Giovanni
10,1-5.11-16.27-30
1
«In verità, in verità vi dico che chi non entra per la porta
nell'ovile delle pecore, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e
un brigante. 2
Ma colui che entra per la porta è il pastore delle pecore. 3
A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli
chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori. 4
Quando ha messo fuori tutte le sue pecore, va davanti a loro, e le
pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5
Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché
non conoscono la voce degli estranei».
[…]
11
Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le
pecore. 12
Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore,
vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il
lupo le rapisce e disperde), 13
perché è mercenario e non si cura delle pecore. 14
Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, 15
come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per
le pecore. 16
Ho anche altre pecore, che non sono di quest'ovile; anche quelle devo
raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo
gregge, un solo pastore.
[…]
27
Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi
seguono; 28
e io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà
dalla mia mano. 29
Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può
rapirle dalla mano del Padre. 30
Io e il Padre siamo uno».
Apparteniamo
a Gesù come le pecore di un gregge appartengono al loro pastore.
Questa è l’immagine che oggi ci viene offerta dall’evangelo di
Giovanni.
Un’immagine
antica, che nell’AT viene usata per parlare di Dio stesso, che è
il pastore del Salmo 23 e che nel libro di Ezechiele dice che se i
pastori del popolo non fanno bene il loro compito, lo farà lui
stesso e lo farà con giustizia. «Io – dice Dio - cercherò la
perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, rafforzerò la
malata» (Ez. 34,16)
Ora,
dice Gesù, sono io questo pastore, questo buon pastore, ora è
attraverso di me che Dio vi conduce a verdi pascoli e ad acque calme.
Nella
nostra cultura, che mette l’autonomia individuale al centro, ci
sono forse due aspetti di questa immagine che ci stanno un po’
stretti.
La
prima è quella di essere pecore, di aver bisogno di essere accuditi,
curati e soprattutto guidati. In effetti il messaggio evangelico è,
in questo senso, molto poco moderno… L’evangelo ci dice proprio
che non siamo così autonomi come ci illudiamo di essere; o meglio
che ogni volta che ci affidiamo troppo alle nostre capacità, alla
nostra autonomia di giudizio, rischiamo di fare grossi errori.
Un
primo aspetto della fede è forse proprio questo: una confessione di
umiltà, in cui riconosciamo e affermiamo di avere bisogno di una
guida per non correre il rischio di cadere nell’egoismo e nella
presunzione, quando ci affidiamo troppo alla nostra presunta
autonomia, alle nostre ambizioni, ai nostri desideri.
Il
primo passo della fede è proprio il riconoscere che non siamo
autosufficienti, che abbiamo bisogno – per tornare alla metafora
usata da Gesù – di un pastore, che è Gesù stesso.
Il
secondo aspetto che mette in crisi il nostro concetto di autonomia è
l’idea di appartenenza: “io sono mio” dice il ritornello
dell'affermazione dell’autonomia individuale. L’evangelo invece
ti dice: tu non sei tuo, sei di Gesù; non appartieni a te stesso, tu
appartieni al tuo pastore.
Vi
ho già citato molte volte – ma lo faccio di nuovo! - quella frase
del catechismo di Heidelberg che alla sua prima domanda: «Qual’è
la tua unica consolazione in vita e in morte?»,
risponde: «Che col corpo e con l’anima, in vita e in morte,
non sono mio, ma
appartengo al mio fedele Salvatore Gesù Cristo, che ha pagato
pienamente per tutti i miei peccati […]».
Dietro
queste parole c’è l’idea biblica del riscatto: non sono mio
perché Gesù mi ha riscattato donando la sua vita per me. E qui Gesù
dice che il pastore dà la sua vita per le sue pecore, cosa che
normalmente un pastore non fa, perché se muore il pastore, le pecore
rimangono senza pastore e si perdono…
Ma
qui Gesù per un attimo "esagera" nella sua illustrazione dell’immagine
del pastore e arriva a dire che l’amore del pastore per le sue
pecore giunge fino al dare la propria vita per loro. È chiaro che
Gesù qui si riferisce alla croce che lo attende. Sulla croce il buon
pastore darà la sua vita per le sue pecore.
E
proprio l’amore è l’interpretazione più corretta della metafora
dell’appartenenza. Oggi purtroppo in molte relazioni la metafora
dell’appartenenza spesso si trasforma in metafora del possesso:
tutte le donne che vengono uccise nei cosiddetti femminicidi sono
vittime di una relazione possessiva che però non ha più nulla
dell’amore e dove rimane soltanto la volontà di possesso.
Ma,
tornando al testo, c’è in esso anche una chiave di lettura
dell’idea di appartenenza: ed è quella della conoscenza: il
pastore conosce le sue pecore, le chiama per nome. Ciò significa che
le conosce una ad una.
Un
po’ come nei piccoli allevamenti, dove il piccolo allevatore
conosce le sue pecore o le sue mucche una ad una, forse le ha viste
nascere e ha dato loro un nome, a differenza degli allevamenti
industriali dove gli animali non hanno nomi, ma al massimo hanno
numeri.
Apparteniamo
a Gesù, perché ci ha riscattati e perché ci conosce, ci conosce
bene, conosce i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre fragilità
e le nostre colpe, ci conosce come a volte nemmeno noi stessi ci
conosciamo, come dice il salmo 139.
Perché
non solo la nostra vita biologica è un dono di Dio, ma anche la
nuova vita nella fede è un dono di Dio in Cristo, che ci ha chiamati
a far parte del gregge, della comunità dei discepoli e delle
discepole.
Ci
ha chiamati per nome, come ha fatto con Maria Maddalena, come abbiamo
letto nell’evangelo di Pasqua (Giovanni 20,11-18), che ha riconosciuto Gesù risorto
quando lui l’ha chiamata per nome.
Gesù
chiama per nome anche noi. Questo significa che il gregge non annulla
la nostra individualità, apparteniamo al gregge perché apparteniamo
a Gesù e il gregge è composto da tutte le pecore che appartengono a
Gesù. Apparteniamo prima a Gesù e poi al gregge. Ma apparteniamo
anche al gregge, perché è il suo gregge. Ma su questo torniamo
ancora tra poco.
La
conoscenza – ci dice questo testo – è reciproca. «Io sono il
buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me», dice Gesù.
Gesù conosce noi, ma anche noi conosciamo Gesù. Non lo conosciamo
così bene come lui conosce noi, anzi, abbiamo sempre molti dubbi e
domande su di lui, su Dio…
Ma
le nostre umanissime e legittimissime domande non devono offuscare il
fatto che noi conosciamo Gesù, perché egli si è fatto conoscere,
in ciò che ha detto e in ciò che ha fatto. Si è fatto conoscere
come colui che chiama, come colui che guarisce, come colui che
libera, come colui che non giudica, ma anzi come colui che salva, e
come colui che fa tutto questo perché ama, ci ama, ciascuno e
ciascuna di noi, fino a dare la sua vita per noi.
Ci
ama di un amore che non è possessivo, ma al contrario è puro dono.
All’inizio
Gesù aveva detto che le pecore seguono il pastore, perché conoscono
la sua voce e alla fine dice che le pecore ascoltano la sua voce e lo
seguono. Come facciamo noi a conoscere Gesù? Ascoltando la sua voce,
che conosciamo.
La
conosciamo perché ci ha già parlato, ci ha già chiamato, ci ha già
salvato e liberato dalla colpa e dalla paura. Molte voci intorno a
noi parlano, gridano forse, cercano di emergere; molte voci ci
chiamano e ci tentano: come dice il nostro inno “Veglia al mattin”
(339.2): “con le lor voci il mondo e il cuore insieme non copran
mai la voce del tuo re”.
Molte
voci ci chiamano, ci illudono, alcune vengono da fuori di noi (quello
che l’inno chiama il mondo), altre vengono dal di dentro, dal
cuore. Molte voci chiamano, solo una libera e salva: quella del buon
pastore.
Ci
è dunque chiesto di ascoltarlo e di seguirlo. Di rinunciare alla
nostra presunta autosufficienza (attenzione: non di rinunciare alla
nostra libertà, quella anzi ce la dona proprio lui, liberandoci
dalla schiavitù di noi stessi); ci chiede di rinunciare alla nostra
autosufficienza, o all’illusione di essere autosufficienti, e di
metterci in ascolto della sua voce.
E
proprio quella voce ci dice anche che ha altre pecore che stanno in
altri ovili, che deve radunare anche quelle e che alla fine ci sarà
un solo gregge con un solo pastore. È promessa, che viene rivolta da
Gesù ad altri rispetto a quelli che lo ascoltano.
Dunque
non solo i membri del suo popolo fanno parte del suo gregge, ma anche
altri, anche membri di altri popoli. È un anticipazione del fatto
che anche i pagani saranno chiamati ad ascoltare e a seguire Gesù.
Ma
se ascoltiamo queste parole come rivolte a noi oggi, esse ci
relativizzano. E questo è molto salutare, fa bene alla nostra salute
spirituale.
Ci
fa bene sapere questo, che ci sono altri ovili e altre pecore, che
non ci siamo soltanto noi, che l’evangelo è anche per altri. Non
solo noi, ma anche altri. Non solo io, ma anche altri. L’evangelo
di Gesù è sempre anche per altri, va sempre oltre, non si ferma mai
dove è già arrivato.
Non
siamo gli unici destinatari dell’evangelo, non siamo gli unici
amati, non siamo gli unici chiamati, non siamo gli unici membri del
gregge, non siamo gli unici per cui il buon pastore ha dato la sua
vita. Se mai cadessimo in questa presunzione, la parola di Gesù ci
libera anche da questa presunzione.
Siamo
pecore, amate, chiamate, conosciute per nome, per cui Cristo è morto
e risorto, membri del suo gregge… Sì, proprio tu sei una pecora
amata, chiamata, conosciuta per nome, per cui Cristo è morto e
risorto, proprio tu, ma anche altre. Non soltanto tu, non soltanto
noi…. Anche altri.
Il
Signore conosce proprio il tuo nome, è morto proprio per la tua
salvezza, e anche proprio per quella di molti altri, che conosci e
che non conosci, che ti assomigliano o che sono molto diversi da te,
altre pecore, altri ovili… ma alla fine un solo gregge e un solo
pastore.
E
infine l’ultima promessa, che vale per te e per tutti gli altri,
per questo gregge e per tutti gli altri:
Alle
pecore che ascoltano la sua voce e che lo seguono, Gesù dice: «io
do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla
mia mano. […] e nessuno può rapirle dalla mano del Padre».
Dalle
mani di Gesù e dalle mani del Padre nessuno ci può strappare. Gesù
sente il bisogno di dirlo due volte, parlando una volta delle sue
mani e una volta della mani del padre.
Da
quelle mani non ci strappa nessuno, nemmeno la morte, ci dice
l’evangelo della resurrezione. Il buon pastore ci guida tutta la
vita, e non lascia che nulla e nessuno, come dice Paolo, ci separi
dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù.
Ascoltiamo
la sua voce che ci chiama per nome e seguiamolo con fiducia dove ci
vuole condurre. Siamo nelle sue mani, da cui nulla ci può strappare.
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