lunedì 28 febbraio 2022

Predicazione di domenica 27 febbraio 2022 su Ebrei 4,12-13 a cura di Marco Gisola

Ebrei 4,12-13

Infatti la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v’è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto.

Siamo ancora nel mese in cui cade la festa del 17 febbraio festa della libertà, della libertà civile innanzitutto, perché la libertà che le lettere patenti di Carlo Alberto concessero ai valdesi nel 1848 era soltanto libertà civile e non di culto. Ma il 17 febbraio ringraziamo il Signore anche perché – benché non fosse loro concesso – i valdesi hanno potuto senza troppe ostilità da parte delle autorità politiche iniziare la loro opera di predicazione dell’evangelo in tutta Italia.

Il testo di oggi - che è in realtà quello di domenica scorsa - non parla di libertà, bensì di giudizio. E allora la domanda che possiamo farci è: c’entra qualcosa la nostra libertà con il giudizio di Dio, così come ci è descritto qui? Il testo di Ebrei a prima vista sembra un po’ inquietante, innanzitutto perché paragona la Parola di Dio a un’arma (e proprio in questi giorni che vorremmo che le armi in Ucraina tacessero!).

Anche se forse, vista la descrizione che fa il testo di ciò che questa spada compie - entrare dentro di noi e dividere l’anima dallo spirito, le giunture delle midolla – più che una spada sembra essere un bisturi che compie un’operazione chirurgica. Sta di fatto che – come chi subisce un intervento chirurgico è nudo davanti al chirurgo – così noi siamo nudi davanti a Dio, ovvero non possiamo nasconderci e non possiamo nascondergli nulla, perché a lui tutto è visibile e a lui dobbiamo rendere conto.

C’entra qualcosa questo discorso con la libertà? Non c’entra con la libertà civile, con i diritti, con la cittadinanza. No, con questo non c’entra e in fondo non c’entra nemmeno direttamente con la libertà di predicare e di annunciare l’evangelo. C’entra però, almeno secondo me, con un altro tipo di libertà, una libertà che potremmo chiamare spirituale, esistenziale.

Innanzitutto non dobbiamo confondere il giudizio con la condanna. Qui giudizio non significa condanna, il giudizio è l’azione di Dio di vederci e di scrutarci, il fatto che Dio ci vede e ci conosce persino meglio di quanto e come noi stessi ci conosciamo o crediamo di conoscerci. Perché noi crediamo di conoscerci. Riguardo a questo apro una breve parentesi: quando facevo le scuole medie l’ insegnante di italiano ci fece leggere un famoso romanzo di Pirandello, “Uno nessuno e centomila”.

La storia inizia con una scena in cui il protagonista si guarda allo specchio e mentre lui fa questo la moglie gli chiede se si stia guardando il suo naso, che è un po’ storto. Ma come storto? chiede il marito, io non ho il naso storto. E invece sì, gli dice la moglie, lo vedono tutti che hai il naso storto. E da questo episodio, quest’uomo comincia una riflessione su se stesso; capisce che gli altri lo vedono in un modo diverso da come lui stesso si vede, e ovviamente non solo il suo naso, non solo fisicamente, ma come persona, come carattere, come atteggiamenti.

Lui pensava di essere uno, cioè uno uguale per tutti, e invece si accorge di essere tante persone diverse (usa il numero centomila), tante quante sono le persone che lo osservano, e quindi cade nella crisi di non essere in fondo nessuno; da qui il titolo “Uno nessuno e centomila”.

Cosa c’entra questo col testo biblico di oggi? L’accostamento sta nel fatto che, proprio come il protagonista di questo romanzo, anche noi non siamo quello che pensiamo di essere, non siamo come ci vediamo. Solo Dio ci vede come siamo, perché Dio entra dentro di noi attraverso la sua parola. La Parola di Dio non è una parola che si ascolta soltanto, non raggiunge soltanto le nostre orecchie e la nostra mente, non è soltanto una parola che fa riflettere o emoziona.

Secondo questa immagine, la Parola di Dio entra dentro di noi. Questa immagine della Parola di Dio che entra in noi ci vuole dire che Dio scruta, osserva la nostra vita e osserva anche ciò che non vorremmo fargli vedere, ciò che forse non vorremmo fare vedere a nessuno. Che forse vorremmo nascondere persino a noi stessi. Se ogni persona che conosciamo e ci incontra ha uno sguardo parziale di noi, la Bibbia ci dice in fondo che anche noi stessi abbiamo uno sguardo solo parziale su di noi, pensiamo di conoscerci, pensiamo di essere coerenti e più o meno gli stessi davanti a tutte le persone che incontriamo, ma non è così.



Lo dice la psicologia, lo sapeva Pirandello e prima di lui lo sapeva la Bibbia: l’immagine della nudità è molto esplicita: come ognuno si veste per coprire il suo corpo, così ognuno di noi indossa una maschera per presentarsi in un certo modo, anzi centomila maschere per centomila persone davanti a cui dobbiamo andare. Solo davanti a Dio siamo nudi, solo davanti a Dio non abbiamo maschere.

L’immagine della nudità fa pensare a due cose: a un’immagine biblica, quella di Adamo e Eva che sono nudi nell’Eden e se ne vergognano soltanto dopo la disobbedienza. Prima erano nudi e stavano bene, sia l’uno davanti all’altra sia davanti a Dio. Dopo non stanno più bene, si vergognano perché hanno qualcosa da nascondere, che non è tanto il loro corpo, ma è ciò che hanno fatto.

L’altra immagine è quella dei bambini piccoli. I bambini piccoli in genere non hanno problemi a stare nudi in casa o persino davanti a sconosciuti, pensiamo alla spiaggia. Non hanno ancora il senso del pudore e quindi nella loro mente non hanno nulla da nascondere, non sentono il bisogno di nascondere il loro corpo. Tutte e due queste immagini. Adamo ed Eva nudi nell’Eden e i bambini nudi in casa o in spiaggia, se ci pensiamo bene hanno a che fare con la fiducia. Adamo ed Eva nell’Eden si fidano l’uno dell’altra e di Dio; i bambini si fidano di tutti, per questo non devono nascondere nulla.

E allora possiamo forse leggere questo brano biblico in un modo che non è per nulla inquietante. Non possiamo nascondere nulla a Dio: e allora non abbiamo bisogno di nascondere nulla a Dio. Siamo nudi davanti a Dio, sì, ma non come adulti davanti a uno sconosciuto, ma come bambini di pochi mesi in braccio ai loro genitori. E la fiducia va a braccetto con la libertà; potremmo dire: come un bambino piccolo si sente libero di scorrazzare nudo per casa, noi siamo liberi di stare nudi davanti a Dio, ovvero di non cercare di nascondergli nulla, ma non solo perché non possiamo, ma perché non ce n’è bisogno.

La parola di Dio penetra dentro di noi come una spada, o meglio come un bisturi e ci vede dal di dentro, vede anche ciò che non esprimiamo perché non vogliamo esprimere o non abbiamo il coraggio di esprimere. Vede anche ciò che nascondiamo a noi stessi, che non vogliamo vedere di noi stessi come il naso storto del romanzo di Pirandello.

Ecco la libertà di cui ci parla – indirettamente - questo brano, che non è la libertà civile del 17 febbraio e nemmeno la libertà di annunciare l’evangelo, ma è la libertà che precede tutte le altre, ovvero la libertà di essere noi stessi davanti a Dio. Ma non liberi di essere come vogliamo essere o come vorremmo essere, ma come siamo e come Dio ci vede, vedendo anche quel che noi non vediamo di noi stessi. Libertà che comprende anche la libertà di accettare il giudizio di Dio, anzi inizia con l’accettare il giudizio di Dio, perché la grazia inizia col giudizio e accettare il giudizio – o se volete lo sguardo – di Dio su di noi è già frutto della grazia.

Siamo liberi di non dover indossare vestiti o maschere davanti a Dio, perché lui ci conosce, non abbiamo bisogno di atteggiarci a ciò che non siamo o recitare dei ruoli. Senza questa libertà, profonda, che ci può venire soltanto dalla Parola di Dio, le altre importantissime libertà, quella civile e quella di culto, saranno zoppe, perché non saremmo capaci di usarle.

Un’ultima parola ancora sulla guerra. Nell’ottica di ciò che abbiamo detto finora, chi vuole la guerra e la mette in atto vuole in fondo impedire che la Parola di Dio entri dentro di lui e lo metta a nudo. Chi vuole la guerra e la vive come una dimostrazione di forza al contrario si veste ben bene, indossa una divisa, si chiude dentro un carro armato o un aereo, indossa la maschera del guerriero, perché così vuole essere visto e riconosciuto dagli altri.

Non è questa la libertà secondo Dio, non è questa la libertà che Dio ci dona attraverso la sua parola.

Ma “nessuna creatura” può “nascondersi davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto”.

È un giudizio per chi vuole nascondersi davanti a Dio, ma è una liberazione per chi riconosce la propria nudità e la propria colpa davanti a lui e da Dio riceve il nuovo vestito della grazia, indossando il quale può camminare libero nel mondo dove il Signore ci invia ad annunciare il suo evangelo di pace e di libertà.

 

lunedì 14 febbraio 2022

Predicazione di domenica 13 febbraio 2022 su Geremia 9,23-24 a cura di Andrea Mela

 

Geremia 9, 23-24

23 Così parla il SIGNORE: «Il saggio non si glori della sua saggezza, il forte non si glori della sua forza, il ricco non si glori della sua ricchezza;

24 ma chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il SIGNORE. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio», dice il SIGNORE.


Ci troviamo oggi di fronte a due versetti che, a prima vista, possono somigliare ad altri che troviamo nei libri sapienziali della Bibbia.

Ad esempio nel libro dei Proverbi leggiamo:

- Non ti vantare del domani, poiché non sai quel che un giorno possa produrre. Altri ti lodi, non la tua bocca; [ti lodi] un estraneo, non le tue labbra (27, 1-2);

- Non fare il vanaglorioso in presenza del re e non occupare il posto dei grandi (25, 6).

Del resto anche i nostri proverbi popolari consigliano di evitare di farsi vanto delle proprie presunte virtù (forza, bellezza, ricchezza o sapienza). Penso in particolare a quello che dice: «chi si loda s'imbroda», cioè chi loda sé stesso in realtà agli occhi degli altri si sporca perché appare falso e antipatico.

Ma nella Bibbia c'è qualche cosa di più perché le qualità umane, anche le migliori (come la saggezza e la sapienza) vengono messe a confronto con le caratteristiche di Dio. Certo qualcuno giustamente penserà che questo è un confronto impossibile. Quale essere umano può misurarsi in modo sincero con Dio senza dover constatare la propria totale inadeguatezza?

Eppure Gesù, nel sermone sul monte, chiede proprio questo rivolgendosi non solo ai suoi discepoli ma alle folle che lo seguivano: «Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5,48).

Teniamo quindi presente la meta verso cui la parola del Signore ci orienta.

Ma a chi si rivolge invece Geremia con questo suo invito a non gloriarsi? È importante scoprirlo per non rischiare di intendere le parole del profeta    solo come un'esortazione morale, giusta, ma un po' generica e astratta.

Queste parole infatti giungono al termine di un lungo e terribile lamento funebre perché la distruzione e la morte passano su Gerusalemme e, se questo avviene – grida Geremia – la responsabilità ricade sui suoi capi: dal re di Giuda agli ufficiali militari, ai possidenti terrieri e persino i capi religiosi non sono da meno come si legge al cap. 8 (10b-11): «sono tutti avidi di guadagno; dal profeta al sacerdote, tutti praticano la menzogna. Essi curano alla leggera la piaga del mio popolo; dicono: "Pace, pace", mentre pace non c'è».

Tutti costoro si reputano saggi, potenti e ricchi. Si illudono di poter fronteggiare con improbabili alleanze la minaccia che incombe su Giuda da parte della potenza babilonese. Ma ecco l'accusa:

«...sono diventati potenti nel paese, ma non per agire con fedeltà, poiché passano di malvagità in malvagità e non conoscono me» dice il SIGNORE. (cap. 9, v. 3).

E Geremia domanda: (v. 12): «Chi è il saggio che capisca queste cose?»

Vorrei fermarmi un attimo su questa domanda perché mi sembra molto attuale proprio nel periodo che stiamo vivendo. Chi è il saggio o il sapiente? (la parola ebraica ha entrambi i significati). Già allora evidentemente c'era un po' di confusione fra questi due termini e anche oggi molte persone dotate di grande cultura, forte erudizione (diciamo i "sapienti"), pensano con questo di possedere anche grande saggezza e spesso non esitano a vantarsene. Bisogna allora chiarire che cosa vuol dire saggezza. Il vocabolario Treccani la definisce così: "capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizi, moderazione nei desideri, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire".

Mi pare un'ottima definizione, ma come si acquisiscono queste capacità? È sufficiente lo studio, la riflessione, l'intelligenza?

Queste cose sono certamente utili, anzi necessarie, e l'epoca in cui viviamo ha accumulato una immensa mole di conoscenze, nei vari campi del sapere umano proprio grazie allo studio, alla riflessione, all'intelligenza di chi ci ha preceduto. Tuttavia non è riuscita a costruire una base altrettanto vasta di saggezza.

La carenza di saggezza, tra l'altro, provoca oggi un'assurda contrapposizione: da un lato ci sono coloro che pensano che la scienza possa spiegare ogni cosa, risolvere ogni problema, ne fanno quasi una divinità e, dall'altro, coloro che la temono senza neppure conoscerla, sono diffidenti a priori perché la considerano sempre asservita ad interessi privati.

Davvero manca spesso l'equilibrio e la prudenza nel distinguere, nel valutare, nel decidere, nel parlare e nell’agire, e la situazione di pandemia ha fatto crescere ancor più i sentimenti di sfiducia e di frustrazione.

«Chi è il saggio che capisca queste cose?» domandava Geremia e oggi di fronte ad una minaccia imprevista, mai sperimentata, non è facile orientarsi. Di chi ci si può fidare? A quali saggi governanti, a quali scienziati dare retta?

Ovviamente non ho una risposta precisa ma penso che le parole di Geremia possano essere per noi di grande aiuto.

Nell'invitare i potenti a non gloriarsi (cioè a non rendere gloria a sé stessi) il Signore implicitamente ci dice che è meglio non fidarsi troppo di quelli che lo fanno.

Geremia non disprezza affatto la saggezza e la forza umane né critica la ricchezza in sé stessa. Il peccato non consiste nel possedere questi doni ma nell'usarli malamente cioè, come scrive il profeta, "non per agire con fedeltà".

Il riferimento è naturalmente alla fedeltà al patto del Sinai (Esodo 19) quando, come ricorderete, il Signore disse a Mosè (v. 5-6): «Ora, se volete ascoltare la mia voce e custodite la mia alleanza, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa».

Tutta la terra appartiene a Dio, tutti i popoli sono suoi figli e sono amati nello stesso modo, ma Israele ha un carattere speciale, è un tesoro particolare, è un po' come il figlio primogenito, l'aiuto su cui i genitori possono sempre contare. Pertanto è chiamato ad essere "un regno di sacerdoti" vale a dire un regno che serve, anziché uno che comanda, e "una nazione Santa" cioè un popolo messo a parte per uno scopo preciso.

Per essere questo tipo di popolo Israele deve incarnare in ogni suo aspetto il disegno di Dio nel mondo, diventare l'ambasciatore di Dio fra le nazioni. Ma il popolo è fatto di esseri umani; perciò il Signore dice loro: sei saggio, forte, ricco? Bene! Ma se credi che questo appartenga a te e sia il tuo vanto, vuol dire che la tua saggezza è ben poca cosa, la tua forza una pura illusione e la tua ricchezza è effimera come un fiore che sboccia e appassisce nel volgere di un giorno. Gloriarti di queste cose le fa impoverire, le riduce in cenere, non servono più a nulla, anzi portano alla rovina. Infatti, se ciascuno celebra sé stesso, si vive in una società del tutti contro tutti. Se ogni popolo, ogni nazione celebra sé stessa, quale altra conseguenza potremo avere se non una guerra totale?

Ma il Signore dice che un'alternativa esiste: c'è qualche cosa di cui è possibile gloriarsi. Rileggiamo le parole del profeta (v. 24):

«... chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il SIGNORE. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio».

Questo versetto è bellissimo perché cambia completamente la prospettiva, non è la reazione di un dio permaloso che si è offeso perché non riceve la dovuta attenzione dal suo popolo, è invece una prospettiva tutta nuova e diversa da quella che nasce dall'autocompiacimento umano.

Ci sono alcune parole in questo versetto che vorrei sottolineare: la prima è "intelligenza". Avere intelligenza qui non vuol dire essere geniali, avere doti intellettuali straordinarie. Il senso è piuttosto quello più vicino al significato etimologico del termine cioè vuol dire avere la capacità di scegliere e di distinguere ciò che è dell'uomo e ciò che è di Dio.

Intelligenza, come dice Gesù, è saper «Rendere a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» ( Mt. 22,21; Mc. 12,17; Lc. 20,25).

O, come dice un altro dei proverbi biblici, "conoscere il Santo è l'intelligenza" (Prov 9, 10b).

Le altre parole sono: "praticare, bontà, diritto e giustizia".

Ecco che cosa il Signore contrappone alle vanterie umane: prima di tutto il "praticare". Dio non usa per sé degli aggettivi e così ci insegna che ciò che conta non è essere saggi, buoni, giusti ma agire come tali. È molto facile (e lo dico soprattutto a me stesso) predicare la bontà e la giustizia. Molto più difficile è perdonare, riconciliarsi, rinunciare a qualche vantaggio, a qualche cosa che possediamo per aiutare altri. Ancora più arduo è mettere in pratica il diritto e la giustizia, specialmente se comprendiamo il senso che la parola di Dio attribuisce a questi termini. Spesso oggi noi li fraintendiamo: non riusciamo a scorgere i limiti dei nostri diritti e usiamo la giustizia come un arma di difesa dai torti subiti ma a volte anche di offesa, di minaccia o di vendetta.

La giustizia di Dio è tutt'altra cosa: essa risana le ferite, ricostruisce le relazioni distrutte, indica una via di pace, si prende cura della vittima in ogni aspetto della sua sofferenza, senza però dimenticare che anche l'aggressore deve essere ristabilito nella sua umanità e non solo punito, deve imparare a scegliere il bene anziché il male. Gesù ha detto: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori» (Marco 2,17).

Grazie a lui possiamo anche noi cercare di conoscere il Signore, con fatica forse, ma anche con fiducia perché lui per primo desidera farsi conoscere e donarci un po' della sua bontà e della sua giustizia.

Se riusciamo, insieme agli altri, ad afferrare la mano che in Cristo Dio ci tende, la relazione con lui ci cambierà e potremo permettergli di essere, anche attraverso di noi, il Dio che mette in pratica la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra. Questa è l'unica base solida della nostra speranza per un mondo nuovo e radicalmente diverso da quello in cui viviamo.

Il Signore ci conceda di saper costruire su questa base.

giovedì 3 febbraio 2022

Predicazione di domenica 30 gennaio 2022 su Esodo 34,29-35 a cura di Marco Gisola

 Esodo 34,29-35

29 Poi Mosè scese dal monte Sinai. Egli aveva in mano le due tavole della testimonianza quando scese dal monte. Mosè non sapeva che la pelle del suo viso era diventata tutta raggiante mentre egli parlava con il SIGNORE. 30 Aaronne e tutti i figli d’Israele guardarono Mosè, e videro che la pelle del suo viso era tutta raggiante. Perciò ebbero paura di avvicinarsi a lui. 31 Ma Mosè li chiamò, e Aaronne e tutti i capi della comunità tornarono a lui, e Mosè parlò loro. 32 Dopo questo, tutti i figli d’Israele si avvicinarono, ed egli impose loro tutto quello che il SIGNORE gli aveva detto sul monte Sinai. 33 Quando Mosè ebbe finito di parlare con loro, si mise un velo sulla faccia. 34 Ma quando Mosè entrava alla presenza del SIGNORE per parlare con lui, si toglieva il velo, finché non tornava fuori; poi tornava fuori e diceva ai figli d’Israele quello che gli era stato comandato. 35 I figli d’Israele, guardando la faccia di Mosè, vedevano la sua pelle tutta raggiante; Mosè si rimetteva il velo sulla faccia, finché non entrava a parlare con il SIGNORE.


Il volto di Mosè è splendente quando scende dal monte Sinai con le nuove tavole della legge. Questo evento strano ed eccezionale avviene la seconda volta che Mosè scende dal monte Sinai: la prima volta che era sceso con le tavole della legge aveva trovato il popolo che ballava intorno al vitello d’oro e dalla rabbia aveva spezzato le prime tavole della legge che Dio gli aveva date sul Sinai. Un gesto che era stato molto di più che un gesto impulsivo, ma il segno che con la costruzione del vitello d’oro Israele aveva rotto il patto con Dio; e dunque anche le tavole della legge, che rappresentavano il patto tra Dio e Israele, dovevano in qualche modo essere rotte.

Mosè aveva poi chiesto a Dio di perdonare il popolo, e aveva intavolato una specie di trattativa con Dio, il quale voleva lasciar perdere il popolo e ricominciare da capo soltanto con Mosè. Ma Mosè riesce a convincerlo e Dio lo fa risalire sul monte, dove “passa” davanti a Mosè in un gesto di rivelazione unica e straordinaria. E poi Dio stesso riscrive le tavole della legge, identiche alle prime due, e riferisce a Mosè una serie di altri insegnamenti. Ed ecco che Mosè ora scende da questo secondo incontro con Dio; questa volta però c’è una novità: il suo volto è diventato splendente, raggiante, un segno del fatto che ha incontrato Dio, potremmo dire un riflesso della gloria di Dio.

Però lui non lo sa, non se ne rende conto e se ne accorge solo quando torna in mezzo al popolo. Questa volta il popolo è rimasto fedelmente ad aspettarlo e quando vede il volto splendente di Mosè ha paura e fugge lontano da Mosè; e ne ha tutte le ragioni, perché non sa che cosa sia successo. Mosè però li richiama e il popolo si avvicina a lui e si tranquillizza e ascolta quello che Mosè ha da dire.

Come interpretare questo fatto? Questo volto di Mosè che è stato trasfigurato – se vogliamo usare questo verbo – dal suo incontro con Dio?

Il fatto che Mosè non se fosse nemmeno accorto, mi fa pensare che questo miracolo Dio lo faccia non tanto per Mosè, quanto per il popolo, per dare un segno al popolo, che lo aveva tradito. Per la storia del vitello d’oro, Dio si era molto arrabbiato con il popolo, aveva praticamente deciso di abbandonarlo, di lasciarlo andare al suo destino. Se leggiamo il cap. 32 sembra proprio che la pazienza di Dio sia finita. Ma questa storia che ci viene raccontata qui è proprio un segno di ciò che dice il salmo 30 (v. 5): “Poiché l’ira sua è solo per un momento, ma la sua benevolenza è per tutta una vita”.

La prima volta che Mosè era sceso dal Sinai il suo volto non era splendente – casomai era “nero” per la rabbia, perché Dio, sul monte, gli aveva già detto del tradimento del popolo! E ora è quasi come se questa seconda volta, passata la giusta ira per l’infedeltà di Israele, Dio voglia dare al popolo un ulteriore segno, come se Dio volesse dare al popolo un segno in più perché il popolo abbia fiducia in lui.

Il volto splendente di Mosè è per il popolo un segno della gloria di Dio, che Mosè ha visto passare sul monte, e che ha reso il suo volto raggiante, e un segno della grazia di Dio, che ha deciso di non abbandonare Israele, come aveva pensato per un momento, ma invece di continuare il cammino con lui verso la terra di Canaan. È un segno per dire al popolo che può ascoltare con fiducia le parole di Dio che Mosè gli riferirà e che potrà poi con speranza riprendere il cammino verso la terra di Canaan.

Ma questi versetti non ci parlano solo del momento in cui Mosè scende dal monte con il volto splendente. Ci viene detto che il volto di Mosè continua a splendere anche dopo, non sappiamo per quanto tempo – perché di questo volto splendente di Mosè non si parlerà più nel libro dell’Esodo – ma di sicuro per un certo tempo.



Il brano ci racconta infatti che dopo l’incontro sul monte Sinai, Mosè continua a parlare con Dio e questo dialogo avviene in un posto preciso, che è la cosiddetta tenda dell’incontro. Mosè ha questo privilegio di parlare con Dio a tu per tu e questo avviene nella tenda dell’incontro.

La cosa curiosa che ci narra questo racconto è che il volto di Mosè continua a splendere e che Mosè si copre il volto con un velo, ma lo toglie quando parla con Dio e quando parla con il popolo. Il popolo quindi può guardare senza problemi il suo volto splendente, si era spaventato la prima volta ma poi la paura era passata. Mosè sta dunque a volto scoperto quando ascolta la parola di Dio e quando la comunica al popolo. Si copre invece il volto quando non fa da mediatore tra Dio e il popolo. Quando fa altro, quel volto splendente va coperto; quando ciò che Mosè dice e fa non ha a che fare con la parola di Dio, deve coprirsi il volto.

Perché mai Mosè si copre il volto quando non parla con Dio e non parla al popolo? Il racconto non ci spiega la ragione, e quindi possiamo solo fare delle ipotesi. Quando Mosè non svolge il suo compito di mediatore tra Dio e il popolo, o di annunciatore della Parola di Dio, deve coprirsi, forse perché quando non svolge questo compito è uno come tutti gli altri. La gloria di Dio deve vedersi sul suo volto soltanto quando parla in nome di Dio, non quando parla o agisce in nome suo. Perché è la gloria di Dio, non di Mosè.

Il suo volto splende, e questo è una sorta di miracolo o di dono di Dio perché sia chiaro a tutto il popolo che ciò che Mosè dice non è farina del suo sacco, ma è Parola di Dio, non sono i suoi pensieri ma è la volontà di Dio. Quando Mosè invece esprime opinioni sue o il suo pensiero, allora la gloria di Dio non c’entra nulla e deve coprirla, deve nasconderla.

Mosè porta su di sé, sul suo volto, questo segno della presenza e della gloria di Dio e potrebbe essere tentato di abusarne, di trasformarlo in uno strumento di potere sul popolo e non di servizio al popolo. Potrebbe essere tentato di far passare la sua volontà per volontà di Dio e di usare il suo volto splendente per far credere agli altri quello che vuole.

Ma Mosè non lo fa, è fedele, e per distinguere chiaramente quando parla in nome di Dio e quando invece parla in nome suo, si vela o si svela il volto, perché sia chiaro che solo dopo che ha incontrato Dio nella tenda parla in nome suo (di Dio) – e allora mostra il suo volto raggiante.

Altrimenti lo copre e quando ha il volto coperto è chiaro che ciò che Mosè fa e dice è decisione sua e non di Dio. Questa mi sembra una possibile spiegazione di questo stranissimo fenomeno, che è narrato solo di Mosè e solo qui, in questo breve racconto.

E per concludere torno su ciò che ho già accennato poco fa: solo dopo che ha ascoltato la Parola di Dio, solo dopo che lo ha incontrato nella tenda dell’incontro, Mosè è autorizzato a parlare in nome di Dio. Mosè è sempre Mosè, il suo volto è sempre raggiante, ma non parla sempre in nome di Dio, non dice sempre la volontà di Dio.

Parla in nome di Dio solo dopo averlo ascoltato. Certo lui – rispetto a noi – aveva il grosso privilegio di parlare con Dio a tu per tu! Vorremmo averla noi una tenda dell’incontro dove Dio viene a parlarci e a dirci esattamente che cosa fare e che cosa dire agli altri!

Ma se persino Mosè parlava solo dopo aver ascoltato, a maggior ragione questo vale per noi, che Dio lo ascoltiamo attraverso la Scrittura, che – se possiamo dire così – è la nostra tenda dell’incontro. Dio ci incontra qui, nella Bibbia; quando apriamo la Bibbia è come se entrassimo nella tenda dell’incontro per ascoltare quello che Dio ha da dirci.

E allora anche il nostro volto – di noi che entriamo in questa tenda dell’incontro e ascoltiamo la Parola di Dio – anche il nostro volto può diventare raggiante.

Senza osare nemmeno lontanamente paragonarci a Mosè, anche il nostro volto può diventare raggiante, perché raggiante è il volto di chi ascolta la parola di Dio, di chi viene raggiunto dalla sua gloria, la gloria di Dio che si adira per il nostro peccato, ma solo per un momento, e poi – come ha riscritto le tavole della legge - si mette pazientemente a riscrivere per noi le parole della grazia, della speranza e della gioia.

E con quelle parole, anzi con quella Parola, riprende con noi il cammino della vita che ora è illuminato dalla sua grazia.