lunedì 31 ottobre 2016

Predicazione della Domenica della Riforma su Romani 3,21-28 (preparata da Marco Gisola e letta da Massimiliano Zegna)

Romani 3, 21-28
Ora però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata la giustizia di Dio, della quale danno testimonianza la legge e i profeti: vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono - infatti non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio - ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; e per dimostrare la sua giustizia nel tempo presente affinché egli sia giusto e giustifichi colui che ha fede in Gesù. Dov'è dunque il vanto? Esso è escluso. Per quale legge? Delle opere? No, ma per la legge della fede; poiché riteniamo che l'uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge.

Questo brano, proposto per la domenica della Riforma, è un testo chiave del discorso di Paolo ai Romani ed è stato definito da Lutero il “punto capitale e centrale della lettera ai Romani e dell’intera Scrittura”.
Qui è infatti riassunto in poche e chiare parole il rapporto che c’è tra esseri umani e Dio, e il ruolo che essi hanno in questo rapporto che possono essere riassunti dal peccato radicale dell’essere umano e dalla grazia altrettanto radicale di Dio.
Infatti non esiste grazia di Dio senza peccato umano. Se si accetta l’idea della grazia di Dio non si può non accettare anche l’idea del peccato radicale dell’essere umano, perché rifiutare una delle due cose equivale a rifiutarle tutte e due.
Abbiamo ascoltato il racconto evangelico del fariseo e del pubblicano (Luca 18,9-14) che salgono entrambi al tempio a pregare, e il fariseo ringrazia di essere quello che è, e di non essere un peccatore come il pubblicano, mentre quest’ultimo chiede semplicemente perdono per le proprie colpe.
Il fariseo di questo racconto è un uomo che crede fermamente alla grazia di Dio, che crede fermamente in un Dio misericordioso; il suo errore non è quello di non credere alla grazia di Dio; il suo errore è quello di non credere al proprio peccato!
E proprio questo è il suo peccato principale: credere alla grazia senza credere al peccato. Ma non ha senso credere alla grazia, se non si crede al proprio peccato.
Non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio dice Paolo; tutti, non vi sono persone più vicine a Dio di altre: e questa è per noi la cosa più difficile da accettare, anche dopo duemila anni di cristianesimo e quasi cinquecento di Riforma.
È difficile accettare che davanti a Dio non c’è distinzione e che tutti sono peccatori, e quindi che ciascuno di noi è peccatore e lo è fino in fondo.
Come accettare che non ci sia distinzione davanti a Dio e alla sua grazia tra chi va ogni domenica al culto e chi non ci va mai? Come accettare che non ci sia distinzione davanti a Dio tra chi prega tutti i giorni e chi non prega mai?
Come accettare che non ci sia distinzione davanti a Dio tra noi, che ci riteniamo buoni cittadini, e qualcuno che è detenuto in carcere per aver commesso qualche reato? E in fondo: come accettare che non vi sia distinzione davanti a Dio e alla sua grazia tra il fariseo e il pubblicano?
Queste parole: “non c’è distinzione, tutti hanno peccato” sono il vero scandalo del cristianesimo, scandalo che rimarrà sempre uno scandalo, perché non potrà mai essere accettato pienamente. Forse a parole diciamo “è vero è proprio così, tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, ma in fondo in fondo ognuno pensa di essere un po’ meglio di altri.
Molto spesso diciamo: “eh sì, siamo tutti peccatori”. Ma quante volte dicendo questo pensiamo dentro di noi: “eh sì, io sono peccatore, proprio come tutti gli altri”? e quante volte la frase “siamo tutti peccatori” non ha piuttosto lo scopo di autogiustificarci nel senso del proverbiale mal comune mezzo gaudio?
Finché non verrà pienamente accettato lo scandalo del “non c’è distinzione” (cioè forse mai!) ci saranno sempre disuguaglianze tra gli esseri umani.
Perché è questo scandalo che elimina le disuguaglianze tra gli esseri umani, sono le parole “non c’è distinzione” che eliminano le disuguaglianze tra gli esseri umani. Solo se tutti siamo egualmente peccatori e egualmente privi della gloria di Dio, siamo tutti uguali.
Ma finché qualcuno pensa di essere un po’ meglio, un po’ meno peccatore, ci saranno sempre disuguaglianze e discriminazioni. È quando i farisei si ritengono migliori dei pubblicani che esistono le discriminazioni; è quando i bianchi si ritengono migliori dei neri, quando gli uomini si ritengono migliori delle donne, quando i laureati si ritengono migliori di quelli che hanno la seconda elementare, quando i “furbi” si ritengono migliori degli onesti, che esistono le discriminazioni …
Nel nostro orgoglio non sappiamo accettare di essere tutti uguali, ognuno vuole essere meglio e qualcosa di più di qualcun altro. Vogliamo essere diversi da quel che siamo, cioè tutti peccatori, senza distinzione.
La Parola di Dio ci dice e ci ripete che invece è proprio così, che “non c’è distinzione”.
Questo significa che davanti a Dio abbiamo tutti le stesse possibilità, perché l’unica possibilità per tutti è di ricevere da lui la sua grazia.
Di ricevere, non di offrire, non abbiamo nulla da offrirgli. l’unica possibilità che abbiamo davanti a Dio è quella che ci dà lui, è quella che lui, Dio, dona a chi vuole. Nella parabola questa possibilità la dà al pubblicano, sebbene il fariseo avesse – umanamente e religiosamente parlando - molto di più da offrirgli.
Questa possibilità è la grazia: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù”.
Questa possibilità è un dono, ed è certa. È certa a meno che, come il fariseo, pensiamo di non averne bisogno, di non avere bisogno del dono della grazia, ma di avere noi qualcosa da offrire a Dio.
È certa, ma questa certezza non dipende da noi, dalle nostre opere, da ciò che facciamo. Anzi: è certa, proprio perché non dipende da noi, ma dipende esclusivamente da Dio, da ciò che lui ha fatto in Cristo per noi (mica per lui, per noi!): “la redenzione che è in Cristo Gesù.
Perché ottenessimo questo dono “Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue”. Paolo usa il linguaggio sacrificale per dire che non è stato un regalino quello che Dio ci ha fatto, ma un enorme dono, un sacrificio, perché è costato la vita del suo figlio Gesù.
È perché è costato la vita di Gesù che quel dono è certo, che il perdono di Dio è una certezza, che la possibilità che Dio ci dona di ricominciare è certa.
La nostra fede riconosce e crede semplicemente tutto ciò. Non è un merito nemmeno la nostra fede. La fede non è un punto di arrivo. Il teologo svizzero Karl Barth commentando questi versetti scriveva: “Non c’è ... nessun itinerario di salvezza, nessuna scala graduata verso la fede... la fede è sempre l’inizio”.
La fede, la chiesa, il culto, la preghiera, la spiritualità personale non sono mai il punto di arrivo, bensì sempre quello di partenza. Punto di partenza per tentare ogni giorno di vivere una vita nella gratitudine e nel discepolato.
Per tentare ogni giorno di vivere riconoscenti per l'enorme dono che il Signore ci ha fatto e quindi di restituire al nostro prossimo, di condividere con il nostro prossimo un po’ di quel dono e di quell’amore che abbiamo ricevuti.
La grazia di Dio, che è dono, rivoluziona la nostra vita perché ci inserisce nella logica del dono e vuole che la logica del dono diventi la nostra vita quotidiana, che la logica del dono diventi il modo in cui guardiamo negli occhi il nostro prossimo.
È grazie a questo dono di Dio che viviamo, è grazie a questo dono di Dio che speriamo, è grazie a questo dono di Dio che amiamo. Perché non avendo nulla da offrire a Dio, se non confessargli il nostro peccato, riceviamo tutto da lui, per grazia, in dono.
La Riforma, iniziata 499 anni fa, in fondo ha voluto far riscoprire ai cristiani che il centro dell’evangelo è questo dono, questo “tutto” che Dio ci ha donato in Cristo, in cambio del “nulla” che possiamo offrirgli. E che su questo “tutto” che Dio ci ha donato abbiamo la possibilità di costruire una vita piena di amore, piena di speranza, piena di gioia.
Piena di tutto ciò, perché lui l’ha riempita, nella sua grazia, del suo dono di cui possiamo solo essere riconoscenti ogni giorno della nostra vita.

martedì 25 ottobre 2016

Culto di domenica 23 ottobre 2016 con la scuola domenicale su 1 Samuele 3 e 8

Biella, 23 ottobre 2016 - culto con scuola domenicale

Lettura: Isaia 55,6-11
preghiera
cercate Dio, trovatelo e fate di lui una forza nella vostra vita
senza di lui tutti i nostri sforzi si riducono in cenere
e le nostre aurore diventano più oscure delle notti
senza di lui, la vita è un dramma senza senso a cui mancano le scene decisive.
Ma con lui possiamo passare dalla fatica della disperazione, alla serenità della speranza.
Con lui possiamo passare dalla notte della disperazione all’alba della gioia. Amen (Martin Luther King)

Canto
La chiamata di Samuele
due settimane fa abbiamo avuto il primo incontro di scuola domenicale; in questi primi incontri leggiamo dei racconto dalla Bibbia – ovviamente – e in particolare dall’Antico Testamento, in cui si racconta…. La storia del popolo di Israele, cioè del popolo di Gesù, prima che nascesse Gesù, molto tempo prima. Abbiamo iniziato a leggere la storia di una persona che è stata importante per questo popolo: il suo nome è … Samuele.
In realtà abbiamo raccontato anche un po’ che cosa è successo prima che Samuele nascesse, e cioè che sua mamma – che si chiamava Anna - desiderava tanto un figlio ma non riusciva ad averne. Una volta all’anno lei e suo marito andavano a una festa in un santuario (un posto dove si andava per pregare) e lì c'era un sacerdote di nome Eli.
Eli vede che Anna era molto triste e Anna le dice che è triste perché vorrebbe avere un figlio ma non ci riesce. Eli le fa coraggio, le dice vedrai che prima o poi un figlio arriverà. Anna dice a Eli che se avesse avuto un bambino, lo avrebbe portato da lui al santuario perché vivesse con Eli e lo aiutasse. E grazie a Dio le cose vanno bene, perché Anna ha un bambino – il nostro Samuele. Appena Samuele è cresciuto un po’ Anna lo porta a Eli e lo lascia con lui.
Anna aveva anche fatto la promessa che non avrebbe tagliato i capelli di Samuele, come segno che Samuele era un servo di Dio. Così Samuele è un ragazzino con lunghi capelli e aiuta Eli in tutto il lavoro che c’è in quel santuario. Una sera, Eli era già a letto e anche Samuele va a dormire, si addormenta ma dopo un po’ succede una cosa strana...

Animazione Cestino con biglietti con i nomi dei bambini. Ogni bambino prende un bigliettino e chiama ad alta voce il nome che c’è scritto

Lettura: 1 Samuele 3,4-10.19-21
Questo racconto ci dice due cose:
La prima è che Samuele è un profeta: che cos’è un profeta nella Bibbia? Profeta significa che Dio gli parla e Samuele deve riferire ciò che Dio gli dice al popolo d’Israele. Da ora in poi Samuele avrà questo compito: riferire al popolo quello che Dio gli dice. Attraverso Samuele Dio parla a Israele proprio come aveva fatto con Mosè.
E noi? Probabilmente Dio non ha parlato direttamente a nessuno di noi e nessuno di noi è un profeta. Quindi questo che cosa vuol dire? Che Dio non ci parla? In qualche modo, Dio ci parla. E che modo ha scelto Dio per parlarci? Ha scelto delle persone che poi hanno scritto delle cose, e queste cose che hanno scritto sono raccolte … nella Bibbia! Dio parla anche a noi attraverso la Bibbia. È per questo che a scuola domenicale leggiamo la Bibbia e che al culto leggiamo la Bibbia, perché crediamo che attraverso questi antichi racconti Dio ci voglia parlare, Dio ci voglia dire qualcosa.
Anzi, leggendo la storia di Dio che chiama Samuele possiamo dire che Dio non solo ci parla attraverso la Bibbia, ma che Dio ci chiama attraverso la Bibbia. Come ha chiamato Samuele, Dio chiama anche noi. Samuele ha sentito la sua voce, noi no, noi sentiamo le parole che ci vengono dalla Bibbia, dalla Bibbia Dio ci chiama e vuole dare anche noi un compito come ha dato a Samuele.
Ogni racconto biblico ci dice qualcosa su che cosa Dio vuole da noi. Per questo noi leggiamo la Bibbia. È per questo che ora leggiamo ancora un racconto dalla storia di Samuele, una storia che succede un po’ di anni dopo, quando Samuele è già grande ed è un grande profeta conosciuto in tutto il suo popolo.
Canto
Lettura 1 Samuele 8,10-20
Il popolo d’Israele ai tempi di Samuele non aveva un re. Dio sceglieva degli uomini che metteva a capo del popolo quando ce n’era bisogno o quando c’era un problema da risolvere. Si chiamavano “giudici” ma erano anche capi militari.
E quindi non c’era un re, non c’era una monarchia, non c’era una dinastia. Perché il re era Dio, non ce n’era bisogno di un altro. E invece ora Israele vuole un re e quindi Dio ci rimane male, perché si sente rifiutato. Ci aspetteremmo che Dio si arrabbiasse con Israele e dicesse “assolutamente no, un re non ve lo darò mai”. E invece… Dio dice a Samuele: il popolo vuole un re? Tu dagli pure un re. Ma Israele deve sapere che vuol dire avere un re.
Abbiamo letto un brano di questo racconto. Che cosa dice Dio a Israele? Dice che il re che tanto desiderano…
«Questo sarà il modo di agire del re che regnerà su di voi. Egli prenderà i vostri figli e li metterà sui carri e fra i suoi cavalieri … li metterà ad arare le sue terre e a mietere i suoi campi...Prenderà le vostre figlie per farsene delle profumiere, delle cuoche, delle fornaie. Prenderà i vostri campi, le vostre vigne, i vostri migliori uliveti per darli ai suoi servitori. Prenderà la decima delle vostre sementi e delle vostre vigne … Prenderà i vostri servi, le vostre serve, il fiore della vostra gioventù … Prenderà la decima delle vostre greggi e voi sarete suoi schiavi.
Qual è la parola (il verbo) che incontriamo tante volte in questo racconto? Prenderà. Il re prenderà i vostri figli, le vostre figlie, i vostri campi, le vostre vigne, i vostri uliveti… Il re che Israele vuole avere prenderà. Israele deve saperlo, deve sapere a che cosa va incontro. Dio era il vero re d’Israele, ed era un re che dava. Il re che Israele vuole avere sarà un re che prende.
Dio ha dato a Israele la libertà, la terra, la legge… Il re che Israele vuole avere prenderà dal popolo tutte le cose che abbiamo sentito. Eppure Dio lascia che Israele abbia un re. Il primo re d'Israele si chiamerà Saul. Potremmo dire che Dio lascia libero Israele ma gli dice quali sono le conseguenze delle sue scelte.
Dio fa così anche con noi: ci lascia liberi di prendere le nostre decisioni, ma ci avverte delle conseguenze delle nostre scelte o ci chiede almeno di pensare a quali sono le conseguenze delle nostre scelte. Essere liberi, vuol dire essere responsabili di ciò che si decide.
Essere liberi è una cosa bellissima, ma qualche volta vuol dire anche essere liberi di sbagliare. Israele sbaglia, ma Dio lo lascia libero di sbagliare. Infatti Israele insiste e non ascolta quello che Dio gli ha detto attraverso Samuele.
Insiste perché? Perché vuole essere come gli altri popoli. Quando Samuele dice al popolo tutto quello che il re farà, tutto quello che prenderà, Israele risponde: «No! Ci sarà un re su di noi; anche noi saremo come tutte le nazioni». Israele vuole essere come gli altri popoli. Tutti hanno un re, perché non devo avere anch’io un re? Voglio essere come gli altri.
Anche a noi capita a volte di voler essere come gli altri. Ma non sempre voler essere come gli altri è una cosa buona. A volte è meglio essere diversi. Non è detto che la maggioranza abbia ragione. A volte la maggioranza sbaglia.
Dio vuole che decidiamo in base a quello che lui ci insegna, non in base alla maggioranza. Non è sempre giusto uniformarsi alla maggioranza, anche se a volte è più comodo. A volte è necessario far parte della minoranza, a volte è necessario avere il coraggio di andare controcorrente.
Vedete che questa antica storia – vecchia forse di 2.500 anni! - ha qualcosa da insegnarci? dall’errore di Israele che vuole avere un re per essere come gli altri popoli, impariamo qualcosa. Impariamo che non è sempre giusto fare quello che fanno tutti, quello che fa la maggioranza. Dobbiamo pensare con la nostra testa, scegliere liberamente che cosa è più giusto. In che senso Dio ci aiuta a scegliere? Non dicendoci esattamente che cosa dobbiamo fare, ma per esempio dicendoci che è meglio scegliere quello che è più giusto, piuttosto che quello che è più comodo.
Scegliere quello che non fa male agli altri, piuttosto quello che potrebbe far male a qualcuno. Oppure meglio ancora, scegliere di fare quello che fa del bene agli altri, piuttosto di scegliere di rimanere indifferenti. Ecco quello che ci insegna questo racconto. Israele avrà un re, come voleva avere, ma vedremo che Dio non rinuncerà a continuare a occuparsi del suo popolo e continuerà a parlargli e a provare ad aiutarlo, anche dopo che ha preso decisioni sbagliate.
Canto
Animazione: Dio chiama anche noi
prima di concludere il nostro culto, vogliamo tornare al tema che abbiamo toccato all’inizio: Dio parla anche a noi, Dio chiama anche noi. A scuola domenicale abbiamo fatto questo cartellone con i nomi dei bambini, per simboleggiare Dio che ci chiama e pronuncia i nostri nomi. Ma oggi che siamo tutti insieme, vogliamo aggiungere tutti i nostri nomi a questo cartellone, perché Dio chiama anche tutti e tutte noi.
(Si distribuiscono cartoncini colorati e pennarelli e ognuno/a scrive il proprio nome – i bambini li incollano sul cartellone che si unisce a quello già fatto a scuola domenicale)
Raccolta offerte e avvisi
Preghiera finale
Che Dio ti dia
per ogni tempesta un arcobaleno,
per ogni lacrima, un sorriso
per ogni affanno, una promessa
e una benedizione per ogni prova.
Per ogni problema che la vita ti mette davanti,
che Dio ti dia un fedele amico col quale condividerlo.
Per ogni sospiro, una dolce musica
e una risposta a ogni preghiera.
Che Dio ti dia il dono della sua pace e della sua gioia. Amen


Padre Nostro
canto
Benedizione

domenica 2 ottobre 2016

Predicazione di domenica 2 ottobre su 2 Corinzi 9,6-15 a cura di Marco Gisola


2 Corinzi 9,6-15 (lettura di appoggio: 2 Corinzi 8,7-15)
Ora dico questo: chi semina scarsamente mieterà altresì scarsamente; e chi semina abbondantemente mieterà altresì abbondantemente. Dia ciascuno come ha deliberato in cuor suo; non di mala voglia, né per forza, perché Dio ama un donatore gioioso. Dio è potente da far abbondare su di voi ogni grazia, affinché, avendo sempre in ogni cosa tutto quel che vi è necessario, abbondiate per ogni opera buona; come sta scritto: «Egli ha profuso, egli ha dato ai poveri,la sua giustizia dura in eterno».Colui che fornisce al seminatore la semenza e il pane da mangiare, fornirà e moltiplicherà la semenza vostra e accrescerà i frutti della vostra giustizia. Così, arricchiti in ogni cosa, potrete esercitare una larga generosità, la quale produrrà rendimento di grazie a Dio per mezzo di noi. Perché l'adempimento di questo servizio sacro non solo supplisce ai bisogni dei santi ma più ancora produce abbondanza di ringraziamenti a Dio; perché la prova pratica fornita da questa sovvenzione li porta a glorificare Dio per l'ubbidienza con cui professate il vangelo di Cristo e per la generosità della vostra comunione con loro e con tutti. Essi pregano per voi, perché vi amano a causa della grazia sovrabbondante che Dio vi ha concessa. Ringraziato sia Dio per il suo dono ineffabile!

Oggi la Parola di Dio ci parla di soldi. Nella seconda lettera ai Corinzi, infatti, Paolo dedica ben due capitoli – l’8 e il 9 – alla questione di una colletta che le altre chiese fanno per i cristiani di Gerusalemme. Gli esperti ci dicono che questa lettera forse raccoglie frammenti di diverse lettere indirizzate alla chiesa di Corinto, che poi qualcuno ha trovato e messo insieme. In effetti sarebbe un po’ strano che Paolo affrontasse questo argomento al capitolo 8 e poi ricominciasse a parlarne al cap. 9, come se non ne avesse ancora parlato. Comunque, che si tratti di una lettera o di più lettere poi messe insieme, è chiaro per Paolo si tratta di una questione molto importante.
Non sappiamo esattamente che cosa fosse successo a Gerusalemme, ma evidentemente i cristiani di quella chiesa passano un brutto momento dal punto di vista del loro sostentamento. E si trattava della chiesa-madre, la chiesa dei primi apostoli, quindi una chiesa che ha un valore simbolico molto alto. Paolo infatti parla dei cristiani di Gerusalemme definendoli “santi”. Paolo, all’inizio del capitolo 9 parla della “sovvenzione destinata ai santi”.
Che cosa ci dice questo brano di Paolo, che qui esorta i cristiani di Corinto a raccogliere denaro da mandare in aiuto ai cristiani di Gerusalemme? Ci dice alcune cose:

1. La prima è che la nostra vita materiale è una questione di fede. O se preferite, che la nostra fede riguarda anche la sfera materiale, economica della nostra vita. La fede tocca il nostro portafoglio. Perché c’è qualcuno che ha meno di te, che ha più bisogno di te. Il donare fa parte della vita di fede, è una conseguenza della fede.
E come? Alcune indicazioni ce le dà il capitolo 8, in cui Paolo tratta lo stesso tema, da cui abbiamo ascoltato alcuni versetti. Paolo lì invita i Corinzi a dare “secondo le vostre possibilità” (8,11). Non c’è legge, non c’è tassa, Paolo non prescrive quanto i Corinzi debbano dare per le necessità dei cristiani di Gerusalemme. Dice loro: date secondo le vostre possibilità. In questo, come in molte scelte che i cristiani sono chiamati a fare, c’è libertà. E quindi c’è responsabilità, sei libero di donare quello che ritieni giusto sia secondo le tue possibilità, sei quindi anche responsabile di donare secondo le tue possibilità.
Qui nel cap. 9 Paolo dice che bisogna donare con generosità e non di malavoglia o per forza.
Se è per forza non è più un dono; per forza si paga una multa: a me è successo: sono passato col rosso, ed era giusto che pagassi, ma non l’ho fatto volentieri…! Un dono invece non si fa per forza, ma con gioia. E Dio ama un donatore gioioso. Il tuo dono deve renderti gioioso; lo avrete sperimentato tutti: fare un regalo gradito, che suscita gioia in chi lo riceve, rende gioioso anche chi dona.
Dunque donare liberamente, responsabilmente, generosamente (non le briciole del nostro superfluo) e con gioia. Questo è gradito a Dio. 
 
2. Che cos’è questo donare? Paolo non usa il termine colletta, ma usa altre parole: parla di “opera di grazia” e arriva a dire che si tratta di un “servizio sacro”, quindi un atto di culto (9,12). E sapete qual’è la parola che la nostra Bibbia traduce con “sovvenzione”? È diaconia, cioè servizio. Donare è culto, è servizio. E qual è il criterio con cui si rende questo servizio? Nel cap. 8 - scusate se salto un po’ di qua e un po’ di là – è quello che Dio stesso ha applicato quando ha donato la manna al suo popolo nel deserto: «Chi aveva raccolto molto non ne ebbe di troppo, e chi aveva raccolto poco, non ne ebbe troppo poco». Nè troppo, né troppo poco: questo è ciò che Dio vuole. A differenza degli esseri umani: qualcuno vuole molto e ha troppo, cosicché la conseguenza è che per forza qualcun altro ha troppo poco.
E Paolo spiega, dicendo: “la vostra abbondanza serve a supplire al loro bisogno, perché la loro abbondanza supplisca altresì al vostro bisogno, affinché ci sia uguaglianza, secondo quel che è scritto: «Chi aveva raccolto molto non ne ebbe di troppo, e chi aveva raccolto poco, non ne ebbe troppo poco».
Uguaglianza è ciò che Dio vuole. E l'uguaglianza – visto che non c’è – si raggiunge con la condivisione, con il dono di chi ha di più a chi ha dimeno: “la vostra abbondanza serve a supplire al loro bisogno” : condivisione, per raggiungere l’obiettivo dell'uguaglianza. Dunque “diaconia”, “servizio sacro”… Paolo usa termini cultuali per parlare del dono. Il dono fa parte del culto quotidiano che rendiamo a Dio, condividendo con chi ha meno di noi e più bisogno di noi. Il dono è diaconia ed è culto.

3. Inserisco qui il tema di cui di solito non si parla volentieri: le contribuzioni alla nostra cassa culto. anch’io non ne parlo volentieri, perché mi sembra sempre di chiedere soldi per me, per il mio stipendio.
Paolo parla di una colletta per i cristiani di Gerusalemme che sono in difficoltà economiche, non parla degli “stipendi” o del mantenimento degli apostoli. Tanto più che lui si manteneva lavorando… Si tratta però sempre di un “dare”, si tratta sempre di un “dono” e di condivisione. La nostra chiesa ha sempre fatto la scelta precisa che siano i membri di chiesa a mantenere i loro pastori e pastore. Non direttamente, ma attraverso la Tavola che garantisce quella uguaglianza di cui parlavano prima, perché tutti i pastori e le pastore ricevono lo stesso stipendio (a parte una piccola anzianità di servizio).
Per questo non si usa l’otto per mille per pagare i pastori. Innanzitutto perché l'otto per mille è denaro dello Stato mentre la predicazione, la cura pastorale, la catechesi è una cosa della chiesa, anzi è la vocazione della chiesa che con lo Stato non c’entra. E poi per mantenere quel legame di condivisione tra pastori e membri di chiesa: i pastori mettono il loro tempo, la loro formazione, le loro capacità, il loro impegno – sta a voi valutare se ciò sia sufficiente o no, se risponde ai vostri bisogni oppure no – e i membri di chiesa ci mettono il denaro perché i pastori possano vivere senza fare un altro lavoro.
Forse questo non c’entra direttamente con la colletta di cui parla Paolo, ma mi sembra che con le contribuzioni che siamo chiamati a dare, c’entrino i criteri che Paolo scrive qui: libertà, responsabilità, generosità, gioia. Io non vorrei che nemmeno un centesimo del mio stipendio sia dato di malavoglia o senza gioia.
Dovrebbe essere, secondo me – e forse Paolo sarebbe d’accordo – un circolo virtuoso di condivisione: io mi impegno a cercare – poi se ci riesco è un altro discorso… - di fare predicazioni più o meno decenti, di preparare studi biblici attraverso cui si possa crescere insieme, a stare accanto alle persone che lo desiderano nella cura pastorale... E voi vi impegnate con il vostro denaro affinché io possa fare tutto questo senza dover fare l’operaio o l’infermiere per mantenermi.

4. Chiudo la parentesi “contribuzioni” e torno al testo per dire un’ultima cosa: che cosa produce questo donare e ricevere, questo scambio virtuoso di doni? Paolo scrive: l'adempimento di questo servizio sacro non solo supplisce ai bisogni dei santi ma più ancora produce abbondanza di ringraziamenti a Dio […] Essi pregano per voi, perché vi amano a causa della grazia sovrabbondante che Dio vi ha concessa.
Questo scambio di donare e ricevere produce innanzitutto abbondanza di ringraziamenti a Dio e poi la preghiera di chi riceve per chi dona. Produce insomma lode a Dio e comunione tra le chiese e tra i cristiani.
Il dono, la condivisione hanno un grande effetto, secondo Paolo. La fede tocca la nostra vita materiale, dicevamo all’inizio, ma il materiale diventa spirituale. La condivisione materiale produce frutti spirituali: lode a Dio e preghiera gli uni per gli altri. Il materiale è spirituale.
Questo vale per la sottoscrizione per i terremotati come per le contribuzione per la vita della nostra chiesa, come per qualunque altra condivisione materiale.
Tutto ciò è fondato nell’opera di “ Gesù Cristo il quale – scrive Paolo al cap. 8 - , essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventare ricchi”. Per condividere ciò che si ha non è necessario essere ricchi di beni o di proprietà. È sufficiente essere ricchi della grazia di Dio, che è il donatore per definizione.
Per questo Paolo conclude la sua esortazione a dare con una lode a colui che ha dato per primo: “Ringraziato sia Dio per il suo dono ineffabile! Che è Gesù Cristo, che ha dato se stesso per noi, affinché anche noi imparassimo a donare e condividere con gioia, per far crescere la comunione nella chiesa e per dare gloria a Dio.