sabato 25 aprile 2020

Predicazione di Domenica 26 aprile su 1 Pietro 2,19-25 a cura di Marco Gisola

1 Pietro 2,(19)21-25
19 […] è una grazia se qualcuno sopporta, per motivo di coscienza dinanzi a Dio, sofferenze che si subiscono ingiustamente. 20 Infatti, che vanto c'è se voi sopportate pazientemente quando siete malmenati per le vostre mancanze? Ma se soffrite perché avete agito bene, e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio. 21 Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme.
22 Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno.
23 Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; 24 egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti. 25 Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.


Il brano di oggi è un invito a sopportare le sofferenze che si subiscono ingiustamente e questo invito viene rivolto sulla base del comportamento che Gesù stesso ha tenuto nella sua passione e davanti alla croce. Cristo ci ha lasciato un esempio, dice il testo, di come comportarci davanti alla sofferenza ingiusta, lui che «soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente», cioè Dio, che è accanto a chi soffre ingiustamente.
Per capire perché Pietro, o chi per esso (è infatti molto discusso che le lettere che vanno sotto il nome di Pietro siano veramente dell’apostolo Pietro) dice queste cose a coloro cui scrive, dobbiamo capire chi sono i destinatari delle sue lettere. I lettori di questa lettera, come è indicato all’inizio della lettera, sono “gli eletti [cioè i cristiani] che vivono come forestieri dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia” (1,1). Sono dunque cristiani che vivono in mezzo ai pagani e che per questo motivo hanno a volte la vita difficile. Alcuni di loro, è detto nei versetti precedenti, lavorano come servi per padroni “difficili”, probabilmente pagani, e tutti loro hanno a che fare con un’autorità politica pagana. Da diversi accenni che troviamo nella lettera, comprendiamo che essi sperimentano la difficoltà di essere diversi dagli altri.
Questa diversità è fonte probabilmente, se non ancora di vere e proprie persecuzioni, comunque di difficoltà, di critiche, forse di diffidenza e di calunnia. Come fare a vivere la propria fede quando intorno c’è ostilità, o perlomeno la sfiducia di chi ci circonda? Come fare a conciliare la vita comunitaria e la spiritualità e tutto ciò che caratterizza una chiesa cristiana con una vita pubblica in cui ci si trova in mezzo a non credenti che sono a volte anche ostili? Problemi molto distanti dai nostri, che viviamo in una società (almeno teoricamente) a maggioranza cristiana.
Dunque, i credenti della fine del primo secolo a cui si rivolgono queste parole soffrivano a causa della loro fede. Soffrivano ingiustamente. E cosa dice la Parola di Dio a quei cristiani che soffrono ingiustamente a causa della loro fede? E dunque ai cristiani che anche oggi soffrono ingiustamente a causa della loro fede? Dice: Cristo è con voi, Cristo ha patito come voi, lui, il vostro pastore e guardiano delle vostre anime è come voi e con voi. Non siete soli, non siete pecore erranti, abbandonate, ma siete tornati al vostro pastore che ha conosciuto la sofferenza come voi e che vi accompagna nella vostra. La parola tradotta con “guardiano” in greco è episcopo (che in italiano è diventato vescovo) e significa letteralmente “sor-vegliante” cioè colui o colei che osserva e veglia da sopra, dall’alto. Cristo, dall’alto, guarda con amore e veglia su coloro che soffrono ingiustamente a causa sua.
Non fraintendiamo queste parole come se fossero un generale invito a sopportare la sofferenza o a sopportare tutte le sofferenze. No, queste parole non sono rivolte a chi in queste settimane ha perso un parente a causa del coronavirus, non sono rivolte a chi sta lottando contro un tumore. Sono rivolte a chi soffre ingiustamente a causa della propria fede.
Quando l’apostolo dice che «questa è una grazia davanti a Dio» e che «a questo siete stati chiamati» non vuol dire “siete stati chiamati a soffrire” o che la sofferenza in sé sia una grazia, ma vuol dire che la sofferenza ingiusta che si subisce è segno e parte del discepolato. È conseguenza dell’essere discepoli e discepole di Cristo. Niente “dolorismo” quindi, nessuna ricerca della sofferenza e nessun merito nella sofferenza.
La sofferenza è dolore, e il dolore è contrario alla volontà di Dio; Gesù ha sempre liberato le persone che incontrava dalla sofferenza che procurava loro dolore e causava emarginazione. Come è chiaro che l’ingiustizia, che provoca queste sofferenze, è assolutamente contraria alla volontà di Dio e Gesù stesso si è sempre opposto all’ingiustizia.
Ma capita che dei cristiani soffrano a causa della loro fede, capita in molti paesi del mondo, e capita che dei cristiani soffrano a causa del loro tentativo di essere coerenti con l’evangelo. A loro la Parola di Dio dice: Cristo che ha sofferto come voi e prima di voi, è con voi, è dalla vostra parte, veglia sulle vostre anime e vi dà forza di sopportare quello che non potete evitare.
Noi oggi riflettiamo su questi pochi versetti, ma non dobbiamo dimenticare che essi si trovano in un contesto più ampio e i versetti che precedono dicono un’altra cosa importante che ci aiuta anche a capire queste parole. Poco prima del nostro brano l’autore di questa lettera dà diverse istruzioni a questi cristiani che vivono immersi nella società dell’impero, che a è volte ostile. Il problema che si pone è come rapportarsi a questi pagani, che magari sono compagni o datori di lavoro, familiari, amici… sono le persone che hanno l’autorità politica e governano una città.
L’autore dice chiaramente: i pagani devono potere osservare «le vostre opere buone» e quindi dare «gloria a Dio» (v. 12). E la volontà di Dio è espressa in questo modo: la volontà di Dio è «che, facendo il bene, turiate la bocca all'ignoranza degli uomini stolti» (v. 15). Prima di esortare i cristiani dell’Asia minore a sopportare le sofferenze ingiuste, l’autore di questa lettera li esorta a tentare di “prevenire” (diciamo così … ) le ingiustizie. E come? Facendo il bene!
Qual’è l’unica arma che ha una piccola comunità cristiana che vive in mezzo all’ostilità dei pagani? l’unica arma che ha – anzi: l’unica arma che è consentito ai cristiani di usare! – è Il bene, è il fare il bene. Un’arma – beninteso – nonviolenta, che è quel modo di essere e di rapportarsi agli altri che Gesù stesso ci ha insegnato quando ha detto «se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra» (Matteo 5,39), che non significa subire per il gusto di subire, ma significa non rispondere a violenza con violenza, come ha anche detto l’apostolo Paolo quando ha scritto «non rendete male per male» (Romani 12,7).
Opporsi al male facendo il bene, questo è il modo di stare nel mondo e di rapportarsi agli altri dei discepoli e delle discepole di Cristo. Di questo modo di stare nel mondo e di rapportarsi agli altri – anche e sopratutto quelli che non la pensano come noi e ci vogliono male – fa parte anche il sopportare le sofferenze ingiuste, NON allo scopo – ribadiamolo ancora – di soffrire per soffrire, ma allo scopo di non rispondere all’ingiustizia con altra ingiustizia.
I cristiani venivano guardati di malocchio perché erano diversi dagli altri, non praticavano il culto degli dèi, non veneravano l’imperatore… L’autore di questa lettera, in fondo, chiede loro proprio di essere diversi, di essere diversi nel senso di essere discepoli e discepole di Cristo nella loro vita quotidiana, nel loro rapporto con le altre persone, a partire da quelle ostili. Questa diversità è la loro prima testimonianza, questa diversità è il loro essere discepoli e discepole di Cristo nel fare come Cristo ha fatto davanti alla sofferenza ingiusta che lui ha subito. E l’evangelo che oggi riceviamo è che Cristo – pastore e guardiano/sorvegliante delle nostre anime – è dalla parte di chi fa il bene e sopporta le sofferenze ingiuste, che quindi non è da solo, come una pecora errante, ma è vegliato e sostenuto dal suo pastore.
Un’ultima cosa va detta, visto il periodo in cui leggiamo questo brano: fa sicuramente un certo effetto leggere queste parole intorno al 25 aprile, festa della liberazione; liberazione che è avvenuta perché molti giovani l’8 settembre 1943 hanno deciso di non sopportare più la tirannia fascista e nazista ma di iniziare una guerra di liberazione.
Non hanno voluto sopportare la sofferenza ingiusta che avrebbero dovuto subire e hanno fatto una scelta di campo. Tra loro molto cristiani, molti credenti che lo hanno fatto anche per ragioni di fede, che hanno forse dato maggior peso a quell’altra parola biblica (pronunciata, anche questa, dall’apostolo Pietro), che dice che «bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini» (Atti 5,29).
Hanno fatto la scelta che in tutt’altro contesto ha fatto Bonhoeffer quando, davanti alla domanda come poteva un cristiano partecipare al complotto per uccidere un uomo (Bonhoeffer collaborò indirettamente al tentativo di uccidere Hitler in un attentato che fallì nel luglio 1944), rispose che se un cristiano vede un pazzo che, alla guida di un’auto, sta facendo una strage, il suo compito non è soltanto quello di curare i feriti e di seppellire i morti, ma anche quello di fermare il pazzo alla guida.
Noi speriamo che la storia non ci metta più davanti a scelte del genere, ma forse “resistenza” è la parola giusta per definire anche l’atteggiamento che suggerisce il Pietro della lettera: una resistenza nonviolenta, portata avanti facendo il bene per dare una buona testimonianza del proprio Signore che è venuto a portare perdono, gioia e pace, ovvero il “bene” per eccellenza e, se necessario, nel sopportare le sofferenze ingiuste che questa testimonianza comporta, come ha fatto Cristo stesso. Che il Signore, che ci ha promesso di vegliare su di noi, ci aiuti e accompagni in questa resistenza quotidiana nonviolenta.

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