giovedì 30 dicembre 2021

Predicazione di domenica 26 dicembre 2021 su Isaia 7,10-14 a cura di Marco Gisola

 Isaia 7,10-14

Il SIGNORE parlò di nuovo ad Acaz, e gli disse: «Chiedi un segno al SIGNORE, al tuo Dio! Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!» Acaz rispose: «Non chiederò nulla; non tenterò il SIGNORE».  Isaia disse: «Ora ascoltate, o casa di Davide! È forse poca cosa per voi lo stancare gli uomini, che volete stancare anche il mio Dio? Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.


Il Signore stesso vi darà un segno”. Questa antica promessa fatta da Dio al suo popolo attraverso il profeta Isaia è l’evangelo di questa domenica dopo Natale. Il segno che Dio vuole dare al suo popolo è che la “giovane” partorirà un figlio cui sarà dato nome Emmanuele. E proprio questo brano di Isaia è ripreso dal vangelo di Matteo che dice che questa profezia si adempie con la nascita di Gesù. È lui l’Emmanuele, il Dio con noi.

Il testo ci presenta un breve dialogo tra Dio e il re Acaz, re di Giuda. Il re Acaz è in una brutta situazione, c’è una guerra alle porte ed è tentato di allearsi con l’Assiria, un regno grande e potente. Ma allearsi con l’Assiria significa sottomettersi a questo grande regno e anche sottomettersi alle sue divinità.

Dio non vuole questo e invita Acaz a chiedere un segno, un segno a sua scelta: “Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!”. Insomma Dio è disposto a dare un segno straordinario perché Acaz torni a fidarsi di lui.

Acaz però rifiuta di chiedere un segno, e trova una scusa molto pia, dice che non vuole tentare il Signore. Ma in realtà è perché non si fida di Dio, o meglio si fida di più dell’Assiria che di Dio. Dio ovviamente non è contento e manda Isaia a chiedere al popolo se, non contenti di stancare gli uomini, vogliano ora stancare anche Dio, cioè provocarlo con la loro mancanza di fiducia.

E Dio, attraverso Isaia, proclama che un segno lo darà lo stesso. E il segno sarà un bambino che nasce: una giovane partorirà un bambino. Probabilmente questo bambino è il re che avrebbe sostituito il re Acaz e che sarebbe stato, questa volta, un re giusto e fedele.

Dio aveva proposto ad Acaz di chiedere un segno straordinario, un segno che voleva lui, Acaz ha rifiutato e ora Dio sceglie di dare lo stesso un segno.

Però qui c’è qualcosa di strano: questo segno non è straordinario, è un segno molto ordinario: una donna che partorisce, un bambino che nasce, cose che accadono ogni giorno centinaia di volte.

Questo racconto ha degli echi nei racconti della nascita di Gesù. In Matteo come abbiamo detto è citato esplicitamente per dire che la nascita di Gesù è la realizzazione di questa promessa di Dio.

Nel vangelo di Luca non è citato, ma nel racconto di Luca troviamo la parola “segno” detta dall’angelo ai pastori: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”.

In Luca è proprio come in Isaia: il segno è un bambino appena nato. Per di più, coricato in una mangiatoia, in un riparo di fortuna perché i genitori erano in viaggio e non hanno trovato altro riparo che una stalla.

Quel bambino – dice l’angelo – è il “salvatore che è il Cristo, il Signore”, ma per ora è solo un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia. Non è un condottiero, non è un uomo forte e potente, non è un re. È un neonato.

È veramente “il salvatore, il Cristo, il Signore”, ma non si vede. Il segno che Dio dà – in Isaia come in Luca – non è ciò che vorremmo vedere, non è evidente, non è straordinario.

Che cosa è un segno? Un segno non è una dimostrazione, una prova, ma è appunto un “segno”, qualcosa che significa, che segnala, che indica qualcos’altro. Un segno chiede la nostra fede.

Chiede la nostra fede perché vedendo il segno siamo invitati a credere a ciò che quel segno ci indica. E questo segno chiede la nostra fede anche perché è un segno debole e fragile. Come tutta la storia della nascita di Gesù.

Luca ci racconta la storia del censimento, del viaggio di Giuseppe e Maria, del fatto che non c’è posto per loro nell’albergo, della mangiatoia che si trova in una stalla o in una grotta adibita a stalla… e poi i pastori, uomini impuri a causa del loro mestiere che sono i primi a visitare Gesù e ad adorarlo.

Matteo ci racconta la storia della strage degli innocenti, cioè dei bambini che il re Erode fa uccidere perché è geloso e vuole eliminare colui che pensa possa essere il suo rivale. E poi la storia dei Magi, uomini saggi, astronomi che vengono da lontano ad adorare Gesù… Insomma una storia di persone marginali, che stanno alla periferia della società e della storia.

Un segno fragile, che in sé non ha nulla di straordinario, un bambino che non si distingue da tutti gli altri bambini che sono nati, che nascono oggi e che nasceranno in questo mondo.

Gesù sarà un segno fragile dall’inizio alla fine, e soprattutto alla fine, nella passione e nella croce, verrà fuori tutta la sua fragilità. È un segno volutamente fragile, perché Dio ha voluto con l’incarnazione rivelarsi attraverso la fragilità umana per portare perdono e speranza ai noi fragili esseri umani.

Ma rivelarsi attraverso la fragilità umana non vuol dire per Dio essere meno Dio. Dio, in Gesù di Nazaret, nel neonato nella mangiatoia, è altrettanto Dio di quando separava le acque del Mar Rosso per portare Israele fuori dall’Egitto, altrettanto Dio di quando faceva trovare la manna nel deserto e faceva scaturire acqua dalla roccia per dissetare il suo popolo.

Nella fragilità di Gesù sta la forza di Dio, sta la forza del regno che Gesù porta in prima persona. Forza del regno che molte delle persone che Gesù ha incontrato hanno sperimentato: coloro che Gesù ha guarito, coloro a cui ha portato il perdono di Dio. Tutte le persone che erano a terra – fisicamente e spiritualmente - e Gesù ha rialzato con la forza della sua parola.

E a Pasqua la forza del regno vincerà persino la morte, e vincerà non annientando chi lo aveva ucciso, ma perdonando i suoi carnefici. È la forza di chi vuole vincere senza sconfiggere, senza annientare, è la forza dell’amore e del perdono.

Vera forza, ma non come la intendiamo noi, cioè come forza da usare contro altri esseri umani, bensì forza come la intende Dio, forza per il bene e la gioia degli esseri umani.

E se ci pensiamo bene, anche la resurrezione – cioè la più grande opera che Dio abbia compiuta – non è evidente, molti non ci crederanno, diranno che il corpo di Gesù è stato rubato. Anche lì, a parte i pochi che hanno incontrato il risorto, tutti gli altri hanno solo un segno, che è la tomba vuota. La tomba vuota è un segno altrettanto debole quanto il neonato coricato nella mangiatoia.

La forza di Dio si incarna nella fragilità umana del neonato di Betlemme, segno della sua presenza in mezzo a noi.

Segno che chiede la nostra fede, che ci chiede di riconoscere nel neonato coricato nella mangiatoia il “salvatore, Cristo e Signore”, che ci chiede di riconoscere nel crocifisso non la sconfitta di Dio ma la vittoria del suo amore, che ci chiede di riconoscere nella tomba vuota non un inganno ma la forza della sua resurrezione.

Gesù nasce, Gesù viene in mezzo a noi; nel neonato coricato nella mangiatoia abbiamo un segno, un segno delle grandi cose che Dio ha promesso di fare per noi e che ha fatto nella vita, morte e resurrezione di suo figlio. Il Signore è fedele e mantiene le sue promesse.

Questo segno ci è dato, la promessa di Dio ci è data. Ciò che è iniziato quella notte a Betlemme nessuno ha potuto fermarlo, nemmeno la croce ha potuto fermarlo, perché non può essere fermato.

In questo segno e in questa promessa si fondano tutta la nostra fede, tutta la nostra speranza e tutta la nostra gioia.

Predicazione del giorno di Natale 2021 su 1 Giovanni 3,1-2 a cura di Marco Gisola

 1 Giovanni 3,1-2

(culto insieme alla chiesa avventista)

1 Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. 2 Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è.


Oggi, care sorelle e fratelli, siamo qui per celebrare la nascita di Gesù, la venuta del figlio di Dio nel mondo. Il brano proposto per oggi dal nostro lezionario non è un classico brano natalizio, come quelli che abbiamo ascoltato nelle altre due letture, ma è un brano della prima lettera di Giovanni che, scrivendo alle comunità a cui manda questa lettera, dice ai membri di quelle chiese che Dio ci ha manifestato il suo amore al punto di darci di “essere chiamati figli di Dio”.

Il giorno in cui celebriamo la nascita del Figlio di Dio (con la F maiuscola!), la Scrittura ci viene a dire che noi siamo per grazia chiamati figli di Dio (con la f minuscola). Per dirla con un’immagine: nel giorno in cui nasce Gesù, nasciamo anche noi. In Gesù, diventiamo figli anche noi. L’apostolo Paolo parlerà di “adozione”: “avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: «Abbà! Padre!»” (Romani 8,15). Adozione, perché Gesù è il figlio di Dio, e noi lo siamo – o lo diventiamo – soltanto in lui e attraverso di lui.

È attraverso Gesù e grazie a Gesù che possiamo chiamare Dio nostro padre, come Gesù stesso ci ha insegnato a fare nel Padre Nostro. Non perché ce lo meritiamo o ce lo guadagniamo, ma per pura grazia. In Cristo siamo figli adottivi, figli che il Padre di Gesù ha deciso di adottare, per amore e solo per amore: “Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio”. Non è un nostro diritto essere figli di Dio, e non è un nostro merito: dipende esclusivamente dall’amore di Dio, dalla scelta di Dio di mandare il suo figlio nel mondo.

E infatti, probabilmente a noi viene spontaneo reagire dicendo: ma io non mi merito di essere chiamato figlio di Dio, è troppo per una persona piccola come me, con tutti i miei difetti e i miei peccati! E in effetti è troppo! Non ce lo meritiamo, non potremmo mai osare chiamarci figli di Dio, di definirci così davanti agli altri. Sarebbe estremamente presuntuoso. Noi non possiamo chiamarci figli di Dio. Dio invece sì, lui può, solo lui può chiamarci così. Se lo diciamo noi è presunzione, è orgoglio. Se lo dice lui è dono, è grazia. È una cosa che non possiamo dirci da noi stessi, ma che possiamo solo sentirci dire da Dio, attraverso la sua parola.

Oggi il Signore, attraverso la sua parola rivelata nella scrittura, ci dice questo, che siamo suoi figli, perché lui ci ha fatti diventare suoi figli, in Cristo, nella sua morte e resurrezione. E dunque è pura grazia, dono al cento per cento. Dio ci considera suoi figli e ci ama come figli. Essere figli di Dio non è un premio, non è uno status, non è un onore, non vuol dire entrare a far parte di una categoria privilegiata. Essere figli di Dio – o per essere più precisi: essere stati resi figli di Dio da Dio stesso – è una relazione e una vocazione.

È una relazione, una relazione padre-figlio, padre-figlia. È ovvio che questa immagine non ci vuol dire che Dio è di sesso maschile, perché Dio è Dio e i generi appartengono all’umanità. Dio è padre nostro in quanto padre di Gesù e in Gesù ci adotta come suoi figli e figlie. Una relazione che sicuramente nella società del tempo di Gesù non era paritaria; padre e figlio in quella società non sono sullo stesso piano. Il figlio dipende dal padre ed è tenuto ad ascoltare il padre e a seguire la sua volontà. E allo stesso modo noi dipendiamo da Dio, che ci ha dato la vita e che in Cristo ci da la nuova vita. E siamo chiamati ad ascoltare la sua parola e a seguire la sua volontà per costruire e orientare la nostra vita.

È una relazione fatta di dialogo e di fiducia; perché noi siamo chiamati ad ascoltare Dio, ma anche Dio ascolta noi, suoi figli e figlie, e ascolta le nostre preghiere. Il Dio biblico è un Dio che parla, ma anche un Dio che ascolta. Ed è in questo dialogo che la relazione cresce e si approfondisce.

E poi l’essere figli è una vocazione, cioè un compito: l’essere figli prevede delle responsabilità. La parola responsabilità viene dal verbo rispondere: siamo chiamati a rispondere con la nostra vita all’immenso dono dell’amore di cui Dio ci ama e grazie al quale ci chiama suoi figli e figlie. Spesso nella storia i credenti si sono ritenuti superiori agli altri, a volte persino al punto da disprezzare gli altri.

Ma l’unica cosa che abbiamo “in più” rispetto agli altri è la responsabilità di ascoltare la parola di Dio, di testimoniarla con le nostre parole e con le nostre scelte.

Questo significa essere figli e figlie di Dio: il dono di questa relazione che Dio crea con noi, adottandoci come figli e figlie in Cristo, relazione che dona gioia e speranza, e il compito di ascoltare la sua parola e viverla nelle nostre scelte quotidiane. Questa relazione con Dio, che dà senso e speranza al nostro presente, guarda anche al futuro, contiene una promessa: ora siamo figli, “ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è”.

Queste parole dell’apostolo osano guardare oltre la nostra realtà, e gettare lo sguardo alla realtà del regno. Qui, in questa nostra vita terrena siamo figli, siamo stati adottati per grazia, ma nel regno saremo addirittura “simili a lui”. Simili a Dio è un’espressione enigmatica, che si riferisce al fatto che con Dio avremo una piena comunione, che noi saremo con lui e lui sarà con noi. Qui l’apostolo cerca di dire l’indicibile, di esprimere l’inesprimibile.

Da voce alla promessa che è rivolta ai figli e alle figlie. Una promessa che da senso, gioia e speranza alla nostra vita qui ed ora. Non è manifesto quel che saremo, non si sa, non lo sappiamo ed è in fondo inutile saperlo. Ciò che è invece fondamentale che sappiamo è che saremo simili a Dio, cioè saremo con Dio e non vivremo più immersi nelle domande e nei dubbi, ma vedremo Dio faccia a faccia.

Oggi, care sorelle e fratelli, siamo qui per celebrare la nascita di Gesù, la venuta del figlio di Dio nel mondo. Siamo qui per celebrare un inizio. Ma il testo di oggi ci fa guardare alla fine, al regno. Perché la fine è già contenuta in quell’inizio.

In quell’inizio, in quel bambino coricato nella mangiatoia, in quel bambino che nasce durante un viaggio e appena nato è già profugo, perché i suoi genitori devono fuggire in Egitto per salvare la vita di Gesù, in quell’inizio c’è già il nostro presente e il nostro futuro.

Quell’inizio cambia la storia, cambia la nostra storia personale. Pensate a che cosa saremmo oggi se Gesù non fosse nato, se il figlio di Dio non fosse venuto nel mondo.

In quell’inizio c’è il nostro presente di figli e figlie, nel suo figlio Gesù Cristo Dio rende noi figli e figlie adottivi. Un dono e una vocazione, un dono che dà gioia e una vocazione che dà senso alla nostra vita.

E in quell’inizio c’è il nostro futuro, che non è ancora manifesto, perché è nelle mani di Dio ed è più grande di quello che possiamo immaginare.

Tra parentesi, visto che oggi siamo qui a celebrare questo culto insieme membri di chiese diverse, trovo che il messaggio che ci viene dalla Parola di Dio di oggi sia molto adatto al nostro essere insieme. Noi siamo oggi qui insieme avventisti e valdesi, ma Dio non vede in noi degli avventisti e dei valdesi, Dio vede in noi “soltanto” dei figli e delle figlie.

Non vede in noi ciò che la storia, la teologia, gli eventi storici hanno fatto di noi, ma vede in noi ciò che lui ha fatto di noi: figli e figlie, niente di più (perché di più non c’è…!) e niente di meno.

Perché l’azione della grazia di Dio è più grande delle nostre realtà storiche, più grande delle nostre chiese, che pure amiamo e di cui siamo membri attivi. E il nostro futuro, di tutti noi, che siamo avventisti o valdesi, è nelle sue mani, per tutti noi vale la parola: non è ancora manifesto ciò che saremo.

Ciò che siamo – figli e figlie – e ciò che saremo è nelle mani di Dio e della sua immensa grazia.

E tutto ha avuto inizio in quella notte a Betlemme, inizio che contiene già tutto ciò che Gesù farà per noi, tutto il nostro presente e tutto il nostro futuro.

Ci dia il Signore di essere figli e figlie che lo ascoltano, lo seguono, lo lodano, e che vivono, gioiscono e sperano in lui che ci ha amati così tanto da chiamarci suoi figli.

domenica 5 dicembre 2021

Predicazione di domenica 5 dicembre 2021 (2a di avvento e Domenica della Diaconia) su Rut 1,1-17 a cura di Marco Gisola

 Rut 1,1-17

1 Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia, e un uomo di Betlemme di Giuda andò a stare nelle campagne di Moab con la moglie e i suoi due figli. 2 Quest'uomo si chiamava Elimelec, sua moglie, Naomi, e i suoi due figli, Malon e Chilion; erano efratei, di Betlemme di Giuda. Giunsero nelle campagne di Moab e si stabilirono là.

3 Elimelec, marito di Naomi, morì, e lei rimase con i suoi due figli. 4 Questi sposarono delle moabite, delle quali una si chiamava Orpa, e l'altra Rut; e abitarono là per circa dieci anni. 5 Poi Malon e Chilion morirono anch'essi, e la donna restò priva dei suoi due figli e del marito. 6 Allora si alzò con le sue nuore per tornarsene dalle campagne di Moab, perché nelle campagne di Moab aveva sentito dire che il SIGNORE aveva visitato il suo popolo, dandogli del pane. 7 Partì dunque con le sue due nuore dal luogo dov'era stata, e si mise in cammino per tornare nel paese di Giuda.

8 E Naomi disse alle sue due nuore: «Andate, tornate ciascuna a casa di sua madre; il SIGNORE sia buono con voi, come voi siete state con quelli che sono morti, e con me! 9 Il SIGNORE dia a ciascuna di voi di trovare riposo in casa di un marito!» Le baciò; e quelle si misero a piangere ad alta voce, 10 e le dissero: «No, torneremo con te al tuo popolo». 11 E Naomi rispose: «Tornate indietro, figlie mie! Perché verreste con me? Ho forse ancora dei figli nel mio grembo che possano diventare vostri mariti? 12 Ritornate, figlie mie, andate! Io sono troppo vecchia per risposarmi; e anche se dicessi: "Ne ho speranza", e anche se avessi stanotte un marito, e partorissi dei figli, 13 aspettereste voi finché fossero grandi? Rinuncereste a sposarvi? No, figlie mie! Io ho tristezza molto più di voi, perché la mano del SIGNORE si è stesa contro di me». 14 Allora esse piansero ad alta voce di nuovo; e Orpa baciò la suocera, ma Rut non si staccò da lei. 15 Naomi disse a Rut: «Ecco, tua cognata se n'è tornata al suo popolo e ai suoi dèi; torna indietro anche tu, come tua cognata!» 16 Ma Rut rispose: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; 17 dove morirai tu, morirò anch'io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!»



Questa domenica si intrecciano nel nostro culto due aspetti importanti della vita della nostra chiesa: il primo è il tempo liturgico, il tempo di avvento che è iniziato domenica scorsa, e che ci accompagna alla nascita di Gesù. Il secondo aspetto è il tema di questa domenica, che è la domenica della diaconia, una domenica in cui si vuole riflettere su ciò che la nostra chiesa fa nel mondo a servizio degli ultimi; “diaconia” come sapete significa servizio; e in modo particolare oggi il tema della domenica è quello delle migrazioni e la colletta di oggi è destinata ai progetti di accoglienza della Diaconia valdese, sopratutto i progetti per i minori non accompagnati. Ed è proprio la Diaconia valdese che ha scelto il testo su cui riflettere insieme oggi nelle nostre chiese. È l’inizio della storia di Rut, storia che c’entra con il tema delle migrazioni e che c’entra anche con l’avvento e con Gesù, perché Rut è una delle antenate di Gesù ed è nominata nel vangelo di Matteo proprio per questo motivo. Il libro di Rut finisce infatti con la nascita di suo figlio che sarà il nonno del re Davide e sappiamo che Giuseppe è un discendente del re Davide, e che era tra i discendenti di Davide che doveva venire il messia. Potremmo dire che la storia biblica, come accade sempre, si intreccia con la nostra storia. Vediamo allora la storia di Rut. Essa è una storia di migrazioni: il suo libro inizia col racconto di una famiglia di israeliti che emigra.

Dobbiamo tenere presente che le migrazioni hanno sempre due punti di vista: ciò che noi chiamiamo immigrazione è prima di tutto sempre emigrazione. A volte rischiamo di dimenticare che un immigrato - di oggi o di ieri - è prima di tutto un emigrato, una persona che ha lasciato il proprio paese, forse la propria famiglia, la propria cultura, la propria lingua e così via. Così accade alla famiglia di Noemi ed Elimelech, che emigrano nel paese di Moab, paese pagano ai confini di Israele, perché in Israele non c’è pane. Betlemme, che significa casa del pane, non è più fedele al suo nome, non dà più pane ai suoi abitanti. La storia l’abbiamo sentita: Noemi ed Elimelec hanno due figli, che sposano due donne moabite, ma la tragedia colpisce questa famiglia e tutti gli uomini muoiono, lasciando tre donne vedove. Nel cuore di questa tragedia, che vede tre donne vedove, succede però una cosa positiva, c’è una svolta. E la svolta ha due nomi strettamente intrecciati tra di loro: i due nomi sono pane e Dio. Dio ha visitato Israele e ha dato di nuovo il pane al suo popolo; la carestia è finita, ora Betlemme è di nuovo Betlemme, la casa del pane. Noemi decide quindi di tornare a casa. Questo ci fa anche riflettere sul fatto che le emigrazioni, potrebbero, almeno qualche volta, concludersi con un ritorno in patria. Ma bisogna che in patria cambi qualcosa e in Israele qualcosa è cambiato perché Dio lo ha visitato e la carestia è finita.

Per ritornare bisogna che cambi qualcosa e se le cose non cambiano non si può ritornare; se la vita nei paesi di partenza non cambia, se continua ad esserci guerra o miseria, chi emigra non torna, a meno che vi sia costretto, come nel caso dei respingimenti; ma in quel caso molto probabilmente tenterà di partire un’altra volta. La nostra storia ci presenta invece un ritorno; e non solo: ci presenta Rut che emigra per amore della suocera, non vuole abbandonarla; anche l’altra nuora, Orpa, non voleva abbandonarla, ma poi si lascia convincere dalla suocera e torna dalla sua famiglia di origine. Di lei non sappiamo più nulla, ma dobbiamo sottolineare il fatto che il racconto non dà nessun giudizio su Orpa, la nuora che rimane nel paese di Moab. Rut e Orpa compiono due libere scelte, entrambe possibili.

Nel racconto biblico è ora Rut l’emigrante che dovrà vivere in un paese straniero, che per fortuna l’accoglierà. E come Rut viene accolta è molto interessante: Israele la accoglie innanzitutto con le sue leggi a favore dei poveri. La legge di Mosè prevede che i poveri possano andare a spigolare, cioè a raccogliere quello che rimane nei campi dopo il raccolto. E anzi, la legge prescriveva espressamente che non si raccogliesse tutto quello che c’era, ma se ne lasciasse un po’ per chi non aveva campi e non aveva da mangiare. La legge che Dio aveva data a Mosè prevede questo arcaico e semplice “stato sociale”: un po’ di pane per chi non ha pane. E poi Rut viene accolta dalla bontà di un uomo, Boaz, che la sposerà e dalla loro unione nascerà il nonno del re Davide. È interessante che in questa antica storia di Rut, con tutti i limiti della società del tempo, la Bibbia ci mostri come l’accoglienza passi sia attraverso una legge giusta, che garantisce il minimo per sopravvivere, sia attraverso la generosità degli esseri umani. Per essere accolti in un paese straniero c’è bisogno di leggi che diano dei diritti, ma non bastano le leggi, ci vuole anche la generosità delle persone che vi abitano. E del resto non basta la generosità delle persone, ma c’è bisogno anche di leggi giuste.

La storia di Rut s’intreccia anche con la storia della nascita di Gesù, perché come abbiamo detto Rut è citata nel vangelo di Matteo nell’elenco delle antenate di Gesù. In questo elenco ci sono solo quattro donne e c’è anche Rut la moabita, dunque una straniera, immigrata in Israele. Anche il tema delle migrazioni si intreccia con la storia della nascita di Gesù, perché nel vangelo di Matteo Gesù, Maria e Giuseppe devono fuggire in Egitto, perché Erode vuole uccidere Gesù. Qui si tratta di una migrazione dovuta alla persecuzione, come accade a tante donne e uomini anche oggi. Grazie a Dio, Gesù e i suoi genitori potranno tornare nel loro paese quando Erode non ci sarà più. Quindi anche Gesù è stato, per un po’ di tempo, un emigrato, e una emigrata è la sua antenata Rut.

Abbiamo detto che la svolta sta nel pane che a Betlemme c’è di nuovo, perché è finita la carestia; si può di nuovo vivere a Betlemme e che questo pane è dono di Dio, che ha visitato il suo popolo. Il pane, cioè il cibo per nutrirsi è ovviamente il bisogno essenziale per ogni essere umano, per sopravvivere. Ma per vivere serve qualcosa di più del pane, che serve appunto a sopravvivere. A questo proposito trovo interessante ciò che sul pane ha scritto Lutero, commentando la richiesta del Padre nostro “dacci oggi il pane quotidiano” nel suo “Piccolo catechismo”. Lutero si chiede che cosa significa pane quotidiano e la risposta che si da è: “tutto ciò che fa parte del nutrimento e delle esigenze del corpo, come mangiare, bere, vestiti, scarpe, casa …” e poi aggiunge altre cose tra cui “buon governo, buon tempo, pace, salute…”. Il pane è essenziale ma non basta, si può avere pane e non avere la libertà, non vedere rispettati i propri diritti. Si può avere il minimo per sopravvivere ma non una scuola dove mandare i propri figli, o ospedali dove curare le persone malate. Chi emigra non lo fa solo perché a casa propria non ha da mangiare o una casa, ma anche perché nel suo paese non può avere, come dice Lutero, “buon governo, buon tempo, pace, salute…”.

Dove sta Dio in questa storia, nella storia di Rut e Noemi? Abbiamo detto che Dio sta nella svolta che porta Noemi a decidere di tornare in Israele, Dio sta nel pane che torna ad esserci a Betlemme, dove prima scarseggiava a causa della carestia. Ma, come dicevo poco fa, Dio sta anche nella legge che ha dato a Mosè, che prevede il diritto per i poveri di andare a spigolare. E visto che oggi parliamo di diaconia, penso che dobbiamo chiederci dove stiamo noi nel mondo, qual è il nostro posto e il nostro compito, come discepoli e discepole di Gesù, che appena nato fu costretto a emigrare per salvarsi la vita e che è discendente di Rut la moabita, immigrata in Israele.

Noi siamo chiamati a stare dove anche Dio sta, ovvero dalla parte del pane e delle buone leggi. Davanti al fenomeno delle migrazioni, oltre a sperare e a lavorare affinché le cose nei paesi di partenza cambino e non ci sia più bisogno di emigrare, qui dove siamo, nel nostro paese, ora possiamo testimoniare l’evangelo di Gesù Cristo lavorando sul pane e sulle leggi. Quello sulle leggi è un discorso complicato che non può entrare in una predicazione. Quello del “pane” – nel senso di Lutero, cioè tutto ciò che fa sì che una vita sia dignitosa - è l’ambito in cui lavora la nostra Diaconia e per cui è destinata la colletta di oggi.

La colletta è destinata ai progetti a favore dei minori non accompagnati, quelli cioè che arrivano in Italia soli, senza genitori o altri adulti che si occupino di loro.

La loro vita non è dignitosa ed è anche a rischio: rischio della vita e rischio di cadere nelle mani di trafficanti. Con questi progetti la Diaconia valdese tenta di fare qualcosa per alcuni di loro. Questo non deve renderci orgogliosi o metterci in pace la coscienza. Possiamo casomai essere grati al Signore che – come chiesa - ci dà la possibilità di fare qualcosa per tentare di essere dalla parte dove anche lui sta.

Gesù nasce a Betlemme, Rut migra insieme a Noemi a Betlemme, la casa del pane. Dio ha dato pane sufficiente per tutta l’umanità. In questo tempo di avvento e nel lungo avvento che ci separa dal ritorno di Gesù, chiediamo a Dio di aiutarci a far sì che questo mondo che egli ci ha dato sia Betlemme, sia casa del pane, dei diritti, della dignità, per tutti gli esseri umani, come lui vuole che sia.