domenica 26 luglio 2020

Predicazione di domenica 26 luglio 2020 su Matteo 13,44-52 a cura di Daniel Attinger

LA GIOIA DEL REGNO

Testi delle letture : Rom 8,18-25 e Mt 13,44-52

Matteo 13. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: 44 “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nascose; e per la sua gioia, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo.

45 Ancora: il regno dei cieli è anche simile a un mercante in cerca di belle perle 46 e trovata una perla di gran valore la comprò dopo essere andato a vendere tutto ciò che possedeva.

47 Di nuovo: il regno dei cieli è simile a una rete capiente che è stata gettata in mare e ha raccolto ogni genere di pesce. 48 Una volta piena, la si tira su verso riva, ci si siede a raccogliere il buono in un contenitore e a gettare via ciò che è inutile. 49 Così sarà alla fine del tempo presente: gli angeli usciranno a separare i malvagi dai giusti 50 e li getteranno nella fornace di fuoco; là sarà il pianto e il digrignare dei denti.

51 Avete inteso?” “Sì” gli dicono. 52 Ed egli disse loro: “Perciò ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa: egli tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie”.


Carissimi,

Il testo dell’evangelo che abbiamo appena ascoltato è la conclusione del grande capitolo tredicesimo dell’evangelo secondo Matteo tutto consacrato alle parabole del regno di Dio. È là che si trovano le parabole ben conosciute del seminatore, delle zizzanie tra il grano, del chicco di senape e del lievito. Anche le parabole di oggi, del tesoro nascosto, del mercante in cerca di perle preziose e della rete, sono parabole che vogliono evocare il regno di Dio che sta al centro della predicazione di Gesù, come lo ricorda Matteo fin dai primi capitoli del suo evangelo; quando Gesù comincia il suo ministero, proclama:

Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino! (Mt 4,17).

Questo capitolo risponde essenzialmente a due domande.

Da una parte c’è la domanda sulle parabole: perché Gesù sceglie di presentare gran parte della sua predicazione attraverso queste storielle che talvolta sembrano indovinelli. È ciò che si vede soprattutto nella prima parte del capitolo: dopo che ha narrato la parabola del seminatore, i discepoli gli chiedono: “perché parli loro in parabole?” (13,10). La risposta di Gesù è difficile e non possiamo esaminarla oggi. Riteniamo però dalla risposta di Gesù un insegnamento impor­tante: il regno di Dio fa parte di un “mistero”; Gesù infatti dichiara: “a voi è stato dato di cono­scere i misteri del regno dei cieli, agli altri invece (cioè alla folla) non è stato dato” (13,11). Atten­zione però a non confondere i misteri con ciò su cui non serve riflettere, perché comunque non si comprenderà! Il mistero non è ciò che non si capisce, ma ciò in cui c’è troppo da capire, o ciò che non si finirà mai di capire; è realtà che ci fa andare da scoperte in scoperte… a condizione però che non si smetta di cercare.

L’altra domanda, più direttamente legata al testo di oggi, concerne invece il regno dei cieli in quanto tale: di che cosa Gesù parla quando annuncia il regno dei cieli, o regno di Dio (sappiamo infatti che Matteo parla sempre del “regno dei cieli”, perché condivide con il mondo ebraico la reticenza nel pronunciare il nome di Dio, per non nominarlo invano). Ogni parabola di questo capitolo narra un aspetto particolare del regno.

Allora cosa queste brevissime parabole ci dicono del regno di Dio che Gesù proclama?

1) Ecco un uomo che lavora un campo non suo – probabilmente un bracciante, un operaio agricolo o uno schiavo che lavora per un padrone –; ora, mentre lavora scopre un tesoro. Geloso della sua scoperta, la nasconde, vende tutto ciò che ha e compra il campo. Qui Gesù sottolinea il prezzo inestimabile del regno: è l’equivalente di tutto ciò che uno ha, di tutto ciò che è; il regno è più prezioso della nostra stessa vita. Ma la parabola dice, nel contempo, che questa rinuncia non è un’azione ascetica, né un’opera penosa o faticosa: è “per la gioia” della sua scoperta che quel bracciante rinuncia a tutto, perché il regno vale più di tutto ciò che si possa immaginare.

2) La parabola del mercante che cerca perle è molto simile. Anche qui si “vende tutto” per comprare quella perla. La diversità sta nel fatto che, mentre il lavoratore ha trovato il tesoro mentre era occupato al suo lavoro quotidiano – il che ci ricorda che il Regno è “nascosto” nel nostro ordinario, nelle relazioni che abbiamo quotidianamente con uomini e donne che incontriamo o con i quali viviamo e lavoriamo –, il mercante, da parte sua, “cerca” perle belle e preziose. Qui Gesù sottolinea che il regno di Dio non si trova “per caso”; va cercato giorno per giorno. Ma cosa significa “cercare il regno di Dio”?

La parabola non ce lo dice, tutt’al più ci rende attenti al fatto che quel mercante deve essere attento alle contraffazioni: nel mercato delle perle si trovano infatti anche tutte quelle che non sono vere perle. Lo stesso vale per il Regno: tante cose si presentano come ciò che ci procura la gioia perfetta, ma sono solo trappole per impadronirsi del denaro dell’ignorante o dell’ingenuo, oppure per ingannarli.

3) È proprio ciò che sottolinea con maggior forza la terza parabola, quella della rete. Qui i pescatori prendono di tutto nella loro rete, ma poi occorre fare una cernita per conservare solo il buono, cioè il commestibile, mentre il resto è buttato via. Occorre però a questo punto fare una precisazione importante: la separazione del buono dal cattivo o dall’inutile avviene “alla fine del tempo”, come Gesù aveva già detto quando spiegava la parabola delle zizzanie tra il grano.

Dunque, alla fine vi sarà il giudizio! Questo è un insegnamento dell’evangelo sul quale per secoli si è molto insistito. Basta visitare qualche chiesa medievale o anche più recente: poche sono quelle che non hanno un affresco o un dipinto del giudizio universale con un’attenzione particolare ai supplizi subiti dai cattivi. Si trattava di incutere paura nel cuore dei fedeli per ottenere più facilmente la loro obbedienza.

Eppure questo non è l’intento della parabola narrata da Gesù, come neanche quello della parabola della zizzania. Esse ci ricordano invece che non dobbiamo scandalizzarci dal fatto che il male sia sempre intrinsecamente mescolato al bene, come l’ingiusto al giusto, il brutto al bello. Anzi, non solo non dobbiamo scandalizzarci, ma non dobbiamo nemmeno pretendere di saper fare noi il discernimento tra l’uno e l’altro. Siamo chiamati invece a cercare il bene anche in mezzo a tanti mali, cercare il giusto nonostante l’ingiustizia che colpisce ovunque, persino i giudici e i santi! Questo miscuglio ci deve condurre alla pazienza gli uni verso gli altri.

Insieme, questi tre insegnamenti formano un bell’annuncio del Regno.

Ci viene detto anzitutto che è una realtà nascosta, ma non fuori dalla nostra portata; anzi sta vicinissimo a noi, è magari nascosta in noi stessi, come il Cristo che vive in noi. In quanto tale può spuntare, o manifestarsi, proprio in mezzo alle nostre attività quotidiane, come avvenne con il tesoro scoperto dall’operaio mentre svolgeva il suo lavoro ordinario.

La seconda parabola ci rende invece attenti al fatto che se lo vogliamo trovare, lo si può anche cercare, come Gesù disse una volta: “Chi cerca trova”. E questa ricerca non è un’attività penosa o affaticante: si tratta fondamentalmente di esercitare l’occhio per vedere che, anche quando tutto sembra senza uscita, quando si ha l’impressione che il male prevalga ovunque, quando si è presi dalla disperazione – e sono cose che ci capitano, come ben sappiamo –, spunta qua e là del bene che ravviva la speranza; come dice l’Apostolo che abbiamo sentito nella prima lettura:

Sappiamo che tutto coopera al bene per quelli che amano Dio (Rm 8,28).

Infine queste parabole ci ricordano che il Regno è una cosa così bella e preziosa che prevale su tutta la nostra esistenza, anzi che possiamo lasciar perdere tutto il resto, perché in questo regno sta tutta la nostra gioia. Comprendiamo allora in fin dei conti che il regno – il tesoro o la perla – non è altro che Gesù Cristo, colui che ha dato la sua vita per noi e che per noi è il volto del Dio nel quale crediamo.

A lui, come al Cristo, suo Figlio e allo Spirito, sia lode e gloria, ora e sempre.

Amen.

lunedì 20 luglio 2020

Predicazione di domenica 19 luglio 2020 su Deuteronomio 7,6-12 a cura di Marco Gisola

Deuteronomio 7,6-12



Infatti tu sei un popolo consacrato al SIGNORE tuo Dio. Il SIGNORE, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra. Il SIGNORE si è affezionato a voi e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, anzi siete meno numerosi di ogni altro popolo, ma perché il SIGNORE vi ama: il SIGNORE vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha liberati dalla casa di schiavitù, dalla mano del faraone, re d'Egitto, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri. Riconosci dunque che il SIGNORE, il tuo Dio, è Dio: il Dio fedele, che mantiene il suo patto e la sua bontà fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti, ma a quelli che lo odiano rende immediatamente ciò che si meritano, e li distrugge; non rinvia, ma rende immediatamente a chi lo odia ciò che si merita. Osserva dunque i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che oggi ti do, mettendoli in pratica.
Se darete ascolto a queste prescrizioni, se le osserverete e le metterete in pratica, il SIGNORE, il vostro Dio, manterrà con voi il patto e la bontà che promise con giuramento ai vostri padri.


«… Il Signore vi ama». Questo brano è in fondo una dichiarazione di amore verso Israele da parte di Dio. Questa dichiarazione di amore utilizza un linguaggio che non è quello tipico dell’amore umano, ma utilizza il linguaggio, che è tipico della Bibbia, della “elezione”. «Il SIGNORE si è affezionato a voi e vi ha scelti … perché il SIGNORE vi ama». Dio ama, quindi sceglie.

È un amore chiaramente impari, squilibrato, Dio ha scelto, non il popolo. Dio ama Israele, Israele chissà… chissà se ama Dio… chissà se ricambia l’amore che riceve…

Dio ha scelto e si è legato a Israele. Perché a Israele? Da che mondo è mondo le nazioni più forti sono anche le più grandi, grandi numericamente, grandi tecnicamente, grandi finanziariamente. Guardate come vanno le cose oggi a livello mondiale: c’è il G7, il G8, il G20… le nazioni più “forti”, ovvero più industrializzate, più ricche, più potenti.

Vi sono invece degli Stati nel mondo di cui non si conosce nemmeno l’esistenza, io a volte sento dei nomi di piccole nazioni che non conosco e me ne vergogno. La dinamica piccolo-grande conta tantissimo, conta nel mondo di ieri e in quello di oggi.

Ma non per Dio! Dio si è «affezionato» a questo piccolo popolo, non a uno grande. Non all’Egitto o all’Assiria, le grandi potenze del tempo, ma a Israele, un piccolo popolo, che non conta nulla davanti alle grandi e forti nazioni del tempo.

Paolo lo esprimerà in modo straordinario quando dirà che Dio «ha scelto le cose pazze del mondo, le cose deboli […], le cose che non sono…» (1 Cor. 1,27.28)

Non c’è merito da parte di Israele – e oggi da parte nostra, dei cristiani - e non c’è virtù o qualità per cui Dio sia portato a scegliere uno piuttosto che l’altro, c’è solo amore, solo grazia. La scelta di Dio che rende Israele il tesoro particolare di Dio.

Non è una scelta contro gli altri popoli, anche se spesso il conflitto tra Israele e gli altri popoli sarà duro, ma una scelta per Israele, per amore di Israele, che – come il padre Abramo – ha la vocazione di essere benedizione per tutti i popoli.

Affermare la grazia di Dio però non è una bella teoria o uno slogan teologico. L’idea della elezione, cioè della scelta di Dio, ci salva in fondo dal rischio di essere troppo teorici, di essere astratti: quello che siamo – credenti tiepidi, discepoli e discepole pieni di contraddizioni, ma soprattutto peccatori e peccatrici perdonati – lo siamo perché Dio lo ha voluto e lo ha scelto per noi.

La nostra tiepidezza (o a volte all’opposto l’entusiasmo presuntuoso, che è peggio) e le nostre contraddizioni (mescolate con l’illusione di essere coerenti, che è ancora peggio) sono la nostra “piccolezza” di cui parla Dio nel brano di oggi. Dio dice a Israele: non ti ho scelto per quello che sei, ma per quello che non sei, non sei un grande popolo, non sei una nazione potente, non sei un popolo forte.

Per questo ti ho scelto. Perché tu non devi essere grande, potente, forte, tu devi essere il mio «tesoro», dice Dio: «il SIGNORE, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra».

Prima del “dover essere” - devo essere fedele, devo essere coerente, devo essere così e cosà – c’è l’essere, c’è ciò che sei già per decisione e grazia di Dio, grazie alla sua elezione: il suo tesoro particolare. Il dover essere viene dopo.

Devi essere tante cose, ma non “devi essere” o diventare il suo tesoro, perché lo sei già, lo ha già deciso lui, la tua piccolezza, la tua tiepidezza, le tue contraddizioni non ti tolgono questo fatto, che è un fatto perché Dio lo ha deciso: sei il suo tesoro.

E l’amore di Dio si vede nei fatti: «il SIGNORE vi ama: il SIGNORE vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha liberati dalla casa di schiavitù». Il gesto, l’atto d’amore principale di Dio verso il suo popolo è stata la liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Dio ama Israele e lo vuole libero.

Il suo tesoro non deve essere schiavo, ma libero. E Dio darà a Israele la sua Torah perché Israele usi bene la sua libertà e nessun membro del popolo debba perderla a causa dell’ingiustizia di qualcun altro. Dio non si limita a proclamare il suo amore, ma ne dà un esempio molto concreto, che Israele non può e non deve dimenticare.


2. Dopo l’essere – sei il tesoro particolare di Dio - c’è poi anche il dover essere, c’è la richiesta di Dio, perché la grazia interpella, chiama e trasforma: innanzitutto «Riconosci dunque che il SIGNORE, il tuo Dio, è Dio: il Dio fedele, che mantiene il suo patto e la sua bontà fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti».

E poi «Osserva dunque i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che oggi ti do, mettendoli in pratica». Riconosci che Dio è Dio e osserva i suoi comandamenti.

Riconosci che Dio è quel Dio che ti ha scelto, che ti ama, che ti ha eletto e fatto diventare il suo tesoro particolare e che ti ha liberato dalla schiavitù. Non hai a che fare con un Dio sconosciuto, che non sai chi è e che cosa fa.

La liberazione dalla schiavitù è l’evento centrale che rende il popolo un popolo, mentre prima era una grande massa di schiavi. Lì Dio si è presentato come il Dio dei padri Abramo, Isacco e Giacobbe (dunque un Dio che conoscevano già) e si è rivelato come Dio liberatore.

E anche noi cristiani conosciamo Dio, che si è rivelato in Gesù Cristo, nella sua morte e resurrezione e nei suoi insegnamenti, anche per noi Dio è il Dio liberatore e misericordioso che ci è venuto incontro in Gesù e che incontriamo nella sua Parola.

Riconosci che Dio è Dio e che in Gesù ti viene incontro per annunciarti il suo perdono e il suo regno di giustizia e di pace.

E che ti viene incontro anche con la sua parola esigente: «Osserva dunque i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che oggi ti do, mettendoli in pratica».

Dio osserva il suo patto e chiede al suo popolo di osservarlo anche lui. Perché quella con Dio è una relazione, una relazione impari, squilibrata, ma sempre una relazione tra lui e noi, tra lui e te.

La relazione è fatta di fedeltà e di misericordia da un lato (Dio) e di fiducia e obbedienza dall’altro (noi). La fedeltà e la misericordia di Dio sono certe, la fiducia e l’obbedienza nostre sono molto incerte, sono anzi molto vacillanti e sempre bisognose del suo perdono.

Questo brano contiene anche parole minacciose: «a quelli che lo odiano rende immediatamente ciò che si meritano, e li distrugge», parole da far tremare i polsi. Parole che vogliono dire che non si può prendere in giro Dio, non si può ascoltare la sua parola e poi ignorarla, non si può fare finta di stare nel patto, non si può volere la misericordia di Dio, ma non l’obbedienza che ci chiede.

Le parole di questo brano esprimono la grande misericordia di Dio «che mantiene il suo patto e la sua bontà fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano» e poi, con le parole che ho definito “minacciose” esprime la richiesta di obbedienza, di risposta alla sua misericordia.

I comandamenti, come sappiamo, toccavano e riempivano tutta la vita del popolo, allo scopo di costituire e mantenere Israele quale comunità libera, fedele e giusta. La disobbedienza, il non rispettare il patto con Dio significa mettere in crisi o in pericolo la libertà, la fedeltà e la giustizia del popolo.

Il Dio del patto dona libertà e chiede fedeltà e giustizia; se fedeltà e giustizia vengono meno, il patto stesso è in pericolo.

Essere il tesoro di Dio non è soltanto un dono, è anche un compito. Questo compito è la nostra vita, che è fondata sulla fedeltà di Dio, che ci ha liberarti in Cristo e ci chiede fedeltà e giustizia.

Siamo il tesoro di Dio e in quanto “tesoro” ci è chiesta fedeltà al patto con Dio e giustizia nei confronti degli altri esseri umani.

Che Dio ci aiuti ad essere giusti e fedeli al suo patto e ci ricordi sempre che siamo il suo tesoro, che lui ha scelto semplicemente perché ci ama.




domenica 12 luglio 2020

Predicazione di domenica 12 luglio 2020 su Luca 5,1-11 a cura di Marco Gisola

Luca 5,1-11

1 Mentre egli stava in piedi sulla riva del lago di Gennesaret e la folla si stringeva intorno a lui per udire la parola di Dio, 2 Gesù vide due barche ferme a riva: da esse i pescatori erano smontati e lavavano le reti. 3 Montato su una di quelle barche, che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra; poi, sedutosi sulla barca, insegnava alla folla.
4 Com’ebbe terminato di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo, e gettate le reti per pescare». 5 Simone gli rispose: «Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiamo preso nulla; però, secondo la tua parola, getterò le reti». 6 E, fatto così, presero una tal quantità di pesci, che le reti si rompevano. 7 Allora fecero segno ai loro compagni dell’altra barca, di venire ad aiutarli. Quelli vennero e riempirono tutt’e due le barche, tanto che affondavano. 8 Simon Pietro, veduto ciò, si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9 Perché spavento aveva colto lui, e tutti quelli che erano con lui, per la quantità di pesci che avevano presi, 10 e così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Allora Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11
Ed essi, tratte le barche a terra, lasciarono ogni cosa e lo seguirono.



1. Il testo di oggi è un mix, un intreccio, tra un racconto di miracolo e un racconto di chiamata. E forse proprio questo intreccio ci aiuta a capire sia il racconto di miracolo – la pesca miracolosa – sia la chiamata dei primi discepoli da parte di Gesù. Già, perché dobbiamo notare che siamo al cap. 5 del vangelo di Luca e Gesù non ha ancora dei discepoli! Secondo Luca, Gesù dopo le tentazioni nel deserto (cap. 4) se ne va in giro da solo a predicare, partendo dalle sinagoghe e in particolare dalla sinagoga di Nazaret, il villaggio in cui è cresciuto e da cui viene subito cacciato via! Poi inizia a compiere alcune guarigioni e qui compare Pietro – che il vangelo all’inizio chiama però Simone – che lo fa entrare in casa sua dove Gesù guarisce sua suocera. Dunque a questo punto del racconto Pietro e Gesù si conoscono già, Gesù frequenta casa di Pietro, ma Pietro non è ancora suo discepolo; forse fa parte di quella folla che accorre ad ascoltarlo ed è interessato a ciò che Gesù insegna, ma non è ancora un discepolo.

In questa scena Gesù sta parlando alla folla in riva al lago ma Pietro questa volta non è lì ad ascoltarlo, perché ha dovuto andare a lavorare: ha passato tutta la notte sul lago a pescare insieme ai suoi colleghi pescatori – perché è di notte che si va a pescare - e non hanno preso nemmeno un pesce. Venuto giorno sono tornati a riva e stanno lavando le reti per metterle via; sono stanchi e probabilmente pensano: “speriamo che la prossima notte vada meglio…” Gesù li vede, è circondato dalla folla e in un primo momento usa la barca di Pietro come “pulpito”: sale sulla barca mentre la gente continua ad ascoltarlo da riva. Quando finisce di parlare, dice a Pietro di prendere il largo e gettare di nuovo le reti.

Gesù insegna a tutti, alla folla indistinta, perché il suo messaggio è per tutti. Ma a un certo punto si rivolge a una persona ben precisa, a Pietro, e gli dà questo strano ordine, strano perché è assurdo, la pesca si fa di notte, non di giorno… e ci hanno già provato tutta la notte senza successo! Gesù si rivolge a una persona ben precisa, perché il suo evangelo è per tutti, ma questo “tutti” deve diventare “qualcuno” e deve cambiare la vita di “qualcuno”.

Questo “qualcuno” qui è Pietro. Notiamo la umanissima e bellissima risposta di Pietro: prima il lamento: «Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiamo preso nulla». È comprensibile che un pescatore che abbia pescato tutta la notte sia stanco e non abbia nessuna voglia di tornare al largo…! Stanco e pure deluso per non aver preso nulla. Ma il lamento, o almeno l’obiezione, è una tipica risposta umana davanti al comandamento di Dio (ricordate Mosè, quante obiezioni quando Dio va a dirgli di tornare in Egitto per liberare il suo popolo…!). Ma dopo il lamento c’è la fiducia: «però, secondo la tua parola, getterò le reti». È molto umano questo Pietro, che sembra dire a Gesù: “guarda, non ne ho proprio voglia, sono stanco morto, probabilmente non servirà a nulla, ma lo faccio lo stesso perché sei tu a dirmelo!”

In Pietro c’è dubbio mescolato a fiducia, perché Pietro è come tutti e tutte noi; conosce Gesù, Gesù è entrato in casa sua e ha guarito la suocera, Pietro sa che Gesù è una persona speciale. Per un attimo il realismo prevale – pescare di giorno non serve a nulla, se nemmeno di notte abbiamo preso niente – ma poi vince la fiducia: «secondo la tua parola». Il miracolo avviene, la rete è piena di pesci, devono chiamare rinforzi. Una barca non basta, una squadra di pescatori non basta, bisogna collaborare, da soli non si riesce. Gesù parla a Pietro, ma Pietro non va da solo, e poi nemmeno il gruppo di Pietro basta a tirare su le reti, ci vuole una altra squadra. Da soli non si va da nessun parte, ci vuole la comunità, e la barca è stata da sempre una delle immagini della chiesa, perché la barca viaggia, cammina e perché per farla andare c’è bisogno di più persone che collaborino.

Il miracolo avviene e c’è la sorpresa, e per l’evangelista Luca è chiaro che tutto dipende da quella parola che Gesù ha detta; il racconto di miracolo è sopratutto un racconto simbolico: la pesca – cioè l’annuncio dell’evangelo – dà frutto solo se avviene in obbedienza alla parola di Gesù; tutti gli sforzi umani – la pesca fatta tutta la notte – sono inutili se non sono una risposta alla parola di Gesù, mentre l’obbedienza alla parola dà frutti inaspettati e insperati.


2. Qual’è la reazione di Pietro? «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Pietro, meravigliato dalla enorme pesca, capisce che è un miracolo e che dietro questo miracolo c’è Gesù, viene confermato che Gesù è davvero una persona straordinaria, anzi capisce che in qualche modo ha a che fare con Dio e quindi, secondo la sua opinione deve stare distante da Dio: «allontànati da me perché sono un peccatore». E invece no, Gesù non si allontana, ma gli dice «non temere». Sei un peccatore? Eh sì, lo sei, e proprio per questo non mi allontano, ma anzi mi avvicino! Proprio per questo sono venuto, venuto molto vicino, per mostrare che Dio viene a cercare proprio i peccatori, per mostrare che quando i peccatori ascoltano e si fidano della mia parola i risultati sono sorprendenti. Qui Pietro riconosce di essere un peccatore e dalla sua storia successiva sappiamo che il suo essere peccatore verrà fuori in modo eclatante da un lato quando penserà di poter morire con Gesù e poco dopo quando invece addirittura negherà di conoscerlo! Ma l’evangelo di questo brano è che l’essere peccatori non è una ragione per allontanarsi da Dio (o per allontanare Dio da noi), ma al contrario che è proprio per venire vicino ai peccatori che Gesù è venuto nel mondo, perché Dio vuole avvicinarsi ai peccatori, non allontanarsi da loro.

Ma non solo: proprio un peccatore come Pietro è chiamato a diventare suo discepolo, e insieme con lui gli altri pescatori che lo hanno aiutato nella pesca miracolosa: Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo. Gesù sa bene che non può che avere dei peccatori e delle peccatrici come discepoli e discepole, non vuole dei non-peccatori, dei perfetti o dei puri – che non esistono – ma vuole dei peccatori che si fidino della sua parola, come ha fatto Pietro. È la fiducia nella parola di Gesù che “fa” il discepolo, non altro.


3. E così Pietro, Giacomo e Giovanni lasciano le reti e seguono Gesù, diventano pescatori di uomini, ovvero discepoli e poi apostoli, cioè inviati da Gesù a annunciare il suo evangelo, l’evangelo che dice che Dio è venuto vicino ai peccatori, che quindi non devono allontanarsi da lui. E allora ecco l’intreccio tra miracolo e chiamata che arriva al suo esito: il miracolo è la pesca miracolosa o è il discepolato che segue l’incontro con Gesù e la sua chiamata? Il miracolo – come tutti i miracoli di Gesù – ha più significati: da un lato dice chi Gesù è, dice che Gesù viene da Dio, ma questo ha come altro esito il discepolato, il fatto che degli esseri umani cambiano vita e si mettono a seguire Gesù.

La domanda che spesso ci facciamo è se i discepoli abbiano abbandonato il lavoro per seguire Gesù. A volte dai racconti evangelici sembra di sì, anche qui si dice che lasciano le reti per seguire Gesù. Ma forse possiamo anche pensare che magari Pietro e gli altri abbiano ancora pescato qualche volta per procurarsi del cibo, perché dovevano pur mangiare… La questione centrale è che ora al centro della loro vita non c’è più il lavoro, non si limitano a lavorare per vivere, perché la loro vita è cambiata, è diversa, lo scopo della loro vita non sono più i pesci – cioè il cibo, il sostentamento – ma gli esseri umani.

Pietro diventa «pescatore di uomini», dice il nostro testo; ma la parola tradotta con “pescatore” non è la stessa che troviamo nei vangeli di Marco e di Matteo quando ci viene narrata la chiamata dei discepoli. La parola che c’è qui viene da un verbo che letteralmente vuol dire “prendere vivi” o “catturare per la vita” (D. Attinger, Evangelo secondo Luca, Bose, Qiqajon, p. 156). Pietro e i suoi compagni sono chiamati da ora in poi ad occuparsi della vita degli altri esseri umani, sono chiamati a portare l’evangelo del Dio vicino nella vita degli altri esseri umani.

Oggi questa parola è rivolta a noi: nei momenti di scoramento e di rassegnazione Gesù ci dice “gettate le reti”, nei momenti in cui ci riteniamo indegni di stare davanti a lui ci dice “Non temere” e ci chiama a seguirlo.

Che il Signore ci aiuti ad ascoltare ciò che egli vuole dirci, ad ascoltare la sua Parola e insegni anche a noi a rispondere con fiducia: «secondo la tua parola, getterò le reti»