domenica 26 settembre 2021

Predicazione di domenica 26 settembre su Romani 10,9-17 a cura di Marco Gisola

 Romani 10,9-17

9 [perché,] se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; 10 infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. 11 Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso». 12 Poiché non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. 13 Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.

Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo annunci? 15 E come annunceranno se non sono mandati? Com’è scritto: «Quanto sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie!» 16 Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?» 17 Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.



Nel nostro brano di oggi ci sono diversi verbi importanti per la fede e la vita cristiana: confessare, credere, invocare, ascoltare, annunciare, mandare… verbi fondamentali per la nostra fede e la nostra teologia, proprio alcuni dei verbi che sono centrali per parlare di Dio e della nostra fede, cioè – come si dice – per fare teologia. C’è molta teologia in queste parole di Paolo.

E poi ci siamo noi. Ci sei tu, c’è la tua bocca e il tuo cuore; e anche se non sono menzionate, ci sono anche le tue orecchie. E c’è anche tutto il resto, c’è tutta la nostra esistenza, c’è la vita che viviamo davanti a Dio e grazie a Dio. Anche questa è teologia, perché la teologia non è solo parlare di Dio, ma della relazione che Dio crea con noi.

C’è in queste parole di Paolo quello che il NT chiama “salvezza”, che non è certo solo quello che noi chiamiamo l’aldilà, perché la salvezza è la vita che Dio ci dona ogni giorno, è la possibilità che Dio ci dà ogni giorno di vivere nella fiducia e nella gioia, nella giustizia e nella speranza.

E come ci raggiunge questo dono di Dio, questa salvezza che viene da Dio? Questo è il tema di questi versetti così densi, che si trovano all’interno di quel lungo discorso che Paolo fa nei capp.9, 10 e 11 della sua lettera ai Romani in cui parla del popolo di Israele.

In questi versetti Paolo si preoccupa di affermare che questo dono è offerto a tutti, non più solo al popolo eletto – che rimane eletto, dirà poco più avanti, e non rinnegato come i cristiani hanno pensato per secoli – ma anche ai pagani:

chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato”, perché “non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano”.

Questo è il contesto in cui Paolo pronuncia queste parole: la salvezza è per “chiunque avrà invocato il nome del Signore”, per “tutti quelli che lo invocano”, senza distinzioni. E come si arriva ad invocare Gesù Cristo? E che cosa vuol dire invocare Gesù Cristo?

Qui entrano in gioco la nostra bocca e il nostro cuore. Il cuore per Paolo è il centro dell’essere umano, non solo e non tanto dei suoi sentimenti, ma del suo pensiero e delle sue decisioni, anche della sua fede: si crede con il cuore, dice Paolo, il che non vuol dire che la fede sia un sentimento, ma che la fede abita nel nostro intimo e coinvolge tutta la nostra esistenza.

Potremmo dire così: il cuore rappresenta la fede dentro di noi, la bocca rappresenta la fede che “esce” (per così dire) da dentro di noi e diventa vita. Confessare la fede non è solo dire o ripetere una confessione di fede, non è solo dire delle parole.

Quando nel culto confessiamo la fede con il credo o altre confessioni di fede, compiamo un atto liturgico che come tutti gli atti liturgici ha un valore simbolico.

Quando diciamo il credo non diciamo solo delle parole, ma dicendo quelle parole, attraverso quelle parole esprimiamo fiducia, riconoscenza, speranza, attraverso quelle parole ci dichiariamo discepoli e discepole di quel Cristo che confessiamo, e che quindi vogliono ascoltare e seguire.

Pensiamo a un mondo, quello di Paolo, in cui – ancora più di oggi – c’era una divisione netta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e spesso chi faceva un lavoro manuale non aveva nessuna istruzione e non sapeva nemmeno leggere.

E quindi chi prendeva parola, chi parlava in pubblico era solo chi aveva una certa cultura e apparteneva quindi a una certa classe sociale.

Nel culto della chiesa, quando si confessa la propria fede, prendono parola tutti, perché tutti e tutte sono uguali e tutti e tutte confessano la stessa fede con le stesse parole, anche gli analfabeti che imparano a memoria le parole della fede, nessuno deve tacere.

Ma quello che accade nel culto, nella liturgia cristiana, è segno di quello che accade fuori, nella vita cristiana: attraverso la bocca facciamo uscire quello che abbiamo nel cuore, non nel senso che andiamo all’angolo della strada e ripetiamo il credo, ma nel senso che diciamo pubblicamente che cosa crediamo e non solo con le parole ma con la nostra intera esistenza, con le nostre parole, i nostri gesti quotidiani e le nostre scelte.

Il cuore è la dimensione intima della fede, la bocca esprime la dimensione pubblica della fede, la dimensione culturale e sociale della fede.

Ma torniamo alla domanda di prima: come si arriva ad invocare il nome del Signore? Qui entrano in gioco tutti quei verbi che Paolo usa. Paolo risponde andando a ritroso, parte cioè dalla fine per risalire all’inizio, alla fonte:

per invocare il nome di Gesù Cristo è necessario credere; per credere è necessario ascoltare; per ascoltare è necessario ricevere l’annuncio; per ricevere l’annuncio è necessario che l’annunciatore o l’annunciatrice sia mandato/a (sottinteso: da Dio).

E Paolo conclude il suo pensiero dicendo “Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo”. È l’ascolto della sua parola il mezzo che Dio ha scelto per far nascere e far crescere la nostra fede. L’ascolto della sua parola, parola di Cristo, che non vuol dire soltanto le parole che Gesù ha detto ma anche le parole che sono state dette su di lui, dagli apostoli dopo di lui e dai profeti prima di lui, cioè tutta la Bibbia.

Ascolto della sua parola annunciata e predicata da piccoli e fallibilissimi esseri umani. Questo ha scelto Dio come mezzo per far nascere e crescere la nostra fede, per nutrirla giorno dopo giorno.

Poteva forse scegliere di meglio il nostro Signore! Qualcosa di più sicuro e di più potente della parola pronunciata da piccoli e peccatori esseri umani e ascoltata da altrettanto piccoli e peccatori esseri umani.

Parola fragile, sempre soggetta a non essere capita, prima di tutto da chi è chiamato a predicarla e poi da chi è chiamato ad ascoltarla… Sempre soggetta a essere fraintesa, confusa o – peggio - trascurata, abusata, piegata alla propria volontà… Poteva scegliere qualcosa di più potente ed efficace, di più sicuro…

E invece no, “Dio ha scelto le cose deboli del mondo” come scrive sempre Paolo nella 1 lettera ai Corinzi (1,27).

Ha scelto la nostra debole umanità per mandare il suo figlio nel mondo, ha continuato a scegliere la debole umanità di chi ha scritto la Bibbia e la debole umanità di chi è chiamato ad annunciare la sua parola.

Questo perché Dio ama la nostro debole umanità che lui stesso ha creato e che ha assunto nel suo figlio Gesù. Ma soprattutto perché non ci sia dubbio che l’efficacia e la forza non sono in noi, ma in lui che opera attraverso il suo Spirito.

È lo Spirito che fa nascere e crescere la nostra fede, e che si serve del nostro parlare e del nostro ascoltare.

Ma poi, penso, anche per un’altra ragione: la fede nasce dal nostro ascolto della sua parola perché Dio ci vuole partner attivi, presenti, consapevoli, vuole che ci mettiamo lì ad ascoltarlo. Perché nel nostro ascolto ci siamo noi, ci sono le nostre orecchie, la nostra volontà di ascoltare, e c’è il nostro cuore, ci siamo tutti noi stessi.

La fede nasce dall’ascolto della sua parola perché la fede è relazione in cui noi siamo soggetti, interpellati, chiamati, anche giudicati dalla sua parola, ma soprattutto accolti e “salvati” nel senso che dicevamo prima: che nell’ascolto della parola di Dio scopriamo e riscopriamo ogni volta la straordinaria possibilità che Dio ci offre di una vita nuova, vissuta nella fiducia e nella speranza.

La fede è questa relazione che nasce e vive nell’ascolto che diventa dialogo, nella parola ascoltata che esige una risposta, che coinvolge la nostra bocca che invoca il nome del Signore, ma anche le nostre mani chiamate a servire il nostro prossimo e le nostre gambe chiamate ad andargli incontro.

Una relazione e una risposta che non ci sarebbe se la fede nascesse da miracoli spettacolari davanti ai quali non avremmo nulla da dire e nulla da fare, ma solo da guardare.

E invece no, nell’evento della fede non c’è nulla da guardare, c’è solo da ascoltare. Di questo ascolto, attento, attivo e consapevole, siamo pienamente responsabili, come siamo responsabili di fare uscire la fede che nasce nel cuore attraverso la nostra bocca e tutta la nostra vita.

Questo ascolto, che diventa vita, perché attraverso di esso Dio ci dona e ci apre a una nuova vita, è la nostra vocazione, di cui siamo responsabili. Tutto il resto è dono di Dio.

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