martedì 26 giugno 2018

Predicazione di domenica 24 giugno 2018 su 1 Pietro 3,8-15 a cura di Marco Gisola

1 Pietro 3,8-15

Infine, siate tutti concordi, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi e umili; non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione.Infatti: «Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le sue labbra dal dire il falso;fugga il male e faccia il bene; cerchi la pace e la persegua; perché gli occhi del Signore sono sui giusti e i suoi orecchi sono attenti alle loro preghiere; ma la faccia del Signore è contro quelli che fanno il male». (Salmo 34,12-16) 
Chi vi farà del male, se siete zelanti nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi!
Non vi sgomenti la paura che incutono e non vi agitate;
ma glorificate il Cristo come Signore nei vostri cuori.
Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni.


La prima lettera di Pietro – che quasi certamente non è stata scritta dal Pietro dei Vangeli, perché risale alla fine del primo secolo – è scritta a cristiani che vivono in mezzo ai pagani e che vivono in situazione di difficoltà, e a volte di vera e propria persecuzione.
E si preoccupa quindi di cercare di dare loro dei consigli e di dire loro come dovrebbero comportarsi. La prima parte del brano che abbiamo letto è un insieme di indicazioni pratiche, di istruzioni per vivere da cristiani in mezzo ai pagani.
L’indicazione generale è: non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite. Ci potremmo chiedere se la ragione di questo comportamento sia paura, oppure opportunismo, oppure altro.
Quando si rischia la vita si è in genere molto prudenti, si cerca di non mettersi in situazioni pericolose; quando questa lettera viene scritta probabilmente non siamo ancora alle grandi persecuzioni della fine del primo secolo, ma il clima è già abbastanza caldo.
Può anche darsi che l’autore di questa lettera voglia davvero che i cristiani a cui sta scrivendo non abbiano dei guai, è più che legittimo.
Ma la sua preoccupazione va ben oltre la volontà di evitare loro dei pericoli. La sua preoccupazione è che cosa essi testimoniano.
Dobbiamo pensare a un cristianesimo di minoranza, non ancora molto conosciuto, che ai pagani che vivevano intorno ai cristiani degli ultimi decenni del primo secolo, poteva sembrare una religione strana, che veniva da lontano, dalla Palestina, una novità.
Che cosa testimoniano i cristiani di queste chiese ai pagani che vivono intorno a loro? E come lo fanno?
Questo brano della prima lettera di Pietro ci dice che si testimonia in due modi: con il comportamento e con le parole; con ciò che si fa e con ciò che ci dice.
La prima indicazione riguarda ciò che si fa, riguarda l’azione: anche se vivono difficoltà, o addirittura persecuzione, i cristiani sono chiamati a non rendere male per male, a non rendere oltraggio per oltraggio. Potremmo dire che l’autore invita a un comportamento nonviolento.
Che cosa è, davanti a chi è violento, che testimonia meglio di ogni altra cosa il tuo essere cristiano, il tuo essere discepolo di Gesù? Il tuo comportarti come Gesù, il tuo non rendere male per male, dunque il tuo non essere violento.
Ma non solo l’essere nonviolento. Le istruzioni dell’autore della prima lettera di Pietro si spingono ben oltre: “ma al contrario, benedite”, dice. Benedite, ovviamente non perché vi perseguitano, ma nonostante vi perseguitino. Così mostrerete a chi vi perseguita che siete discepoli di un Signore che ha rifiutato la violenza.
Al contrario”: la nostra testimonianza consiste nel “contrario” di ciò che fanno i violenti e gli oppressori. È una contro-testimonianza; una testimonianza contro la violenza e contro l’oppressione, non solo quelle che subiamo eventualmente noi, ma contro quelle che subiscono gli altri.
Una contro testimonianza nei confronti della violenza, ma una bella testimonianza, molto positiva e propositiva di che cos’è l'evangelo.
Benedire anziché maledire, anzi addirittura benedire chi ti maledice. Perché l’unica arma che può sconfiggere chi ce l’ha con noi, è non avercela con loro; per sconfiggere chi maledice, è necessario benedire. Solo così si disinnesca la spirale della vendetta e dell’odio. È un’attualizzazione della parola di Gesù: «amate i vostri nemici».
E questo modo di agire non è una tattica o una strategia, ma la vocazione dei cristiani: “... al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione”.
Se ci chiediamo quale sia la nostra vocazione, questo brano della prima lettera di Pietro risponde: la tua vocazione di cristiano, di cristiana è quella di benedire, di portare e annunciare la benedizione di Dio a chi ti circonda, persino a chi ti fa del male. Non è una bella vocazione? E soprattutto, non è una bella sfida?
Anche se la nostra situazione è molto diversa da quella dei primi lettori di questa lettera, anche se non siamo più perseguitati, come lo erano loro, la vocazione rimane valida e rimane la stessa: benedire e non maledire, cioè portare nel mondo il bene che Dio dice e fa anziché il male che noi umani spesso diciamo e facciamo. Non rendere male per male, oltraggio per oltraggio, ma benedire.
Non mi sembra una vocazione banale e non mi sembra nemmeno una vocazione a essere semplicemente buonisti. Non si tratta di far buon viso a cattivo gioco, ma si tratta di portare il bene laddove c’è il male.
Noi viviamo in un mondo molto conflittuale, a livello sociale, politico, a livello familiare e a volte anche ecclesiastico. c’è dunque veramente bisogno di mettere in atto questa vocazione alla nonviolenza e al rispondere al male con il bene.
Se fossimo capaci di far calare il tasso di conflittualità che regna intorno a noi, se fossimo cioè – per usare una parola biblica dei portatori di riconciliazione – sarebbe già una gran cosa e una bella testimonianza dell’evangelo.


Questo è, secondo questo brano, il primo modo di testimoniare l’evangelo con i fatti, con le azioni quotidiane: essere portatori di benedizione e di riconciliazione.
Ma c’è una seconda indicazione molto preziosa che questo testo ci dà.
Poco più avanti il brano dice: Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni.
L’azione è accompagnata dalla parola, cioè l’azione è accompagnata dalla spiegazione: spiegare, raccontare perché agisco in un certo modo è l’altra parte della testimonianza. La parola deve accompagnare l’azione, altrimenti la testimonianza è monca, manca di qualcosa di fondamentale, manca del nome di Gesù Cristo, che siamo chiamati a seguire ma di cui siamo chiamati anche a parlare.
E quale è qui la parola che spiega la motivazione del mio agire, del mio cercare di essere portatore di riconciliazione? Potrebbero essercene tante di ragioni, l’evangelo ce ne suggerisce più di una, potrebbe essere l’imitazione di ciò che ha fatto Gesù, potrebbe essere l’obbedienza alla Parola di Dio, potrebbe essere l’amore, che sicuramente c’entra con il nostro agire.
In questo brano però si usa un’altra parola, esso dice che dobbiamo essere pronti a rendere conto della speranza che è in noi. L’autore di questa lettera poteva anche usare la parola fede o fiducia, ma preferisce la parola speranza.
Testimoniare la propria fede significa testimoniare la propria speranza, la «speranza che è in voi». Ciò significa che per chi ha scritto questa lettera, essere cristiani significa avere speranza: chi è cristiano spera. Mi sembra una bellissima definizione di chi sia una cristiano: uno che spera.
E se la speranza è in me essa esce fuori, esce nelle mie azioni e nelle mie parole, diventa testimonianza, speranza annunciata e speranza agita.
E a chi siamo debitori per primi della testimonianza della nostra speranza? La dobbiamo a tutti questa testimonianza, ma per primi la dobbiamo a chi è senza speranza, a chi l’ha persa, a chi non la trova.
Siamo dunque innanzitutto grati al Signore per la speranza che Egli ci ha donato. E chiediamo il suo aiuto per cercare di imparare a rendere conto delle speranza che è in noi, nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

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