lunedì 23 maggio 2022

Predicazione di domenica 22 maggio 2022 su Giovanni 14,23-29 a cura di Daniel Attinger

LA PROMESSA DELLO SPIRITO SANTO

Giovanni 14,23-29


Gesù gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto.

Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti. Avete udito che vi ho detto: "Io me ne vado, e torno da voi"; se voi mi amaste, vi rallegrereste che io vada al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ora ve l'ho detto prima che avvenga, affinché, quando sarà avvenuto, crediate.




Cari fratelli e sorelle,

In questa VIa domenica di Pasqua ci viene ricordato, una volta ancora, il grande annun­cio pasquale: Gesù Cristo, colui che è stato crocifisso, è risorto ed è vivente! È un messaggio così straordinario che occorrono ben otto domeniche, tutto il tempo che passa tra Pasqua e la festa di Pentecoste che celebre­remo fra quindici giorni, per tentare di capire questo mes­sag­gio. Anzi, a dire il vero, sono tutte le domeniche che, in un modo o in un altro, ci offrono delle variazioni su quell’unico tema.

Per renderci conto della nostra difficoltà a comprendere questo messaggio, basti pen­sare che se vi dicessi che ho in­contrato l’altro giorno, per le strade di Biella, la signora Zaldera, che era dei nostri, vi chiedereste, a giusta ragione, se non avessi perso la testa. Il problema, infatti, consiste nel sape­re cosa si intende quando si parla di resurre­zione.

Nella Bibbia, indipendentemente dalla figura di Gesù, sono menzionati alcuni casi di risurrezione: quello molto conosciuto di Lazzaro, fratello di Marta e Maria, quello del ragaz­zo di Nain, che era figlio unico di una donna vedova, o ancora quello della figlia di Giairo. Ma in questi casi si parla di una realtà diversa dall’evento di Pasqua. Infatti, quelle persone tornate in vita per la potenza di Gesù sono poi morte una seconda volta ed aspet­tano an­ch’esse la resurrezione dei morti che professiamo.

Per Gesù si tratta di qualcos’altro: perché Gesù risorto non è identico a ciò che era pri­ma. Da risorto, non lo si riconosce subito; sembra poi che possa essere presente nel con­tempo in diversi luoghi; entra d’improvviso in una stanza dove si trovano i discepoli, le cui porte sono state accuratamente chiuse per paura della gente; ma nello stesso tempo lo si può toccare, e mangia i pezzi di pesce che i suoi discepoli gli offrono; e soprat­tutto, Gesù risorto non muore più.

Per una mente normale tutto ciò sa di inverosimile, per cui non è affatto strano che molta gente pensi che i cristiani sono stati vittime di allucinazioni.

Ecco per il problema. E allora cosa possiamo dire noi che, nonostante tutto, crediamo nella risurrezione di Gesù? L’occa­sione di una predicazione non basta evidentemente per dire la nostra fede. Ma ogni predicazione può costituire un tassello che, aggiunto man mano ad altri, forma alla fine un mosaico che dia una certa immagine della risurrezione in cui crediamo.

Oggi, il tassello è la promessa dello Spirito santo di cui Ge­sù parla ai suoi discepoli durante l’ultimo pasto che condivide con loro, prima della sua passione e morte in croce.

Che rapporto c’è tra questa promessa e la resurrezione? Il rapporto non è immediato, ma vedremo che esiste ed è anche importantissimo.

Ascoltiamo dunque il testo che abbiamo letto. Cosa dice?

In un primo tempo, Gesù parla dell’amore: “Se uno mi ama, mio Padre lo amerà e noi verremo a lui e resteremo stabilmente vicino a lui”. La risurrezione di Gesù non fa parte degli eventi verificabili scientificamente: è un’esperienza che viviamo e dal­la quale nasce in noi l’amore; non l’amore spontaneo come quello che nasce tra due persone che si trovano bene l’una con l’altra, ma un amore che si rivela nell’obbedienza ai comanda­menti del Signore, e particolarmente al comandamento nuovo appena dato ai discepoli: “Amatevi gli uni gli altri, come e poi­ché io ho amato voi”. E Gesù ha appena mostrato cosa significa questo amore quando ha lavato i piedi ai suoi discepoli, anche a Giuda che lo tradiva e a Pietro che lo avrebbe rinnegato: si trat­ta quindi di un amore che pur odiando il peccato, ama il pecca­tore e va fino all’amore per i nemici, come ha insegnato Gesù nel discorso sul monte.

Quest’esperienza non fa parte delle nostre capacità; amare il nemico fino a preferire che egli viva, anche se per questo io debba morire, è al di là di ciò che si può chiedere a un essere umano. Ecco allora il secondo tempo della parola di Gesù: la promessa dello Spirito santo. Ma, perché lo possiamo ricevere, occorre la manifestazione dell’amore totale di Gesù per noi, cioè la sua morte. Essa è la prova che egli ha preferito la nostra vita alla sua, ma nel contempo, avendo vissuto l’amore divino in pienezza, la sua morte è anche ritorno al Padre da dove manda quello Spirito che lo animava quando viveva tra noi. Di fatto, al momento della morte di Gesù, Giovanni scrive: “chinato il capo, effuse lo Spirito”. La sua morte è effusione dello Spirito.

Ma cos’è questo Spirito? Gesù lo chiama “Paraclito”, parola che qualifica un avvocato in tribunale, oppure uno che esorta, incoraggia e consola e dunque qualcuno che costituisce un so­stegno solido per la vita. Appena prima Gesù l’aveva chiamato un “altro Paraclito”. Se è altro, ciò significa che succede a un “primo”, cioè a Gesù stesso che era il primo Paraclito. Questo Spirito, datoci da Dio, esercita dunque in noi lo stesso ruolo di quello che Gesù eser­citava nei confronti dei suoi discepoli: ci insegna ogni cosa, ricordandoci e facendoci capire le parole che Gesù ha proclamato. Ma non solo: questo Spirito è il portatore in noi della pace, pace con se stessi, pace con gli altri e questo perché quando lo Spirito ci è dato, è Dio stesso a fare in noi la sua dimora.

Forse penserete che tutto ciò è un bel discorso, che rischia però di essere vuoto perché nulla di ciò può essere controllato.

Invece, non è così. Per capirlo occorre fermarsi brevemen­te su due pensieri.

Il primo concerne la fede: spesso pensiamo che la fede sia l’adesione ad una credenza, a dei dogmi o a delle affermazioni sulle quali fondiamo il nostro esistere. Ci facciamo cioè un’idea intellettuale della fede, mentre in realtà la fede è fondamental­mente un atto di fidu­cia, un abbandonarsi a Dio con la convin­zione che egli diventa l’attore stesso della nostra vita, colui che la conduce e le dà la sua direzione. Il credere è dunque qualcosa che gli altri possono vedere, e che possono vedere nel compor­tamento e nella vita del credente. Così, non possiamo vedere lo Spirito santo, ma lo possiamo vedere agire in noi. Suscita in noi parole di consolazione, di incoraggiamento, di speranza; fa di noi dei portatori di pace; ci ispira gesti di amore, di tenerezza, di bontà. Fa che in noi qualcosa della vita di Gesù diventi visi­bile agli occhi di quelli con cui viviamo.

Ed ecco il secondo pensiero: in queste condizioni, se cioè è lo Spirito a suscitare in noi un comportamento che rivela la nostra fede, allora occorre chiedere lo Spirito e chiederlo con insistenza, affinché questo dono ci sia sempre rinnovato. Infatti, non possediamo mai lo Spirito, perché è lui che ci possiede, ma il suo dono è certo per chi lo chiede, come ci ha pro­messo Gesù stesso: “Se voi che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vo­stri figli, tanto di più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che lo chiedono” (Lc 11,13). La domanda dello Spirito santo è l’unica preghiera della quale sappiamo con certezza che vie­ne esaudita. Allora, non esitiamo a rinnovare questa richie­sta, e vedremo lo Spirito del Ri­sorto agire in noi e conformare la nostra vita alla sua, e diventeremo, come Lui, testimoni del­l’amore del Padre: questa sarà la risurrezione, anche nostra.

Amen.



lunedì 16 maggio 2022

Predicazione di domenica 15 maggio 2022 su Colossesi 3,12-17 a cura di Marco Gisola

Colossesi 3,12-17

12 Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. 13 Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. 15 E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti.

16 La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali. 17 Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù, ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.



1. La parola di Dio di oggi parla di noi e parla a noi. Parla di noi perché ci dice che cosa siamo, chi siamo: per Dio siamo “eletti di Dio, santi e amati”. Questo siamo per Dio. Sono tutti verbi al passivo, il cui soggetto ovviamente è Dio stesso: siamo eletti perché Dio ci ha eletti, cioè scelti; siamo santi non secondo il linguaggio comune per cui si intende persone quasi perfette, ma nel senso letterale biblico che vuol di nuovo dire scelti, messi da parte da Dio; e siamo amati perché Dio ci ha amati in Cristo e ci ama.

Per Dio e grazie a Dio siamo tutto questo: siamo eletti, santi e amati. Questo la parola di Dio dice di noi oggi, questo siamo in Cristo, per pura grazia e libera decisione di Dio. Ora tutto questo è appunto pura grazia, è libera decisione di Dio; non è un premio, non è un diritto, non è un privilegio essere eletti, santi ed amati, ma è un dono di Dio e come tutti i doni di Dio ci è dato affinché lo viviamo con gli altri e per gli altri.

E in questo senso questo brano parla non solo di noi ma anche a noi: è infatti un brano “esortativo”, come si dice, cioè un brano che dà indicazioni e suggerimenti ai cristiani della chiesa di Colosse. E infatti comincia con un verbo all’imperativo: “vestitevi” come eletti di Dio santi e amati di sentimenti di misericordia, di benevolenza, ecc. Potremmo dire: poiché avete avuto la grazia di essere scelti da Dio per amore, ora vivete questo dono e questa vocazione, “vestitevi”. Poco prima aveva scritto “vi siete spogliati dell’uomo vecchio e vi siete rivestiti del nuovo”. L’apostolo si rivolge qui a dei cristiani che erano pagani che hanno vissuto un enorme cambiamento, che viene rappresentato dall’immagine dello spogliarsi e del rivestirsi, cioè di cambiare abito. Potremmo quasi dire, con un’altra metafora, cambiare pelle, cambiare vita.

Di che cosa bisogna rivestirsi, di che cosa devono vestirsi i cristiani di Colosse – e noi con loro - giorno dopo giorno? Come tutte le mattine quando ci alziamo ci mettiamo i vestiti con i quali andiamo incontro al nostro prossimo, così dobbiamo vestirci di sentimenti di misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza, dobbiamo sopportarci gli uni gli altri e perdonarci a vicenda e sopra tutte queste cose “vestirci dell’amore” scrive l’apostolo.

L’apostolo si rivolge a una comunità, non a delle persone singole e sole, ma a “eletti, santi e amati” tutte parole al plurale, persone che sono chiamate a vivere insieme la fede, la gioia e la riconoscenza a Cristo. E vivere insieme la fede, la gioia, la speranza, la riconoscenza verso il Signore significa ogni giorno relazionarsi con il prossimo che Dio ci ha messo accanto. E questo è un impegno, anzi un compito, quello di curare queste relazioni; curare le relazioni con le sorelle e i fratelli è il compito che il Signore ci dà ogni giorno: “vestitevi” di questi sentimenti, ogni giorno, come ogni giorno ci mettiamo i vestiti.

Per stare insieme agli altri e insieme agli altri vivere la fede è necessario che coltiviamo e curiamo benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza ed è anche necessario qualche volta che ci sopportiamo, perché il prossimo che il Signore mi ha messo accanto non è sempre come io vorrei che fosse. E a volte dobbiamo anche perdonarci a vicenda, perché le relazioni umane - anche quelle fraterne e sorerne che ci sono date di vivere nella chiesa - a volte lasciano delle ferite, perché siamo peccatori e se non fossimo peccatori non saremmo qui, perché non saremmo cristiani! Perché i cristiani sono peccatori e peccatrici perdonati.

È un compito che ci viene dato: il compito di curare il nostro essere comunità e dunque curare le relazioni tra noi, tra i membri della comunità. È un compito, perché non è spontaneo. Questi sentimenti di misericordia, benevolenza, umiltà, ecc. non nascono spontaneamente del nostro cuore come potrebbe farci pensare la parola “sentimenti”. Questi sentimenti – che potremmo anche chiamare modi di essere, modi di porsi davanti agli altri e con gli altri, vanno coltivati, curati e fatti crescere.

2. E come può accadere questo? Come nascono, crescono e vengono coltivati i sentimenti di cui parla l’apostolo? Questo ci viene detto più o meno a metà di questo brano quando l’apostolo scrive: “la parola di Cristo abiti in voi abbondantemente”. È la parola di Dio che crea la chiesa ed è la parola di Dio che cura, coltiva e fa crescere le relazioni all’interno della chiesa, che fa nascere e crescere in noi misericordia, benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza… È la Parola di Dio che ci aiuta a sopportarci, perché ci dice che il legame che ci lega non è fatto di simpatia o di somiglianze, ma è fondato nella morte e resurrezione di Cristo. È la parola di Dio che ci insegna a perdonare, perché come scrive qui l’apostolo “come il signore vi ha perdonati così fate anche voi”.

Siamo perdonati, dunque perdoniamo, riconosciamo il dono del perdono che Dio ci ha donato in Cristo come un enorme dono e viviamolo nel nostro perdonare. Solo rimettendoci continuamente in ascolto della Parola di Dio, lasciandoci giudicare e interrogare da lei, lasciandoci consolare ed istruire da lei, possiamo tentare di vivere ciò che l’apostolo descrive in queste righe.

3. E la conclusione del nostro brano mi sembra che menzioni i due ambiti, i due luoghi dove siamo chiamati a vivere sentimenti di misericordia, benevolenza umiltà, ecc.: il culto e la vita quotidiana. “La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali”. Il luogo dove ci ammaestriamo ed esortiamo a vicenda è il culto, ed è significativo che l’apostolo dia così tanta importanza al canto. Il canto accompagna ogni momento del nostro culto, è lode, confessione di peccato, confessione di fede, espressione di fiducia, domanda, intercessione… nel canto esprimiamo ogni aspetto della nostra fede, ogni aspetto della nostra vita nella fede. Il canto è comunitario, tutti vi partecipano, ognuno canta al Signore e tutti cantano insieme. È comunitario anche nel modo in cui si canta: nessuno deve prevalere, nessuna voce deve coprire quella degli altri; e tutti devono andare allo stesso tempo, in modo che il canto sia davvero corale. Per cantare insieme è necessario ascoltarsi a vicenda, un esercizio indispensabile per il canto e anche per la vita!

E l’altro ambito è quello della vita quotidiana: “Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù”: un’indicazione che ci appare generica, ma che è generica per comprendere ogni ambito della nostra vita: “qualunque cosa…”, “ogni cosa…” cioè tutto ciò che fate e dite (“parole e opere”) sia guidato da quei sentimenti di misericordia, umiltà, ecc. Non è poco e non è generico, ma è la nostra intera vita, che è così testimonianza in atti e in parole dell’immenso dono di grazia che abbiamo ricevuto in Cristo.

4. E infine – scrive l‘apostolo - fate tutto ciò “ringraziando Dio Padre per mezzo di lui”. Ve l’ho già citato altre volte quello che dice il catechismo di Heidelberg, un catechismo riformato del ‘500 che Paolo Ricca ha ritradotto e commentato alcuni anni fa. Alla domanda “Quante cose è necessario che tu sappia per poter felicemente vivere e morire in questa consolazione [cioè nel sapere che si appartiene a Cristo]?” La risposta è: “tre cose: in primo luogo quanto grandi sono il mio peccato e la mia miseria. In secondo luogo, come vengo redento da tutti i miei peccati e dalla mia miseria. E in terzo luogo come devo esser grato a Dio per questa redenzione”.

Queste parole dell’apostolo fanno parte di questo “terzo luogo”: la nostra vita di cristiani è tutta un esprimere la nostra gratitudine a Dio per la redenzione, cioè per la liberazione, per il perdono, per la salvezza che ci ha donato in Cristo. Tutto ciò che facciamo e diciamo – dice il nostro brano di oggi e il catechismo di Heidelberg con lui – è espressione della nostra gratitudine a Dio. Null’altro che gratitudine. Quel che riusciamo effettivamente a vivere della misericordia, della benevolenza, della umiltà, della mansuetudine, della pazienza, della sopportazione e del perdono di cui si parla qui, è pura e semplice gratitudine. Se e quando riusciamo a vivere qualche briciola di tutto ciò non è altro che riconoscenza a Dio per ciò che ha fatto per noi.

Come “come eletti di Dio, santi e amati” siamo chiamati a vestirci di tutti questi sentimenti, di questo modo di essere non per essere buoni – solo Dio è buono, ha detto Gesù – ma per essere grati al Signore ed esprimere questa gratitudine nell’amore verso il prossimo che lui ci ha dato. E possa la Parola di Dio abitare abbondantemente in tutti noi e continuare a ricordarcelo e ad insegnarcelo.