Giovanni
19,17-30
17
Presero dunque Gesù; ed egli, portando la sua croce, giunse al luogo
detto del Teschio, che in ebraico si chiama Golgota, 18
dove lo crocifissero, assieme ad altri due, uno di qua, l'altro di
là, e Gesù nel mezzo.
19 Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. 20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. 21 Perciò i capi dei sacerdoti dei Giudei dicevano a Pilato: «Non lasciare scritto: "Il re dei Giudei"; ma che egli ha detto: "Io sono il re dei Giudei"». 22 Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto».
19 Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. 20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. 21 Perciò i capi dei sacerdoti dei Giudei dicevano a Pilato: «Non lasciare scritto: "Il re dei Giudei"; ma che egli ha detto: "Io sono il re dei Giudei"». 22 Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto».
Chi
è quell’uomo che viene crocifisso quel lontano giorno di quasi
duemila anni fa, appena fuori le mura di Gerusalemme, insieme ad
altri due condannati a morte? Chi lo sa chi sia quest’uomo? I suoi
discepoli forse lo sanno, o forse non lo sanno più, vista la fine
che sta facendo… Ma i suoi discepoli non ci sono, solo Pietro e un
altro discepolo lo avevano seguito, ma poi Pietro aveva negato di
conoscere Gesù.
Non
lo sanno coloro che lo hanno mandato a morire sulla croce, anzi
pensano che sia un impostore, un trascinatore di folle, un poco di
buono che vuole solo mettere il suo popolo nei guai con i romani, la
cui occupazione è già abbastanza dura…
Forse
le donne che – secondo Giovanni – sono lì davanti alla croce
intuiscono qualcosa, ma anche se è così non possono dire nulla, non
possono nemmeno protestare…
È
solo Pilato che - senza crederci e senza volerlo – proclama al
mondo che Gesù è il re dei giudei, ovvero il messia di Israele.
Gesù
è il messia e il figlio di Dio, questo ci dice ogni pagina del
vangelo di Giovanni e – ironia della sorte… anzi: ironia di Dio!
- colui che lo proclama al mondo è il pagano e opportunista
governatore romano Ponzio Pilato.
Fa
mettere un cartello sopra la croce, come usava per tutti i
condannati, con il nome e il motivo della condanna. “Gesù il
Nazareno, Re dei Giudei”. Il motivo della condanna diventa però un
annuncio, una proclamazione rivolta a tutto il mondo, perché il
cartello è scritto in tre lingue: ebraico, greco e latino.
La
lingua degli ebrei, la lingua dei romani, cioè dell’impero, e la
lingua dei greci, quella del commercio, parlata da chi viaggiava in
tutto il mediterraneo.
A
morire sulla croce è il re dei Giudei, ci dice Pilato, che diventa
profeta, che annuncia quello che è il cuore del vangelo di Giovanni;
lo Spirito Santo si serve di questo uomo, di cui altrimenti non
conosceremmo nemmeno il nome, che sarebbe rimasto noto soltanto agli
studiosi di storia romana. E che invece è entrato nel Credo
apostolico: “patì sotto Ponzio Pilato”.
Giovanni
nel suo vangelo chiama “innalzamento” la crocifissione, perché
per lui, per la sua teologia e per la sua fede, la croce non è luogo
di umiliazione e abbassamento, ma luogo di innalzamento, di gloria.
Il rifiuto da parte dell’umanità, è allo stesso tempo la
glorificazione di Gesù da parte di Dio.
E
infatti Giovanni ci racconta che Gesù porta la croce da se stesso,
non ci sono altri (Simone di Cirene, come ci dicono i sinottici) a
portargli la croce, a significare che egli avanza di propria volontà
verso la condanna.
Giovanni
non ci racconta le prese in giro nei confronti di Gesù ai piedi
della croce, gli scherni e gli insulti. Gesù è padrone delle sue
scelte.
Viene
crocifisso al centro, in mezzo a altri due crocifissi, di cui
Giovanni non ci dice nulla. Anche questo piccolo dettaglio che Gesù
è al centro, per molti è segno della sua regalità: è al centro
come i re, che hanno ai loro fianchi aiutanti e consiglieri.
La
croce è come un trono: Gesù regna dalla croce, non regna dal trono,
non regna dal palazzo, non regna con l’esercito, ma regna dalla
croce. Dal luogo più improbabile e più paradossale – la croce -
Gesù regna. Questo ci vuol dire Giovanni.
23
I soldati dunque, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue
vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato.
Presero anche la tunica, che era senza cuciture, tessuta per intero
dall'alto in basso. 24
Dissero dunque tra di loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a
chi tocchi»; affinché si adempisse la Scrittura che dice: «Hanno
spartito fra loro le mie vesti, e hanno tirato a sorte la mia
tunica». Questo fecero dunque i soldati.
La
crocifissione di Gesù adempie le Scritture. Gesù non viene dal
nulla, viene dal suo popolo per il suo popolo, benché la maggior
parte del suo popolo lo respinga.
Alcuni
dettagli della crocifissione di Gesù sono importanti perché
adempiono ciò che dice la Scrittura, in questo caso il salmo 22:
«spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica»
(v. 18).
si
è discusso molto sulla tunica di Gesù, una tunica senza cuciture,
cioè tessuta tutta insieme. Anch’essa probabilmente vuole
simboleggiare qualcosa e la tesi più diffusa è che simboleggi
l’unità della chiesa, come farebbe anche la rete che non si
strappa nonostante i 153 pesci di Giovanni 21.
Secondo
Agostino, la veste divisa in quattro parti rappresenterebbe la chiesa
sparsa ai quattro angoli del mondo, mentre la tunica che non viene
strappata, rappresenta l’unità delle quattro parti della chiesa
sparsa nel mondo attraverso il vincolo dell’amore.
25 Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena. 26 Gesù dunque, vedendo sua madre e presso di lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio!» 27 Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!» E da quel momento, il discepolo la prese in casa sua.
Quattro
erano probabilmente i soldati che eseguono il triste compito di
eseguire la condanna a morte di Gesù, (perché si dividono le vesti
in quattro parti) e quattro sono le donne ai piedi della croce.
Un’altra particolarità di Giovanni: le donne non guardano da
lontano, come nei sinottici, ma sono lì vicino.
Insieme
a loro c’è anche un uomo, il discepolo amato, o prediletto, un
discepolo di cui non si conosce l’identità e di cui ci parla
soltanto il vangelo di Giovanni.
Essi
sono abbastanza vicini alla croce perché Gesù possa rivolgere la
parola a Maria e al discepolo prediletto.
(Notiamo
tra parenesi che il vangelo di Giovanni parla pochissimo di Giuseppe,
anzi non ne parla affatto, menziona solo due volte Gesù chiamandolo
“figlio di Giuseppe”. Ma Giuseppe non compare mai. La tradizione
vuole che a questo punto Maria sia già vedova).
In
questa scena, Gesù chiede al discepolo amato di sostituirlo in
qualche modo nel ruolo di figlio; la parola “sostituire” non è
giusta, ovviamente, perché un figlio non si può sostituire… Ma
Maria è affidata a questo discepolo, che dovrà aver cura di lei
come se fosse sua madre. Infatti questo discepolo prende Maria in
casa sua.
Fin
dal medioevo questa scena è stata interpretata nel senso che il
discepolo rappresenterebbe tutti i discepoli, cioè la chiesa, la
quale sarebbe così stata affidata a Maria. Sembra però più
corretto il contrario, ovvero che Maria venga affidata al discepolo
amato da Gesù, che infatti la accoglie in casa sua; si tratterebbe
di una preoccupazione molto umana di Gesù nei confronti di sua
madre.
28
Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era già compiuta, affinché
si adempisse la Scrittura, disse: «Ho sete». 29
C'era lì un vaso pieno d'aceto; posta dunque una spugna, imbevuta
d'aceto, in cima a un ramo d'issopo, l'accostarono alla sua bocca. 30
Quando Gesù ebbe preso l'aceto, disse: «È compiuto!» E, chinato
il capo, rese lo spirito.
L’ultima
scena è il culmine. Per Giovanni la morte di Gesù è il compimento.
Gesù “sa” che ogni cosa è compiuta e morendo pronuncia la frase
“è compiuto”. “compimento” è la parola chiave di questo
brano.
Ma
fermiamoci un attimo su due dettagli: il primo è che Gesù chiede da
bere, dice “ho sete”. Ma non perché ha davvero sete, bensì
affinché si adempisse la Scrittura.
Tutto deve accadere come
profetizzato dalla Scrittura, come
Giovanni aveva già detto a proposito delle vesti di Gesù tirate a
sorte tra i suoi aguzzini.
Il
secondo dettaglio è il mazzo di issopo: non è molto realistico,
perché sembra non potesse sorreggere una spugna imbevuta di aceto.
Ma il mazzetto di issopo era stato usato per spennellare le porte
delle case degli ebrei la notte della morte dei primogeniti (esodo
12,22). si tratterebbe di un collegamento alla Pasqua ebraica, dove
Gesù ha preso il posto dell’agnello.
Ma
il culmine è proprio nelle parole “è compiuto”. Che cosa è
compiuto?
È
compiuta la vita di Gesù, nel senso che è giunta al termine
ma anche nel senso che la sua missione è arrivata alla fine.
Potremmo dire che è compiuta l’incarnazione, che lo scopo
per cui «la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo tra
noi» è raggiunto; lo scopo era – per usare le parole dello stesso
Giovanni – amare i suoi fino alla fine («avendo amato i suoi che
erano nel mondo, li amò sino alla fine», Giovanni 13,1).
È
compiuta la vita di Gesù, ed è compiuta l’incarnazione:
la Parola fatta carne, Dio fattosi umano, che prende su di sé tutta
la fragilità umana, subisce il rifiuto, l’ingiustizia, la morte. È
vero che Giovanni è quello che ci presenta un Gesù più “divino”:
non c’è la preghiera angosciata del Getsemani, non ci sono gli
oltraggi dei passati sotto la croce… Ma è proprio lui, del resto,
che parla di carne al cap. 1.
Gesù
è carne come noi, e soffre come noi le cose peggiori che un essere
umano può soffrire: appunto il rifiuto dei suoi compagni in umanità,
l'ingiustizia, la condanna a morte. È compiuta l’incarnazione, nel
senso che Gesù compie l’esistenza umana, non l’esistenza umana
del re o del potente, bensì l’esistenza dell’essere umano misero
e senza potere.
È
compiuta la decisione di Dio di venire nel mondo in questo
modo e non in altri, a rivelarci la sua volontà di donarsi di
essere dono e non un’altra. È compiuta la decisione di Dio di
mettersi nelle mani degli esseri umani.
E
così è compiuta la rivelazione di Dio in Cristo, la
rivelazione del suo volto misericordioso e giusto; giusto, perché la
croce mostra tutta l’ingiustizia umana, che respinge e uccide il
Dio che gli viene incontro, che respinge e uccide la libertà e la
riconciliazione che Gesù ha vissuto e predicato. La croce è il
giudizio su questa ingiustizia umana.
Misericordioso
perché la croce significa che quel giudizio è pronunciato, ma non
attuato. La sentenza è emessa, ma non eseguita. Questa è la grazia:
che il giusto giudizio non è attuato, la giusta sentenza non è
eseguita.
Solo
così la rivelazione è compiuta, solo nella croce arriva a
compimento la rivelazione della giustizia e della misericordia di
Dio, della giustizia di Dio che è misericordia.
E
infine, è compiuto l’amore di Gesù per l’umanità. Non
solo per i suoi, ma per l’umanità intera. È compiuto l’amore di
Gesù per noi, compiuto nel senso di totale, completo, assoluto. Solo
l’amore di Dio – e quindi di Gesù – è completo, assoluto,
compiuto appunto.
Il
nostro amore è sempre in-compiuto, in-completo, relativo,
parziale... Non potrebbe non essere così, perché siamo umani e la
compiutezza, la assolutezza non ci appartengono. Gesù fa quello che
noi non avremmo potuto e non potremmo fare, arriva dove noi non
potremmo arrivare.
Il
nostro amore è sempre anche amore per se stessi, solo l’amore di
Dio – e quindi di Gesù – è amore totalmente gratuito,
totalmente dono di se stesso, fino alla morte, e alla morte di croce,
come scrive Paolo.
L’ultima
cosa che ci dice questo racconto è che Gesù «chinato il capo,
rese lo spirito». Questa
affermazione “rese lo Spirito” dicono gli studiosi, ha due
significati: il primo è che esso indica la morte di Gesù. Gesù
rende lo Spirito nel senso che restituisce lo Spirito vitale,
restituisce la vita al Padre e muore. La morte in croce è una morte
lenta e dolorosa, per soffocamento,
e per Gesù arriva – si potrebbe dire finalmente – l’ultimo
respiro. Gesù muore.
Ma
c’è un secondo significato:
lo Spirito può anche essere inteso non come l’ultimo
respiro,
ma come lo Spirito Santo: Gesù morendo dona lo Spirito Santo. La
Pentecoste ci è raccontata soltanto
dal libro degli Atti, scritti dall’evangelista Luca.
Per
Giovanni morte, resurrezione, ascensione
e dono dello Spirito Santo in
pratica coincidono,
cronologicamente e
teologicamente, sono un evento unico.
Gesù
morendo ritorna al Padre
(innalzamento) e dona lo
Spirito. Lo Spirito che, come lo ha definito qualcuno, è “la
presenza di Gesù assente”, cioè è Gesù quando Gesù non c’è
più fisicamente, viene donato subito, appena Gesù lascia questo
mondo.
La
vita di Gesù, l'incarnazione, cioè la decisione di Dio di venire
nel mondo, la rivelazione del suo volto giusto e misericordioso sono
compiute nella croce e con esse è compiuto, completamente vissuto e
rivelato l’amore di Dio per noi.
Perché
noi possiamo credere tutto questo, che proprio nella croce raggiunge
il suo massimo il compimento dell’amore di Dio, Gesù ci lascia lo
Spirito.
Lo
Spirito ci aiuti a vivere in questa fede e in questa speranza, che la
nostra vita che è sempre incompiuta è nelle mai di colui che nella
croce ha compiuto tutto per noi.
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