sabato 2 maggio 2020

Predicazione di Domenica 3 maggio 2020 su Giovanni 15,1-8 a cura di Marco Gisola

Giovanni 15,1-8
1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. 2 Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più. 3 Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciata. 4 Dimorate in me, e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dare frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me. 5 Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete fare nulla. 6 Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca; questi tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano. 7 Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli.


Quella che ci presenta qui l’evangelista Giovanni è un’immagine stupefacente del legame tra Gesù e i discepoli. Stupefacente per quanto è intensa, perché Gesù si paragona alla vite e paragona i discepoli ai tralci. E i tralci fanno parte della vite, anzi i tralci nascono da essa. La vite e i tralci: segno di un legame molto stretto, di un legame vitale, dunque essenziale. Vitale perché, senza la vite, i tralci non vivono e non fruttificano.
Quando Gesù pronuncia queste parole, la sua passione è all’orizzonte ed egli deve ancora dire molte cose importanti a coloro che lo hanno accompagnato fin qui. Il suo discorso di “addio” è iniziato al capitolo 14 e proseguirà fino al capitolo 16. Il cap. 17 sarà la preghiera che Gesù rivolgerà al Padre per i suoi discepoli e al capitolo 18 inizierà la Passione di Gesù. Il clima in cui si inseriscono i versetti che abbiamo letto è quindi quello della imminente morte e resurrezione (o, come dice Giovanni, glorificazione) di Gesù. Presto Gesù non sarà più presente fisicamente in mezzo ai suoi discepoli. I discepoli riceveranno lo Spirito, che sarà la “presenza del Gesù assente”, come ha felicemente detto qualcuno. Gesù lo ha promesso proprio poco prima (cap. 14). Ma oltre allo Spirito c’è un altro legame con Gesù che non si interrompe con la sua glorificazione: questo legame è dato dalla sua Parola.
L’immagine della vite e dei tralci infatti è molto bella, anche molto poetica. Ma se vogliamo interpretare l’immagine dobbiamo chiederci che cos’è che lega Gesù ai suoi discepoli e alle sue discepole, ieri come oggi. Non si tratta infatti di un legame di vicinanza fisica, perché Gesù tornerà al Padre. Non è un legame puramente sentimentale, anche se è evidente che tra Gesù e i suoi discepoli c’è un legame affettivo: Gesù stesso poco più avanti dirà che ha chiamato “amici” i suoi discepoli. Non è un legame mistico o contemplativo, non è nemmeno un legame fondato sull’esperienza spirituale o sulla conoscenza intellettuale.
È un legame fondato sulla Parola, o sulle parole, di Gesù. La sua Parola è nominata due volte da Gesù in questi versetti: al v. 3 è il mezzo attraverso cui i discepoli sono resi «puri». Al v. 7 è detto che i discepoli devono dimorare (altri traducono “rimanere”) in Gesù e che le parole di Gesù devono dimorare nei discepoli. Al v. 3 la Parola è legata all’immagine della potatura, eseguita dal vignaiolo, cioè da Dio. Mentre nella seconda parte del testo l’immagine della potatura è legata all’idea del giudizio (il fuoco), qui sembra più legata all’idea della cura: il vignaiolo cura la vigna potandola, affinché essa dia più frutto.
C’è un gioco di parole sul verbo utilizzato, che significa sia, in senso agricolo, “potare”, sia in senso religioso, “purificare”. Quando Gesù dice che i discepoli sono già puri non intende dire che sono perfetti, che hanno raggiunto un qualche obiettivo religioso o morale, ma che sono affidati alla cura del Padre, il quale li “pota”, li “purifica”, potremmo dire li “cura” attraverso «la parola che vi ho annunziata», cioè attraverso la Parola che Gesù ha annunziata loro.
In questo dunque consiste il dimorare del tralcio nella vite, e - fuor di metafora - il dimorare del discepolo/della discepola in Gesù: nel ricevere l’annuncio della parola. E ribadisce questo al v. 7: l’affermazione «io dimorerò in voi» del v. 4 è spiegata dall’affermazione «le mie parole dimorano in voi...» del v. 7. Gesù dimora nei suoi discepoli proprio attraverso le sue parole.
Un messaggio bello e liberante: perché davanti alle parole di Gesù “dimorate in me” la domanda che nasce spontanea è: “e come faccio a dimorare in te, Signore? Che cosa devo fare?” La risposta di Gesù è: ascolta la mia Parola, ricevi l’annuncio dell’evangelo, lascia che le mie parole dimorino in te; ascolta e porterai frutto.
E qui ci spaventiamo! Ma come?! Il mio frutto… il mio frutto è così piccolo, così fragile… non è un bel grappolo grande e pieno di sostanza… a volte è come uno di quei grappoli dove magari due o tre acini sono belli ma sono circondati da acini piccoli e avvizziti
Ma non c’è da temere, siamo sotto la cura del Padre, del vignaiolo che ci pota perché portiamo ancora più frutto… Lui lo sa benissimo che il nostri frutto non è mai quello che dovrebbe essere e spesso nemmeno quello che vorremmo noi… Ma egli si prende cura di noi. L’unica cosa importante è rimanere nella vite, dimorare in Gesù, ovvero nella sua Parola.
Infatti Gesù, dopo aver detto che i discepoli sono già puri, non dice loro “portate frutto”; avremmo potuto aspettarci questo comandamento…! E invece no, Gesù dice loro “dimorate in me”. Davvero la prima cosa è dimorare in lui e nella sua Parola, il resto è conseguenza.
Questo è il centro di questo bellissimo brano, che ha ancora alcuni particolari da evidenziare:
1) Il frutto è frutto (la ripetizione è voluta…) della promessa «Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto». Del resto, se vogliamo rimanere nell’immagine, il frutto non lo “fa” il tralcio, ma la vite, cioè Cristo… Il frutto nasce “sul” tralcio, ma chi rende possibile la sua nascita è la vite con la sua linfa, la quale – se volessimo continuare l’immagine di Gesù – potrebbe essere proprio la sua Parola… È la promessa che è fruttifera, non il discepolo che la riceve. Il tralcio porta frutto perché – e solo perché - «dimora» nella vite che è la fonte della sua vita, ovvero fonte della promessa.
Nelle parole di Gesù troviamo un’altra promessa: «domandate quello che volete e vi sarà fatto»; la relazione tra Gesù e i suoi discepoli e le sue discepole è fondata sull’ascolto della Parola di Gesù, ma questo ascolto diventa preghiera, quindi diventa dialogo. La promessa riguarda l’esaudimento della preghiera, tema misterioso e complesso, perché tutti abbiamo esperienza di preghiere non esaudite. È possibile che nel contesto di queste parole la preghiera riguardi proprio il portare frutto: “dimorare in Gesù” consiste anche nel chiedergli ciò che egli rende possibile, ovvero di portare il frutto gradito a Dio. A chi dimora in Gesù è promesso l’esaudimento di questa preghiera.
2) Le parole che Gesù dice in questo discorso implicano anche un giudizio, rappresentato dal tralcio che non dà frutto, che viene quindi tagliato e gettato nel fuoco; «senza di me non potete far nulla» dice Gesù. Ma prima di trasformare questo discorso di Gesù in un giudizio emesso da noi nei confronti di altri (il che sarebbe un errore gravissimo, perché il giudizio – proprio come la grazia - spetta a Dio soltanto), dobbiamo tenere presente che il discorso di Gesù si rivolge proprio ai suoi discepoli. Gesù sta dicendo a noi che senza di lui non possiamo fare nulla, che senza di lui non possiamo portare frutto. È una parola rivolta ai discepoli, e oggi rivolta a noi, per esortarli a non pensare di poter portare frutto senza di lui.
3) Infine, la conclusione di Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli». Portare frutto è il modo in cui il discepolo/la discepola glorifica Dio ed è veramente discepolo di Gesù; il quale nella continuazione del suo discorso (vv. 9ss.) invita i discepoli a dimorare nel suo amore e ad amarsi gli uni gli altri. L’amore sarà il frutto del “dimorare” nella Parola (e quindi nell'amore) di Gesù.
L’amore è dunque frutto dell’amore. L’amore che sappiamo vivere noi (sempre limitato e “inquinato” dal nostro egocentrismo) è frutto dell’amore infinito e gratuito di Dio, che ci ha fatti “nascere” come tralci dalla sua vite, il suo figlio Gesù.
E concludiamo tornando all’inizio, alla vite e ai tralci: chi siamo dunque noi, aspiranti discepoli/discepole di Gesù? Che cosa siamo? Siamo un tralcio, ovvero come (aspiranti) discepoli/discepole di Gesù non abbiamo una nostra vita propria, ma viviamo soltanto se rimaniamo ben attaccati alla vite e ci nutriamo della sua linfa, la sua Parola. Non siamo un albero, un cespuglio, nemmeno una pianta, che sarà fragile, ma ha vita propria. No, noi siamo “soltanto” tralci, come discepoli/discepole esistiamo soltanto nella misura in cui rimaniamo nella vite e soltanto rimanendo lì, dimorando nella sua parola, possiamo portare frutto.
Ma quei tralci non sono “soltanto” tralci, perché essere tralci vuol dire essere stati chiamati da Dio, per grazia, a essere discepoli/discepole di Gesù, vuol dire essere stati resi tralci da Dio, essere stati fatti nascere nella vite che è Gesù. E dunque, per il fatto di essere tralci, possiamo ringraziare il Signore che nella sua grazia infinita ci ha fatto questo grande dono.
Questo è ciò che ci è donato, insieme alla promessa che il vignaiolo, il Padre, ha cura di noi, ha cura dei tralci della sua vite. Quello che ci è chiesto è di rimanere nella vite, cioè in Cristo, di dimorare nella sua Parola che Egli ci ha annunziata.
È lei, la sua Parola, la linfa che ci fa vivere e mantiene noi-tralci saldamente attaccati alla vite-Cristo e fa sì che portiamo frutto e così facendo glorifichiamo Dio.

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