mercoledì 18 marzo 2009

BIBBIA SI', ma quale?

tratto dalla rubrica: Dialoghi con Paolo Ricca,
del settimanale: Riforma,
Anno XVII - numero 11 - 20 marzo 2009, p. 15:



La Bibbia è la stessa per tutti oppure no?

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Fra i banchi della Chiesa valdese di Milano trovo ogni domenica, una accanto all’altra, la Bibbia nella versione protestante della Nuova Riveduta e la Bibbia nella traduzione interconfessionale in lingua corrente (comunemente chiamata Tilc, realizzata da cattolici e protestanti). Questa pacifica e voluta «convivenza» dichiara implicitamente che entrambe le versioni sono per noi pienamente valide (anche se di fatto è la Riveduta a essere utilizzata quasi sempre per il culto e per gli studi biblici). Ma le due traduzioni non differiscono soltanto per lo stile: quella interconfessionale contiene anche i cosiddetti Libri Deuterocanonici (Giuditta, Tobia, I e II Maccabei, Sapienza, Siracide…) assenti sia dalla Riveduta, sia da quasi tutte le Bibbie protestanti, a cominciare da quella di Diodati. È noto che i Deuterocanonici non fanno parte del canone ebraico (fissato nel I secolo), mentre la Chiesa cattolica li ha dichiarati canonici nel Concilio di Trento (1546). Quanto ai Riformatori protestanti, non li hanno riconosciuti come canonici, dichiarando che su di essi non era possibile fondare alcun articolo di fede. Lutero li ha tradotti, relegandoli però in appendice alla Bibbia, quasi libri non uguali alla Sacra Scrittura, tuttavia utili ed edificanti. In ogni caso la Società biblica britannica e forestiera non li stampa più. Ora la domanda è: i motivi che hanno portato a quest’ultima decisione possono ritenersi ancora oggi pienamente validi? O invece, proprio in prospettiva ecumenica, potrebbe essere pensabile, auspicabile, in futuro riprendere la soluzione di Lutero, e ristampare quindi nelle nostre Bibbie anche i Deuterocanonici, se non altro in appendice?
Giampiero Comolli – Milano


Questa lettera sembra, a prima vista, sollevare un problema, tutto sommato, di facile soluzione e forse anche di importanza relativamente secondaria. Infatti la Bibbia dei cattolici (quella cioè diffusa nella Chiesa cattolica) e quella dei protestanti (quella diffusa nelle Chiese protestanti) sono fondamentalmente uguali per quanto concerne la sostanza del messaggio; il Nuovo Testamento è identico per tutti; l’Antico Testamento dei cattolici contiene tutti i libri dell’Antico Testamento dei protestanti, più alcuni libri che i protestanti non hanno, ma che, pur non essendo privi di interesse, non aggiungono nulla di rilevante al messaggio degli altri libri e che perciò, che ci siano o non ci siano, non cambia molto; per risolvere la questione della loro presenza o meno nella Bibbia (è bene che ci siano oppure no?), basterebbe un po’ di fair play ecumenico. Così sembra, dicevo, a prima vista. Ma se si guarda la cosa un po’ più a fondo, ci si accorge che questa lettera solleva un problema di importanza capitale per la Chiesa e per la fede: quello del canone biblico, la questione cioè di quali libri possano e debbano far parte della Sacra Scrittura che, come sappiamo, è la parola fondante e la regola d’oro della religione cristiana, il metro unico e decisivo con il quale misurare se una dottrina o un comportamento è cristiano oppure no. «Canone» è una parola greca che significa appunto «regola», «norma», «misura», «criterio». L’espressione «canone biblico» indica la raccolta dei libri ufficialmente riconosciuti come normativi e quindi vincolanti per la fede e la vita cristiana. Sono dunque tre gli interrogativi ai quali dobbiamo rispondere. Il primo è: perché alcuni libri presenti nella Bibbia dei cattolici non ci sono in quella dei protestanti? Il secondo è: sono ancora validi i motivi che hanno indotto i Riformatori a escludere alcuni libri dal canone biblico? Il terzo è: non sarebbe pensabile, o auspicabile, in prospettiva ecumenica, introdurre questi libri anche nelle Bibbie dei protestanti, eventualmente collocandoli in appendice, come fece Lutero? Questi due ultimi interrogativi sono quelli posti dal nostro lettore, che è bene informato sull’argomento.

1. Al primo interrogativo risponde bene il nostro lettore: i Riformatori hanno eliminato dal canone biblico tradizionale i libri di Giuditta, Tobia, I e II Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruch perché non furono considerati canonici dagli Ebrei, quando fissarono il loro canone. Questo avvenne in maniera definitiva in assemblee di rabbini riunite a Gerusalemme intorno al 65 d.C. e soprattutto nel Sinodo di Jabne-Jamnìa intorno al 90 d.C. Si direbbe che dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio, Israele edifica, fissando il canone delle Scritture ispirate, un nuovo «tempio» nel quale incontrare e conoscere Dio, per adorarlo e servirlo. Il processo che sfociò nella stesura definitiva del canone ebraico fu lungo e movimentato. Alcuni libri, come quello di Ester, o il Cantico del cantici, o l’Ecclesiaste, faticarono a entrare nel canone. Ne furono esclusi Giuditta, Tobia, I e II Maccabei, Sapienza, Siracide e Baruch, poi chiamati «deuterocanonici» per la prima volta nel XVI secolo dal biblista Sisto da Siena (1520-1569), ebreo convertito al cattolicesimo e divenuto francescano. «Deuterocanonico» significa letteralmente «appartenente a un secondo canone, o a un canone secondario». Ma perché questi libri furono esclusi dal canone ebraico, e quindi non considerati normativi e vincolanti per la fede e la vita degli Ebrei? Essenzialmente per due motivi. Il primo e principale è che sono entrati nel canone solo gli scritti che i rabbini hanno ritenuto fossero stati composti prima della fine della profezia, quindi nel tempo «da Mosé a Malachia». Con l’ultimo dei profeti, che secondo il canone ebraico (e biblico) è appunto Malachia, finisce il tempo della rivelazione divina e comincia quello dell’interpretazione e del commento a opera dei rabbini. I libri «deuterocanonici» sono dunque stati esclusi perché composti fuori dal tempo della rivelazione. Il secondo motivo è che gli scritti esclusi circolavano per lo più in lingua greca, quindi sono nati in seno al giudaesimo ellenistico, anche se può darsi che alcuni siano stati composti originariamente in ebraico. L’uso della lingua greca anziché ebraica rivelava la loro origine tardiva, avvenuta quando il tempo della rivelazione era ormai concluso.

2. Nella Chiesa antica e medievale non ci fu uniformità riguardo alla circolazione e all’uso dei «deuterocanonici». In alcune chiese, a esempio, Ester non fu considerato canonico, benché fosse incluso nel canone ebraico: In altre chiese i «deuterocanonici» furono considerati pienamente canonici, a esempio nelle chiese di Siria, Africa e Roma. Il tentativo di Girolamo (340-420) di far adottare a tutta la Chiesa il canone ebraico, fallì. Come ricorda il nostro lettore, il Concilio di Trento, nel 1546, incluse definitivamente i «deuterocanonici» nel canone biblico cattolico romano, escludendo peraltro la cosiddetta Lettera di Geremia e i Supplementi al Libro di Daniele, che invece la Traduzione interconfessionale in lingua corrente (Tilc) contiene.

La Riforma, come già s’è detto, ha escluso i «deuterocanonici» dal canone biblico. Lutero li ha però tradotti e messi in appendice alla Bibbia, precisando che possono aver valore non per la fede, ma per la pietà e l’edificazione (tranne il 2° Libro dei Maccabei, che Lutero vorrebbe veder «espulso» dalla Bibbia!). Nel 1534, Lutero li pubblica come «apocrifi» (il termine «deuterocanonico», come s’è visto, non esisteva ancora) con questo titolo: «Libri che non sono considerati uguali alla Sacra Scrittura, però sono utili e buoni da leggere». Chiediamoci: la decisione della Riforma di escludere i «deuterocanonici» dalla Bibbia è stata giusta o sbagliata? Secondo me è stata giusta. È stato giusto fidarsi della scelta dei rabbini e adottare per l’Antico Testamento, che è la loro Sacra Scrittura e anche la nostra, il loro canone. Tra l’altro, il valore di questi libri è molto disuguale. Alcuni, più che vere storie, sembrano favole, nelle quali non manca l’elemento leggendario. Altri parlano più di virtù che di fede. Altri parlano di storia, raccontata dal punto di vista di una minoranza oppressa. Il «deuterocanonico» migliore è la Sapienza, di cui anche Lutero dice che «contiene molte cose buone ed è meritevole di essere letto». Possono dunque promuovere la pietà e la virtù, ma la fede la si impara altrove. Perciò, per la fede, non sono né normativi né vincolanti. I motivi che hanno indotto i Riformatori a escluderli dal canone mi sembrano ancora validi.

3. Al terzo interrogativo, se sia opportuno introdurre i «deuterocanonici» nelle Bibbie in uso nelle nostre chiese, rispondo, riprendendo i termini del nostro lettore, che è «pensabile», ma, secondo me, non necessariamente «auspicabile». È pensabile perché, come dice Lutero, si tratta di scritti edificanti, che possono fare del bene alle anime. Inoltre la loro lettura può servire a far apprezzare la diversa qualità teologica dei libri «canonici» (con qualche eccezione) rispetto ai «deuterocanonici». Se pubblicati, questi ultimi dovrebbero comunque costituire un’appendice della Bibbia, chiarendo bene che non sono canonici, cioè non impegnano né vincolano la fede. È pensabile, perché è sempre meglio conoscere che ignorare e perché il periodo cosiddetto «intertestamentario» (cioè il tempo intermedio tra l’Antico e il Nuovo Testamento) ci è poco noto, e i «deuterocanonici» possono aiutarci a conoscere il giudaesimo di quel periodo, la sua esperienza di fede e la sua spiritualità. Insomma, si può fare. Ma non è necessariamente auspicabile farlo, per tre motivi. Il primo è che è bene che la fede cristiana faccia proprie le scelte della fede ebraica riguardo al canone biblico, per quanto concerne l’Antico Testamento. Il secondo è che, affiancando, in uno stesso volume, libri canonici e non canonici, si annacqui la nozione – fondamentale – di canone. Il terzo (un po’ banale, lo riconosco) è che la Bibbia canonica è già abbastanza vasta (66 libri!) e non basta una vita per conoscerla bene. Si possono certo aggiungere altri sette libri non canonici: ma è proprio necessario?



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