mercoledì 5 febbraio 2020

Predicazione di domenica 2 febbraio 2020 su Apocalisse 1,9-20 a cura di Andrea Mela

Apocalisse 1, 9-20

9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, ero nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. 10 Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di una tromba, che diceva: 11 «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea».
12 Io mi voltai per vedere chi mi stava parlando. Come mi fui voltato, vidi sette candelabri d'oro 13 e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un figlio d'uomo, vestito con una veste lunga fino ai piedi e cinto di una cintura d'oro all'altezza del petto. 14 Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; 15 i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il fragore di grandi acque. 16 Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza.
17 Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l'ultimo, 18 e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell'Ades. 19 Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito, 20 il mistero delle sette stelle che hai viste nella mia destra, e dei sette candelabri d'oro. Le sette stelle sono gli angeli delle sette chiese, e i sette candelabri sono le sette chiese.

 
In questa domenica che chiude la prima parte dell'anno liturgico (quella che va dall'avvento all'epifania) e dopo la conclusione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, il nostro lezionario ci propone, questo testo che apre l'Apocalisse, l'ultimo libro della Bibbia.
Il brano che abbiamo letto racconta la visione inaugurale di Giovanni, la sua vocazione simile a quelle dei profeti dell'Antico Testamento (Is. 6; Ger. 1; Ez. 1; Dan. 7. 10). Questo Giovanni probabilmente non è lo stesso autore del quarto vangelo ma è un profeta che si inserisce nella sua tradizione. Ed è un profeta che scrive alle sette chiese, cioè a tutte le chiese e quindi alla chiesa universale. Forse è proprio per questo che oggi siamo invitati a riflettere sul suo messaggio che è rivolto a tutti i cristiani che erano già così diversi tra loro duemila anni fa, e sono ancor più diversi (e divisi) nella nostra epoca.
Come capita in ogni inizio d'anno, dobbiamo fare dei bilanci dell'anno passato e anche dei programmi per quello nuovo. Come piccola chiesa protestante abbiamo svolto bene il nostro compito? E come parte della grande chiesa cristiana universale quale contributo abbiamo dato all'annuncio dell'Evangelo? E come potremmo fare di più e meglio?
In che modo questo testo dell'Apocalisse ci può aiutare in questa riflessione?
Vediamolo da vicino.
Prima di tutto Giovanni si presenta come «vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù». Giovanni è prima di tutto un fratello, un membro di chiesa, uno che condivide con tutti gli altri quel misto di tribolazione (sofferenza, difficoltà) e di consolazione (gioia, speranza) che è la fede e la testimonianza di Gesù e del suo regno che viene. E proprio a causa di questa testimonianza si trova al confino a Patmos, una piccola isola del mar Egeo. Siamo verso la metà degli anni 90 cioè alla fine del primo secolo; le grandi persecuzioni dei cristiani in tutto l'impero romano inizieranno più avanti ma chi afferma che Cristo è il Signore commette un reato d'opinione, un reato politico, perché nega che Cesare, l'imperatore sia l'unico Signore. Per questo Giovanni è in esilio, lontano dalle sue comunità, per comunicare con esse può soltanto scrivere. Ma non scrive come Paolo, cioè come un pastore, scrive come un profeta, parla della rivelazione che ha ricevuto per mezzo dello Spirito: «Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore», non in un giorno qualsiasi ma nel tempo dedicato al culto e alla meditazione. Anche Paolo a Damasco ebbe una visione, ma non ha mai potuto o voluto descriverla. Invece Giovanni cerca di essere il più preciso possibile: prima sente una voce che gli ordina di scrivere a sette chiese dell'Asia Minore, poi si volta e vede una figura umana circondata da sette candelabri. Scopriremo alla fine che questi simboleggiano le chiese, ma perché proprio i candelabri? Perché il candelabro è l'oggetto che serve a portare la luce, a renderla ben visibile, a far si che possa essere presa in mano e offerta ad altri. La luce è la parola di Dio, la chiesa non lo è, ma è ciò che serve a sostenerla, diffonderla, trasportarla. Per questo il candelabro è anche nello stemma della nostra chiesa: rappresenta quello che noi dovremmo fare.
E in mezzo a quelle piccole luci c'è la vera luce della parola, anzi, come dice anche l'altro Giovanni nel prologo del suo vangelo, c'è la Parola stessa che «era nel principio con Dio» (1,2).
È una figura umana ed è il Cristo, ma non assomiglia affatto a quel Gesù che noi possiamo immaginare leggendo i vangeli: uomo umile tra gli umili, un maestro ma ancor prima un diacono. Quella che vede Giovanni è piuttosto l'immagine di un re o di un grande sacerdote o, meglio ancora, le due cose insieme: un re potente e glorioso e un sacerdote dotato di un'autorità suprema, con occhi di fuoco e lingua affilata come una spada e sette stelle nella mano destra. È l'immagine del Risorto ma non ci sono i segni della sua passione, delle torture subite, della croce: qui c'è solo la sua gloria. Perché?
Perché Giovanni di Patmos ci descrive un Cristo risorto così diverso da quello di cui parla Giovanni l'evangelista? Ricordate, quando appare ai discepoli otto giorni dopo la risurrezione e dice a Tommaso: «Porgi qua il dito e guarda le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente» (Gv. 20,27).
Semplicemente perché il contesto è completamente diverso. I vangeli ci spiegano che Gesù è veramente risorto dai morti, non è un fantasma, non è un'illusione, è una realtà che porta con sé tutti i segni che l'hanno preceduta. La comunità dell'incredulo Tommaso è quella che precede l'ascensione e la Pentecoste.
Le chiese a cui è rivolta l'apocalisse sono invece quelle di sessanta anni dopo: sono comunità che aspettavano da un giorno all'altro il ritorno di Gesù e che ora sono deluse, piene di incertezze e divisioni. C'è chi segue un leader, chi un altro. Non ci sono più i testimoni oculari, a chi credere? Nessuno ha conosciuto Gesù di persona, quei fratelli e quelle sorelle sono come noi, ne hanno solo sentito parlare. E allora ben vengano i vangeli, ma ora ci vuole una nuova apocalisse, una rivelazione che faccia capire a quelle comunità stanche, invecchiate e piene di dubbi, che Gesù non le ha abbandonate e che il suo ritorno, anche se ancora non si vede, è già un fatto compiuto nella fede. Se continueranno ad avere fede quei primi cristiani sapranno da Giovanni di Patmos e dalle sue visioni che Cristo è il vivente, che la morte è già sconfitta e che lui è il Signore della gloria.
E poi c'è un altro aspetto che per l'Apocalisse è fondamentale: ed è l'impero romano. Non dobbiamo pensare all'impero romano solo come ad un mostro cattivo che perseguita e uccide i cristiani. Certo le persecuzioni ci sono state, a più riprese e in varie epoche, ma l'impero ha sempre esercitato la sua forza d'attrazione anche sui cristiani.
L'impero romano nel primo secolo aveva portato la pace in gran parte del mondo di allora. È vero, una pace imposta con la vittoria militare, ma pur sempre una pace. Inoltre aveva portato in quel grande mondo attorno al mediterraneo, politicamente riunificato, strade, commerci e ricchezze economiche. Certo, non per tutti, e lo sfruttamento dei nemici sconfitti e ridotti in schiavitù era la norma, ma c'era pur sempre una ricchezza che prima era sconosciuta. C'erano delle leggi avanzate e il diritto a suo modo era fatto rispettare. Come non subire il fascino del potere imperiale? Magari cedendo un po' sul piano della fede, magari scendendo a qualche compromesso, magari pensando che forse Gesù regna nei cieli, ma qui sulla terra chi regna davvero è Cesare. Non vi sembra che anche in questo quelle prime chiese cristiane assomiglino un po' a quelle di oggi? Chi pensa più oggi al ritorno di Cristo sulla terra? Se parliamo del "regno di Dio" chi si ricorda davvero delle parole di Gesù che disse: «il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc. 17,21)
E allora c'è un grande bisogno, anche oggi, dell'Apocalisse la quale ci ricorda che già ora il Signore è il nostro unico re, che è bene evitare di essere troppo attratti dai poteri di questo mondo siano essi di natura politica, economica o esercitino qualche altra fascinazione che ci allontana da lui. E la società della comunicazione ossessiva in cui viviamo oggi ha mille modi per distrarre il nostro sguardo.
Ma c'è un ultimo messaggio che il testo di oggi ci lascia (17-18): "Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l'ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli»".
Ecco finalmente in questa scena ritroviamo "tutto Gesù", quel Gesù che cerchiamo sempre di vedere: Giovanni è tramortito dalla visione, cade a terra come i profeti dell'Antico Testamento, come Paolo a Damasco. Ma quel re glorioso, quel sacerdote sfolgorante è ancora il "nostro Gesù" benevolo e misericordioso.
La sua mano destra non regge più sette stelle ma si posa teneramente sul suo capo. «Non temere» dice ora Gesù, come sempre ha ripetuto ai suoi amici: «Non temere, sono io». E le piaghe del suo corpo, che non si vedono più, ritornano nella sua voce: «Ero morto, ma ecco sono vivo».
È una frase straordinaria questa, c'è un calore quieto e profondo, una compassione forte e rassicurante come quella che Gesù ha sempre avuto per ogni persona che ha incontrato. Ho condiviso la morte di ogni essere umano ma sono vivo e voglio condividere anche la mia vita nuova con tutti voi.
In queste parole c'è il passato, il presente e il futuro che Dio ha preparato per i suoi figli e le sue figlie e c'è anche il messaggio che le chiese di Cristo sono chiamate tutte insieme, senza divisioni, ad annunciare in ogni tempo.
Amen.

Nessun commento: