domenica 4 febbraio 2018

Predicazione di domenica 4 febbraio 2018 su 2 Corinzi 12,1-10 a cura di Marco Gisola

2 Corinzi 12,1-10

1 Bisogna vantarsi? Non è una cosa buona; tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore.
2 Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa (se fu con il corpo non so, se fu senza il corpo non so, Dio lo sa), fu rapito fino al terzo cielo. 3 So che quell'uomo (se fu con il corpo o senza il corpo non so, Dio lo sa) 4 fu rapito in paradiso, e udì parole ineffabili che non è lecito all'uomo di pronunciare. 5 Di quel tale mi vanterò; ma di me stesso non mi vanterò se non delle mie debolezze. 6 Pur se volessi vantarmi, non sarei un pazzo, perché direi la verità; ma me ne astengo, perché nessuno mi stimi oltre quello che mi vede essere, o sente da me.
7 E perché io non avessi a insuperbire per l'eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbisca. 8 Tre volte ho pregato il Signore perché l'allontanasse da me; 9 ed egli mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. 10 Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte.


Oggi incontriamo un brano che è tra i più densi di quelli dell’apostolo Paolo. Denso sia per quello che Paolo dice su di sé, sia perché in questo brano incontriamo una confessione di fede di Paolo che è incredibilmente esistenziale, che ci dice come la fede segna in profondità l’esistenza dell’apostolo.
Il contesto è polemico, come accade in diversi brani delle sue lettere. Paolo si deve difendere dalle accuse che gli venivano rivolte. Nel capitolo 11 Paolo introduce il tema del “vantarsi” e dice – in un brano in cui afferma di parlare “da pazzo” - che lui avrebbe molto di cui vantarsi. Ha da vantarsi innanzitutto del fatto di essere un ebreo “doc” e poi avrebbe da vantarsi anche di tutto ciò che ha subito per il fatto di essere un servitore di Cristo: «Spesso sono stato in pericolo di morte. … Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli; in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità...
E non solo: nel brano che abbiamo letto ora, Paolo racconta, unica volta nelle sue lettere, il suo rapimento al terzo cielo. Inutile speculare su quale tipo di esperienza sia stata questa che Paolo ha vissuto. È un riferimento a quella rivelazione che Paolo ha avuto e di cui non sapremo mai come sia veramente andata. Quello che ci interessa qui, e interessa a noi per è quello che interessa a Paolo, è che lui di questa esperienza non si vuole vantare. Anzi, ne parla come se fosse accaduto a un altro: «Di quel tale mi vanterò». Ma è chiaro che quel tale è lui, ma ne parla come fosse un'altra persona: «ma di me stesso – dice - non mi vanterò se non delle mie debolezze».
Ecco qui la parola chiave: debolezza. Paolo non vuole vantarsi se non della sua debolezza. Uno che ha sofferto tutto quello che Paolo ha appena descritto – percosse, prigionia, fame, freddo…. - potrebbe vantarsi di averle superate tutte una per una, potrebbe vantarsi della forza che ha avuto per superare tutte quelle difficoltà. E invece no: delle mie debolezze mi vanterò. Non di altro. Di più: Paolo ha quella “spina nella carne” che non si è mai capito veramente che cosa fosse, forse una malattia, un dolore fisico costante. E ha chiesto a Dio di eliminargliela, ma la sua preghiera è rimasta inascoltata.
Il senso di tutto ciò è nelle parole che Paolo scrive alla fine del brano che abbiamo letto: Egli [Dio] mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte.
Ecco il culmine teologico ed esistenziale del discorso: sono debole, ho patito molto, ho una spina nella carne, ma di questo mi “vanto”, non per suscitare compassione o tenerezza, ma perché proprio qui, nella mia debolezza, si rivela la potenza di Cristo. La mia debolezza – dice Paolo – è il luogo che Dio sceglie per far riposare la potenza di Cristo.
Non perché io abbia qualche merito perché Dio faccia questo, anzi, Dio ha dovuto convertirmi, rivoltarmi come un calzino perché ero un persecutore dei cristiani. Ma semplicemente perché Dio mi ha scelto, mi ha reso debole – io che mi credevo forte – per far riposare su di me la potenza di Cristo; che è la potenza della croce.
Dove si è rivelata al suo massimo grado la potenza dell’amore di Dio? Sulla croce, nel luogo in cui apparentemente l'unica cosa visibile era la estrema e totale debolezza umana, sconfitta dalla forza della religione e dell’impero romano. La croce ci mostra che Dio si manifesta nella debolezza, non nella forza. «la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza» dice Dio a Paolo, che quindi può dire: «quando sono debole, allora sono forte». Parola di Dio da un lato, parola di Paolo dall’altro.
Parola di Dio: «la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Parola di Paolo: «quando sono debole, allora sono forte». Evangelo e esistenza umana che si incontrano e si incrociano nella potenza di Dio che si rivela nella debolezza umana.
Facciamo fatica a comprendere il discorso di Paolo. Almeno, io faccio fatica ad accettarlo fino in fondo. Faccio fatica perché è un paradosso (un paradosso è un’affermazione che va contro la logica comune): come facciamo a mettere insieme la forza e la debolezza? O c’è l’una o c’è l’altra…! E come faccio a mettere insieme Dio e la croce? Dio e la morte? Dio e la sconfitta di Dio? Sono cose che, secondo la logica umana, non stanno insieme. Eppure da quel giorno in cui Gesù è stato crocifisso, Dio si rivela nel paradosso. Il paradosso della croce, Paolo parlerà della pazzia della croce.
Gesù è morto debole, come è nato debole ed è vissuto debole. Gesù si è fatto debole, ma non perché si divertisse a fare così, si è fatto debole per stare con i deboli e dalla parte dei deboli, per manifestare, nella sua debolezza, la potenza di Dio. Gesù ha preso su di sé tutta la debolezza umana, per affidarsi completamente alla potenza di Dio.
La potenza di Dio non ha zittito chi urlava “crocifiggilo!”; non ha allontanato chi lo scherniva; e non ha fermato chi lo crocifiggeva. La potenza di Dio non ha schiacciato chi voleva la morte di Gesù e non ha eliminato chi voleva ucciderlo. La potenza di Dio non ha annientato l’oppressore, ma ha risuscitato la vittima. Per questo la potenza di Dio si dimostra perfetta nella debolezza. Perché non è la forza che annienta, ma è la forza che riconcilia; non è la forza che sconfigge, ma è la forza che libera. L’evangelo ci dice che Dio chiama dei deboli a essere suoi discepoli e sue discepole. Chiama dei deboli e li riveste della sua forza, che non è la forza del “quanto”, non è la forza del potere, delle armi, del successo, ma è la forza della liberazione e della riconciliazione.
Non è una parola facile da accogliere, perché è troppo rivoluzionaria per la nostra vita. Tutto intorno a noi spinge a essere forti, e a contare sulle proprie forze. Nella nostra società ciò che conta è il “quanto”: Quanta forza si ha, quanti soldi si hanno, quanto successo si ha, quanti amici si hanno su facebook…, e così via. Anche noi, nelle nostre chiese, siamo spesso portati a contare quanti membri di chiesa abbiamo, quante persone vengono al culto, quante persone ci sono alle nostre attività...
Questa parola ci dice che invece Dio ci chiama proprio in quanto deboli e attraverso la nostra debolezza vuole annunciare la sua forza. Non è dunque necessario che tentiamo di essere forti, non è necessario che cerchiamo la nostra forza e contiamo sulla nostra forza. Anzi: cercare la forza ci allontana da Dio, che cerca e sceglie i deboli. Non preoccupiamoci quindi del “quanto abbiamo” o del “quanti siamo”, ma della riconciliazione e della liberazione che Dio ci chiede di annunciare. Preoccupiamoci di quante occasioni abbiamo nella nostra vita di annunciare la liberazione dei deboli dalla forza e dalla prepotenza dei forti. Anche la nostra debolezza può diventare strumento della forza riconciliatrice di Dio.
Quando sono debole, allora sono forte, dice Paolo. La mia vera debolezza diventa vera forza nelle mani di Dio. Non è la forza umana del potere, dei soldi, del successo, ma è la forza di Dio, la forza della fede, la forza del perdono, la forza della speranza, la forza della libertà.
Non temiamo la nostra debolezza, non vergogniamoci della nostra debolezza, piuttosto mettiamola nelle mani di Dio, che anche a noi dice: «la mia grazia ti basta». E ci insegni a rispondergli con fiducia: sì, è vero Signore, la tua grazia mi basta. E la tua grazia, che mi basta, faccia riposare la tua potenza di perdono, di liberazione, di riconciliazione sulla mia debole vita e sulla mia debole chiesa.
Di altro non ho bisogno, perché in Te e soltanto in Te «quando sono debole, allora sono forte».

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