalla legge ma del legalismo moralista, che divideva le persone in giuste e sbagliate; dalla forza del peccato, offrendo a coloro che perdonava una nuova possibilità o la possibilità di una vita nuova. Infine persino dal potere della morte, che ha vinto nella resurrezione di Cristo.
E ha continuamente condiviso: la Parola di Dio, cioè la volontà del Padre; il pane e i pesci con gli affamati; il pane e il vino della comunione nell’ultima cena.
Liberazione e condivisione. Siamo al cuore della volontà di Dio. E dove c’è liberazione – e quindi libertà – e condivisione – ovvero nessuno ha troppo e nessuno troppo poco – lì c’è giustizia e la volontà di Dio è fatta.


3. E allora se questa è la volontà di Dio che bisogno c’è ancora di culto, di digiuno, di riti? Non è meglio gettarsi a capofitto nell’opera di condivisione e di liberazione e non badare più a nient’altro, per essere dei bravi cristiani?
Certo, se così facessimo saremmo dei bravissimi discepoli di Gesù, dei bravissimi cristiani! Ma venendo meno il culto, ci mancherebbero due cose essenziali: perché il culto è il luogo dove imparare sempre di nuovo quale sia la volontà di Dio, la sua volontà di liberazione e condivisione. Perché non lo si è mai imparato una volta per tutte, e se si pensa di averlo imparato allora si è completamente fuori strada Dio ha ancora sempre qualcosa da farci scoprire.
E ci mancherebbe il luogo in cui sentirci dire la cosa più importante, la sorgente di tutto ciò che possiamo fare e tentare: e cioè sentirci dire che Dio per primo ci ha liberati e ha condiviso con noi la sua misericordia e la sua volontà.
Tutto deriva da lì, tutto parte da lì. Senza questo gioioso annuncio, senza questo evangelo, non avremmo nulla da condividere e nessuno a cui portare liberazione.
Perché è l’evangelo che libera, è l’evangelo che ci chiama a condivisione. Ciò che Dio ha compiuto per noi e ciò che Dio chiede a noi, lo ascoltiamo e lo riceviamo nella predicazione dell’evangelo della grazia, che è l’evangelo della liberazione e della condivisione.
Il culto non è un mezzo per conquistarci il favore di Dio ma è un incontro nel quale Dio ci rivolge la sua Parola, dalla quale noi da un lato veniamo consolati e dall’altro impariamo quale sia la volontà di Dio.
Quindi certo al culto veniamo per noi perché riceviamo qualcosa di importante e di essenziale per la nostra vita. Ma principalmente veniamo perché Dio ci convoca proprio perché ha qualcosa da dirci. Dio ci convoca per annunciarci la sua grazia e allo stesso tempo perché vuole rivelarci la sua volontà o, detto in altre parole, vuole insegnarci a mettere in pratica la sua volontà di liberazione di condivisione.
Dio ci chiama a rendergli culto e ad ascoltare la sua parola, perché da un lato non si stanca di offrirci il suo perdono, nella sua grande misericordia; e non si stanca di spiegarci qual è il digiuno che gli gradisce, la pratica della liberazione e della condivisione.
Questo è il cuore e il centro del culto cristiano ed era ed è in fondo anche il centro del culto ebraico. Se il nostro culto non è questo, se ha altri obiettivi o secondi fini, allora esso sta sotto il giudizio che abbiamo sentito pronunciare da Isaia.
Se invece il nostro culto è questo, se è il tempo in cui veniamo a ascoltare la Parola del perdono e la Parola che ci invia a vivere liberazione e condivisione, allora questo culto è gradito a Dio perché tutta la nostra vita, e non solo un’ora alla settimana, sarà culto.
Sarà culto reso al Dio che in Gesù Cristo ha condiviso il suo amore con noi e che ci ha liberati dalla colpa e dalla paura e che ci manda ad annunciare a vivere la condivisione e la liberazione per portare nel mondo la sua giustizia.