Giovanni
15,1-8
1
«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo.
2
Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio
che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più. 3
Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciata. 4
Dimorate in me, e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé
dare frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non
dimorate in me. 5
Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel
quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete
fare nulla. 6
Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca;
questi tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano. 7
Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi, domandate quello
che volete e vi sarà fatto. 8
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto,
così sarete miei discepoli.
Quella
che ci presenta qui l’evangelista Giovanni è un’immagine
stupefacente del legame tra Gesù e i discepoli. Stupefacente per
quanto è intensa, perché Gesù si paragona alla vite e paragona i
discepoli ai tralci. E i tralci fanno parte della vite, anzi i tralci
nascono da essa. La
vite e i tralci: segno di un
legame molto stretto, di un legame vitale, dunque essenziale. Vitale
perché, senza la vite, i tralci non vivono e non fruttificano.
Quando
Gesù pronuncia queste parole,
la sua passione è all’orizzonte ed
egli deve ancora dire molte
cose importanti a coloro che lo hanno accompagnato
fin qui. Il suo discorso di
“addio” è iniziato al capitolo 14 e proseguirà
fino al
capitolo 16. Il
cap. 17 sarà la preghiera che Gesù rivolgerà al
Padre per i suoi discepoli e
al capitolo 18 inizierà la Passione di Gesù. Il
clima in cui si inseriscono i versetti che abbiamo letto
è quindi
quello della imminente morte e resurrezione (o, come dice Giovanni,
glorificazione) di Gesù. Presto Gesù non sarà più presente
fisicamente in mezzo ai suoi discepoli. I discepoli riceveranno lo
Spirito, che sarà la “presenza del Gesù assente”, come ha
felicemente detto qualcuno. Gesù
lo ha promesso proprio poco prima (cap. 14). Ma
oltre allo Spirito c’è un altro legame con Gesù che non si
interrompe con la sua glorificazione: questo legame è dato dalla sua
Parola.
L’immagine
della vite e dei tralci
infatti è molto
bella, anche molto poetica. Ma se vogliamo
interpretare l’immagine
dobbiamo chiederci che
cos’è che lega Gesù
ai
suoi discepoli e alle
sue discepole, ieri come oggi. Non si tratta infatti di un legame di
vicinanza fisica, perché Gesù tornerà al Padre. Non è un legame
puramente sentimentale, anche se è evidente che tra Gesù e i suoi
discepoli c’è un legame affettivo: Gesù stesso poco più avanti
dirà che ha chiamato “amici” i suoi discepoli.
Non è un legame mistico o
contemplativo, non è nemmeno
un legame fondato
sull’esperienza
spirituale o
sulla conoscenza
intellettuale.
È
un legame fondato sulla Parola, o sulle parole, di Gesù. La
sua Parola è nominata
due volte da Gesù in questi versetti: al v. 3 è il mezzo attraverso
cui i discepoli sono resi
«puri».
Al v. 7 è detto che i
discepoli devono dimorare (altri traducono “rimanere”) in Gesù e
che le parole di Gesù devono dimorare nei discepoli. Al
v. 3 la Parola è
legata all’immagine della potatura, eseguita dal vignaiolo,
cioè da Dio. Mentre
nella
seconda parte del testo l’immagine della potatura è legata
all’idea del giudizio
(il fuoco), qui sembra più legata all’idea della cura: il
vignaiolo
cura la vigna potandola, affinché
essa dia più frutto.
C’è
un gioco di parole sul verbo utilizzato, che significa
sia, in senso
agricolo, “potare”, sia in senso religioso, “purificare”.
Quando Gesù dice che i
discepoli sono già puri non intende dire che sono perfetti, che
hanno raggiunto un qualche obiettivo religioso o morale, ma che sono
affidati alla cura del Padre, il quale li “pota”, li “purifica”,
potremmo dire li “cura”
attraverso «la parola che vi ho annunziata», cioè attraverso
la Parola che Gesù ha
annunziata
loro.
In
questo dunque consiste il dimorare del tralcio nella vite, e - fuor
di metafora - il dimorare del discepolo/della discepola in Gesù: nel
ricevere l’annuncio della parola. E ribadisce questo al v. 7:
l’affermazione «io dimorerò in voi» del v. 4 è spiegata
dall’affermazione «le mie parole dimorano in voi...» del v. 7.
Gesù dimora nei suoi discepoli proprio attraverso le sue parole.
Un
messaggio bello e liberante: perché davanti alle parole di Gesù
“dimorate in me” la domanda
che nasce spontanea è: “e come faccio a dimorare in te, Signore?
Che cosa devo fare?” La risposta di Gesù è: ascolta la mia
Parola, ricevi l’annuncio dell’evangelo, lascia
che le mie parole dimorino in te; ascolta
e porterai frutto.
E
qui ci spaventiamo! Ma come?! Il mio frutto… il mio frutto è così
piccolo, così fragile… non è un bel grappolo grande e pieno di
sostanza… a volte è come uno di quei grappoli dove magari due o
tre acini sono belli ma sono circondati da acini piccoli e avvizziti…
Ma
non c’è da temere, siamo sotto la cura del Padre, del vignaiolo
che ci pota perché portiamo ancora più frutto… Lui lo sa
benissimo che il nostri frutto non è mai quello che dovrebbe essere
e spesso nemmeno quello che vorremmo noi… Ma egli si prende cura di
noi. L’unica cosa importante è rimanere nella vite, dimorare in
Gesù, ovvero nella sua Parola.
Infatti
Gesù, dopo aver detto
che i discepoli
sono già puri, non dice
loro
“portate frutto”; avremmo
potuto
aspettarci questo
comandamento…! E invece no, Gesù dice loro
“dimorate in me”. Davvero
la prima cosa è dimorare in lui e nella sua Parola, il resto è
conseguenza.
Questo
è il centro di questo bellissimo brano, che ha ancora alcuni
particolari da evidenziare:
1)
Il
frutto è frutto (la ripetizione è voluta…) della promessa
«Colui
che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto».
Del
resto, se vogliamo rimanere nell’immagine, il frutto non lo “fa”
il tralcio, ma la vite, cioè Cristo… Il frutto nasce “sul”
tralcio, ma chi rende possibile la sua nascita è la vite con la sua
linfa, la quale – se volessimo continuare l’immagine di Gesù –
potrebbe essere proprio
la sua Parola…
È
la
promessa che è fruttifera, non il
discepolo che la riceve.
Il
tralcio porta frutto perché – e solo perché
-
«dimora» nella vite che è la fonte della sua vita, ovvero fonte
della promessa.
Nelle
parole di Gesù troviamo un’altra promessa: «domandate
quello che volete e vi sarà fatto»;
la relazione tra Gesù e i suoi discepoli e le sue discepole è
fondata sull’ascolto della Parola di Gesù, ma questo ascolto
diventa preghiera, quindi diventa dialogo. La
promessa riguarda l’esaudimento della preghiera,
tema misterioso e complesso, perché tutti abbiamo esperienza di
preghiere non esaudite. È possibile che nel contesto di queste
parole la preghiera riguardi proprio il portare frutto: “dimorare
in Gesù” consiste anche nel chiedergli ciò che egli rende
possibile, ovvero di portare il frutto gradito a Dio. A
chi dimora in Gesù è promesso
l’esaudimento
di
questa
preghiera.
2)
Le
parole
che
Gesù
dice
in questo discorso implicano
anche un giudizio, rappresentato dal tralcio che non dà frutto, che
viene quindi tagliato e gettato nel fuoco; «senza di me non potete
far nulla» dice Gesù. Ma
prima
di trasformare questo discorso di Gesù in un giudizio emesso da
noi
nei confronti di altri (il che sarebbe un errore gravissimo, perché
il giudizio – proprio come la grazia - spetta a Dio soltanto),
dobbiamo tenere presente che il discorso di Gesù si rivolge proprio
ai
suoi discepoli. Gesù sta dicendo a
noi
che senza di lui non possiamo fare nulla, che senza
di lui non
possiamo portare frutto. È
una parola rivolta ai discepoli, e oggi rivolta a noi, per esortarli
a non pensare di poter portare frutto senza di lui.
3)
Infine,
la conclusione di Gesù: «In
questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così
sarete miei discepoli».
Portare frutto è il modo in cui il discepolo/la discepola glorifica
Dio ed è veramente discepolo di Gesù; il
quale
nella continuazione del suo discorso (vv.
9ss.) invita
i discepoli a dimorare nel suo
amore e ad amarsi gli uni gli altri. L’amore sarà il frutto del
“dimorare” nella Parola (e quindi nell'amore) di Gesù.
L’amore
è dunque frutto dell’amore. L’amore che sappiamo vivere noi
(sempre limitato e “inquinato” dal nostro egocentrismo) è frutto
dell’amore infinito e gratuito di Dio, che ci ha fatti “nascere”
come tralci dalla sua vite, il suo figlio Gesù.
E
concludiamo tornando all’inizio, alla vite e ai tralci: chi siamo
dunque noi, aspiranti discepoli/discepole di Gesù? Che cosa siamo?
Siamo un tralcio, ovvero come (aspiranti) discepoli/discepole di Gesù
non abbiamo una nostra vita propria, ma viviamo soltanto se rimaniamo
ben attaccati alla vite e ci nutriamo della sua linfa, la sua Parola.
Non siamo un albero, un cespuglio, nemmeno una pianta, che sarà
fragile, ma ha vita propria. No, noi siamo “soltanto” tralci,
come discepoli/discepole esistiamo soltanto nella misura in cui
rimaniamo nella vite e soltanto rimanendo lì, dimorando nella sua
parola, possiamo portare frutto.
Ma
quei tralci non sono “soltanto” tralci, perché essere tralci
vuol dire essere stati chiamati da Dio, per grazia, a essere
discepoli/discepole di Gesù, vuol dire essere stati resi tralci
da Dio, essere stati fatti nascere nella vite che è Gesù. E dunque,
per il fatto di essere tralci, possiamo ringraziare il Signore che
nella sua grazia infinita ci ha fatto questo grande dono.
Questo
è ciò che ci è donato, insieme alla promessa che il vignaiolo, il
Padre, ha cura di noi, ha cura dei tralci della sua vite. Quello che
ci è chiesto è di rimanere nella vite, cioè in Cristo, di dimorare
nella sua Parola che Egli ci ha annunziata.
È
lei, la sua Parola, la linfa che ci fa vivere e mantiene noi-tralci
saldamente attaccati alla vite-Cristo e fa sì che portiamo frutto e
così facendo glorifichiamo Dio.
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