domenica 21 aprile 2019

Predicazione di Venerdì Santo 2019 su Giovanni 19,17-30 a cura di Marco Gisola

Giovanni 19,17-30


17 Presero dunque Gesù; ed egli, portando la sua croce, giunse al luogo detto del Teschio, che in ebraico si chiama Golgota, 18 dove lo crocifissero, assieme ad altri due, uno di qua, l'altro di là, e Gesù nel mezzo.
19 Pilato fece pure un'iscrizione e la pose sulla croce. V'era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. 20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l'iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. 21 Perciò i capi dei sacerdoti dei Giudei dicevano a Pilato: «Non lasciare scritto: "Il re dei Giudei"; ma che egli ha detto: "Io sono il re dei Giudei"». 22 Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto».


Chi è quell’uomo che viene crocifisso quel lontano giorno di quasi duemila anni fa, appena fuori le mura di Gerusalemme, insieme ad altri due condannati a morte? Chi lo sa chi sia quest’uomo? I suoi discepoli forse lo sanno, o forse non lo sanno più, vista la fine che sta facendo… Ma i suoi discepoli non ci sono, solo Pietro e un altro discepolo lo avevano seguito, ma poi Pietro aveva negato di conoscere Gesù.
Non lo sanno coloro che lo hanno mandato a morire sulla croce, anzi pensano che sia un impostore, un trascinatore di folle, un poco di buono che vuole solo mettere il suo popolo nei guai con i romani, la cui occupazione è già abbastanza dura…
Forse le donne che – secondo Giovanni – sono lì davanti alla croce intuiscono qualcosa, ma anche se è così non possono dire nulla, non possono nemmeno protestare…
È solo Pilato che - senza crederci e senza volerlo – proclama al mondo che Gesù è il re dei giudei, ovvero il messia di Israele.
Gesù è il messia e il figlio di Dio, questo ci dice ogni pagina del vangelo di Giovanni e – ironia della sorte… anzi: ironia di Dio! - colui che lo proclama al mondo è il pagano e opportunista governatore romano Ponzio Pilato.
Fa mettere un cartello sopra la croce, come usava per tutti i condannati, con il nome e il motivo della condanna. “Gesù il Nazareno, Re dei Giudei”. Il motivo della condanna diventa però un annuncio, una proclamazione rivolta a tutto il mondo, perché il cartello è scritto in tre lingue: ebraico, greco e latino.
La lingua degli ebrei, la lingua dei romani, cioè dell’impero, e la lingua dei greci, quella del commercio, parlata da chi viaggiava in tutto il mediterraneo.
A morire sulla croce è il re dei Giudei, ci dice Pilato, che diventa profeta, che annuncia quello che è il cuore del vangelo di Giovanni; lo Spirito Santo si serve di questo uomo, di cui altrimenti non conosceremmo nemmeno il nome, che sarebbe rimasto noto soltanto agli studiosi di storia romana. E che invece è entrato nel Credo apostolico: “patì sotto Ponzio Pilato”.
Giovanni nel suo vangelo chiama “innalzamento” la crocifissione, perché per lui, per la sua teologia e per la sua fede, la croce non è luogo di umiliazione e abbassamento, ma luogo di innalzamento, di gloria. Il rifiuto da parte dell’umanità, è allo stesso tempo la glorificazione di Gesù da parte di Dio.
E infatti Giovanni ci racconta che Gesù porta la croce da se stesso, non ci sono altri (Simone di Cirene, come ci dicono i sinottici) a portargli la croce, a significare che egli avanza di propria volontà verso la condanna.
Giovanni non ci racconta le prese in giro nei confronti di Gesù ai piedi della croce, gli scherni e gli insulti. Gesù è padrone delle sue scelte.
Viene crocifisso al centro, in mezzo a altri due crocifissi, di cui Giovanni non ci dice nulla. Anche questo piccolo dettaglio che Gesù è al centro, per molti è segno della sua regalità: è al centro come i re, che hanno ai loro fianchi aiutanti e consiglieri.
La croce è come un trono: Gesù regna dalla croce, non regna dal trono, non regna dal palazzo, non regna con l’esercito, ma regna dalla croce. Dal luogo più improbabile e più paradossale – la croce - Gesù regna. Questo ci vuol dire Giovanni.


23 I soldati dunque, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato. Presero anche la tunica, che era senza cuciture, tessuta per intero dall'alto in basso. 24 Dissero dunque tra di loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocchi»; affinché si adempisse la Scrittura che dice: «Hanno spartito fra loro le mie vesti, e hanno tirato a sorte la mia tunica». Questo fecero dunque i soldati.


La crocifissione di Gesù adempie le Scritture. Gesù non viene dal nulla, viene dal suo popolo per il suo popolo, benché la maggior parte del suo popolo lo respinga.
Alcuni dettagli della crocifissione di Gesù sono importanti perché adempiono ciò che dice la Scrittura, in questo caso il salmo 22: «spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica» (v. 18).
si è discusso molto sulla tunica di Gesù, una tunica senza cuciture, cioè tessuta tutta insieme. Anch’essa probabilmente vuole simboleggiare qualcosa e la tesi più diffusa è che simboleggi l’unità della chiesa, come farebbe anche la rete che non si strappa nonostante i 153 pesci di Giovanni 21.
Secondo Agostino, la veste divisa in quattro parti rappresenterebbe la chiesa sparsa ai quattro angoli del mondo, mentre la tunica che non viene strappata, rappresenta l’unità delle quattro parti della chiesa sparsa nel mondo attraverso il vincolo dell’amore.



25 Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena. 26 Gesù dunque, vedendo sua madre e presso di lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio!» 27 Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!» E da quel momento, il discepolo la prese in casa sua.


Quattro erano probabilmente i soldati che eseguono il triste compito di eseguire la condanna a morte di Gesù, (perché si dividono le vesti in quattro parti) e quattro sono le donne ai piedi della croce. Un’altra particolarità di Giovanni: le donne non guardano da lontano, come nei sinottici, ma sono lì vicino.
Insieme a loro c’è anche un uomo, il discepolo amato, o prediletto, un discepolo di cui non si conosce l’identità e di cui ci parla soltanto il vangelo di Giovanni.
Essi sono abbastanza vicini alla croce perché Gesù possa rivolgere la parola a Maria e al discepolo prediletto.
(Notiamo tra parenesi che il vangelo di Giovanni parla pochissimo di Giuseppe, anzi non ne parla affatto, menziona solo due volte Gesù chiamandolo “figlio di Giuseppe”. Ma Giuseppe non compare mai. La tradizione vuole che a questo punto Maria sia già vedova).
In questa scena, Gesù chiede al discepolo amato di sostituirlo in qualche modo nel ruolo di figlio; la parola “sostituire” non è giusta, ovviamente, perché un figlio non si può sostituire… Ma Maria è affidata a questo discepolo, che dovrà aver cura di lei come se fosse sua madre. Infatti questo discepolo prende Maria in casa sua.
Fin dal medioevo questa scena è stata interpretata nel senso che il discepolo rappresenterebbe tutti i discepoli, cioè la chiesa, la quale sarebbe così stata affidata a Maria. Sembra però più corretto il contrario, ovvero che Maria venga affidata al discepolo amato da Gesù, che infatti la accoglie in casa sua; si tratterebbe di una preoccupazione molto umana di Gesù nei confronti di sua madre.


28 Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era già compiuta, affinché si adempisse la Scrittura, disse: «Ho sete». 29 C'era lì un vaso pieno d'aceto; posta dunque una spugna, imbevuta d'aceto, in cima a un ramo d'issopo, l'accostarono alla sua bocca. 30 Quando Gesù ebbe preso l'aceto, disse: «È compiuto!» E, chinato il capo, rese lo spirito.


L’ultima scena è il culmine. Per Giovanni la morte di Gesù è il compimento. Gesù “sa” che ogni cosa è compiuta e morendo pronuncia la frase “è compiuto”. “compimento” è la parola chiave di questo brano.
Ma fermiamoci un attimo su due dettagli: il primo è che Gesù chiede da bere, dice “ho sete”. Ma non perché ha davvero sete, bensì affinché si adempisse la Scrittura. Tutto deve accadere come profetizzato dalla Scrittura, come Giovanni aveva già detto a proposito delle vesti di Gesù tirate a sorte tra i suoi aguzzini.
Il secondo dettaglio è il mazzo di issopo: non è molto realistico, perché sembra non potesse sorreggere una spugna imbevuta di aceto. Ma il mazzetto di issopo era stato usato per spennellare le porte delle case degli ebrei la notte della morte dei primogeniti (esodo 12,22). si tratterebbe di un collegamento alla Pasqua ebraica, dove Gesù ha preso il posto dell’agnello.
Ma il culmine è proprio nelle parole “è compiuto”. Che cosa è compiuto?
È compiuta la vita di Gesù, nel senso che è giunta al termine ma anche nel senso che la sua missione è arrivata alla fine. Potremmo dire che è compiuta l’incarnazione, che lo scopo per cui «la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo tra noi» è raggiunto; lo scopo era – per usare le parole dello stesso Giovanni – amare i suoi fino alla fine («avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine», Giovanni 13,1).
È compiuta la vita di Gesù, ed è compiuta l’incarnazione: la Parola fatta carne, Dio fattosi umano, che prende su di sé tutta la fragilità umana, subisce il rifiuto, l’ingiustizia, la morte. È vero che Giovanni è quello che ci presenta un Gesù più “divino”: non c’è la preghiera angosciata del Getsemani, non ci sono gli oltraggi dei passati sotto la croce… Ma è proprio lui, del resto, che parla di carne al cap. 1.
Gesù è carne come noi, e soffre come noi le cose peggiori che un essere umano può soffrire: appunto il rifiuto dei suoi compagni in umanità, l'ingiustizia, la condanna a morte. È compiuta l’incarnazione, nel senso che Gesù compie l’esistenza umana, non l’esistenza umana del re o del potente, bensì l’esistenza dell’essere umano misero e senza potere.
È compiuta la decisione di Dio di venire nel mondo in questo modo e non in altri, a rivelarci la sua volontà di donarsi di essere dono e non un’altra. È compiuta la decisione di Dio di mettersi nelle mani degli esseri umani.
E così è compiuta la rivelazione di Dio in Cristo, la rivelazione del suo volto misericordioso e giusto; giusto, perché la croce mostra tutta l’ingiustizia umana, che respinge e uccide il Dio che gli viene incontro, che respinge e uccide la libertà e la riconciliazione che Gesù ha vissuto e predicato. La croce è il giudizio su questa ingiustizia umana.
Misericordioso perché la croce significa che quel giudizio è pronunciato, ma non attuato. La sentenza è emessa, ma non eseguita. Questa è la grazia: che il giusto giudizio non è attuato, la giusta sentenza non è eseguita.
Solo così la rivelazione è compiuta, solo nella croce arriva a compimento la rivelazione della giustizia e della misericordia di Dio, della giustizia di Dio che è misericordia.
E infine, è compiuto l’amore di Gesù per l’umanità. Non solo per i suoi, ma per l’umanità intera. È compiuto l’amore di Gesù per noi, compiuto nel senso di totale, completo, assoluto. Solo l’amore di Dio – e quindi di Gesù – è completo, assoluto, compiuto appunto.
Il nostro amore è sempre in-compiuto, in-completo, relativo, parziale... Non potrebbe non essere così, perché siamo umani e la compiutezza, la assolutezza non ci appartengono. Gesù fa quello che noi non avremmo potuto e non potremmo fare, arriva dove noi non potremmo arrivare.
Il nostro amore è sempre anche amore per se stessi, solo l’amore di Dio – e quindi di Gesù – è amore totalmente gratuito, totalmente dono di se stesso, fino alla morte, e alla morte di croce, come scrive Paolo.


L’ultima cosa che ci dice questo racconto è che Gesù «chinato il capo, rese lo spirito». Questa affermazione “rese lo Spirito” dicono gli studiosi, ha due significati: il primo è che esso indica la morte di Gesù. Gesù rende lo Spirito nel senso che restituisce lo Spirito vitale, restituisce la vita al Padre e muore. La morte in croce è una morte lenta e dolorosa, per soffocamento, e per Gesù arriva – si potrebbe dire finalmente – l’ultimo respiro. Gesù muore.
Ma c’è un secondo significato: lo Spirito può anche essere inteso non come l’ultimo respiro, ma come lo Spirito Santo: Gesù morendo dona lo Spirito Santo. La Pentecoste ci è raccontata soltanto dal libro degli Atti, scritti dall’evangelista Luca.
Per Giovanni morte, resurrezione, ascensione e dono dello Spirito Santo in pratica coincidono, cronologicamente e teologicamente, sono un evento unico.
Gesù morendo ritorna al Padre (innalzamento) e dona lo Spirito. Lo Spirito che, come lo ha definito qualcuno, è “la presenza di Gesù assente”, cioè è Gesù quando Gesù non c’è più fisicamente, viene donato subito, appena Gesù lascia questo mondo.


La vita di Gesù, l'incarnazione, cioè la decisione di Dio di venire nel mondo, la rivelazione del suo volto giusto e misericordioso sono compiute nella croce e con esse è compiuto, completamente vissuto e rivelato l’amore di Dio per noi.
Perché noi possiamo credere tutto questo, che proprio nella croce raggiunge il suo massimo il compimento dell’amore di Dio, Gesù ci lascia lo Spirito.
Lo Spirito ci aiuti a vivere in questa fede e in questa speranza, che la nostra vita che è sempre incompiuta è nelle mai di colui che nella croce ha compiuto tutto per noi.


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