lunedì 15 giugno 2020

Predicazione di domenica 14 giugno 2020 su Atti 4,32-37 a cura di Marco Gisola

Atti 4,32-37

32 La moltitudine di quelli che avevano creduto era d’un sol cuore e di un’anima sola; non vi era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva ma tutto era in comune tra di loro. 33 Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù; e grande grazia era sopra tutti loro. 34 Infatti non c’era nessun bisognoso tra di loro; perché tutti quelli che possedevano poderi o case li vendevano, portavano l’importo delle cose vendute, 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi, veniva distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
36 Or Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba (che tradotto vuol dire: Figlio di consolazione), Levita, cipriota di nascita, 37 avendo un campo, lo vendette, e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli.



1. Il brano di oggi ci dice che coloro che vanno a formare la chiesa che nasce dalla predicazione di Pentecoste mettono in comune le loro sostanze e i loro beni. Vendono case e poderi e ciò che ricavano lo mettono in una cassa comune gestita dagli apostoli. Potremmo dire che l’evangelo che gli apostoli predicano a Pentecoste e nei giorni successivi entra nelle tasche dei credenti. Eh sì, l’evangelo non entra soltanto nei nostri cuori per portarci alla fede, ma entra anche nelle nostre tasche. Anzi, potremmo dire che entra nei nostri cuori e nelle nostre menti per convertire il nostro pensiero e le nostre decisioni, anche quelle che riguardano i beni che noi abbiamo.

Questi versetti ci parlano di un modello di chiesa che forse si è realizzato nella primissima comunità che nasce dopo Pentecoste, che poi è stato più volte tentato ed è tentato ancora oggi - per esempio nei monasteri o in altre esperienze comunitarie – ma che non è stato realizzato dalla stragrande maggioranza dei cristiani. Potremmo dire che il 99,99 % dei cristiani (me compreso) non ha nemmeno tentato di metterlo in pratica. È vero che la comunione dei beni, come ci dice il racconto successivo, non era obbligatoria ma era una libera scelta, ma è altrettanto vero che secondo gli Atti degli Apostoli questa scelta all’inizio della storia della chiesa l’hanno fatta in molti ed era considerata parte integrante dell’adesione alla fede in Gesù Cristo.

In ogni caso, non siamo autorizzati a liquidare questo racconto come utopia irrealizzabile, ma se vogliamo prenderlo sul serio, dobbiamo prenderlo come un modello che rimane lì davanti a noi, come una vera proposta concreta e una sfida per la nostra esistenza cristiana. Questo testo ci dice chiaramente che l’evangelo della resurrezione modifica i rapporti materiali dei fratelli e delle sorelle, che li tocca nelle loro sostanze, nei loro beni. Essere di un cuor solo e di un’anima sola non è solo una questione spirituale. O meglio: questo testo ci dice ancora una volta che per la fede biblica (ebraico-cristiana) il materiale è spirituale e lo spirituale comprende il materiale.

Gli Apostoli amministrano la cassa comune. Gli apostoli, che hanno l’esperienza unica e straordinaria di aver incontrato Gesù risorto e hanno quindi come compito principale quello di annunciare la resurrezione, sono anche coloro che gestiscono la cassa comune della comunità. Forse questa concentrazione di compiti - e quindi di potere - ci spaventa un po’ (per questo noi cerchiamo di evitarla), ma il messaggio è che l’annuncio dall’evangelo e la gestione dei rapporti materiali e economici all’interno della comunità fanno parte dello stesso ministero della chiesa.

La cassa della chiesa e come essa viene gestita e usata è una forma di testimonianza. Ma la cassa della chiesa è formata da quelle che noi valdesi chiamiamo “contribuzioni” e “offerte”. Dunque la nostra partecipazione economica alla cassa della chiesa è anch’essa una forma di testimonianza di ciascuno e ciascuna di noi. Nella chiesa non ha luogo soltanto una condivisione della fede e della speranza, delle gioie e dei dolori, ma anche una condivisione dei beni materiali; su questo gli Atti degli apostoli sono chiari e questa rimane una sfida messa davanti a ciascuno/a di noi.


2. Dove si vede, riguardo ai beni che uno possiede, la conversione che l’evangelo della resurrezione opera nei credenti? Il nostro testo lo dice chiaramente: «non vi era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva ma tutto era in comune tra di loro». Nessuno considera “suo” ciò che possiede. Questa è la conversione, questo è ciò che accade nel cuore, nella mente e nelle tasche dei credenti.

La conseguenza è che mettono tutto in comune, ma la causa di questa loro decisione così drastica e radicale è questo cambiamento di mentalità (questo significa la parola “conversione”) riguardo ai beni posseduti. Diventando cristiano non considero più “mio” ciò che ho: ciò che è mio non è più mio, diventa nostro. Se ci pensiamo bene è un messaggio veramente rivoluzionario, perché sono proprio la mente e il cuore a essere trasformati. Prima dell’azione di mettere in comune i propri beni, è l’atteggiamento verso la proprietà che cambia. Nessuno considera più suo ciò che ha.

La comunione dei beni è la conseguenza pratica del cambiamento che avviene dentro di loro. Non è un obbligo, non sembra essere una condizione indispensabile per essere accettati nella comunità cristiana, è una scelta. Il racconto che segue, per certi versi terribile, di Anania e Saffira, ci dice che non erano obbligati a vendere i loro beni.

Anania e Saffira vendono una proprietà ma danno agli apostoli solo una parte del ricavato e quindi mentono alla comunità e anche a Dio stesso, per questo pagheranno con la vita, cosa che a noi pare esagerata… È qui che Pietro dice loro che potevano anche non vendere il loro campo oppure tenersi tutto il ricavato, e ciò dimostra che non erano obbligati a farlo. Il loro errore è pensare di poter ingannare Dio e in fondo anche la comunità.

Dunque gli Atti degli Apostoli ci raccontano una comunità che non è perfetta, come dimostra questo tragico episodio, ma che vive comunque una conversione che tocca nel profondo l’esistenza dei credenti, e tocca nel profondo le loro tasche, i loro beni e il modo in cui considerano ciò che hanno. Poteremmo dire, con un gioco di parole, che i loro beni non sono più considerati un bene soltanto per loro ma diventano un bene per la comunità intera. I “beni” intesi come proprietà, diventano “bene” comune per fare del “bene” alla comunità.


3. Infatti – e qui veniamo al terzo pensiero – la comunione dei beni – o forse sarebbe più corretto dire la condivisione dei beni - non è un bel gesto per mettersi in mostra o per distinguersi dagli altri. La condivisione dei beni ha un obiettivo molto concreto: l’obiettivo è che nessuno sia nel bisogno: «Infatti non c’era nessun bisognoso tra di loro». Questo è l’obiettivo: che non ci sia nessun bisognoso, cioè che nessuno manchi del necessario, che nessuno soffra perché manca di ciò che gli serve per vivere.

Il ricavato delle vendite delle proprietà, infatti, viene portato agli apostoli e «poi, veniva distribuito a ciascuno, secondo il bisogno». Potremmo dire che se nessuno considera sua proprietà ciò che possiede, se ciò che è mio non è più solo mio, ma è nostro, allora la conseguenza è che il tuo bisogno diventa mio e il mio bisogno diventa tuo. La condivisione dei beni ha come scopo la condivisione dei bisogni.

La condivisione dei beni è un mezzo per raggiungere questo fine, un mezzo nobilissimo, forse il mezzo cristiano per eccellenza, che deve rimanere un obiettivo. Ma non è il fine, è il mezzo per raggiungere lo scopo, ovvero la condivisione dei bisogni e il fatto che non ci sia più nessun bisognoso. Se prendiamo la condivisione dei beni come il fine ricadiamo in una teologia delle opere che dividerebbe i più buoni dai meno buoni, o i più coraggiosi dai meno coraggiosi.

Non dobbiamo però nemmeno rinunciare al fine solo perché non riusciamo a mettere in atto il mezzo. Il nostro obiettivo come cristiani è che nella comunità non vi sia alcun bisognoso e la via per eccellenza che ci è indicata è quella della condivisione dei beni.

Ma poiché la parola di Dio ci interpella non solo come cristiani membri di una chiesa ma anche come cristiani membri di una società, questo obiettivo che non vi sia alcun bisognoso diventa un obiettivo sociale. L’evangelo della resurrezione fa rinascere a nuova vita spiritualmente e materialmente, perché la vita è una e la persona è una e nella nostra esistenza il materiale e lo spirituale si intrecciano profondamente.

Perché - come dicevamo all’inizio – l’evangelo entra nelle nostre tasche. E vorrei concludere sottolineando che è proprio l’evangelo che provoca questa conversione e questa rivoluzione nelle teste e nelle tasche dei primi cristiani. È l’evangelo della resurrezione: «Gli apostoli, con grande potenza, rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù; e grande grazia era sopra tutti loro». Questa è la ragione per cui i cristiani non considerano più loro proprietà ciò che hanno, questa è la ragione per cui si lanciano in questa avventura della condivisione dei beni, perché non vi sia alcun bisognoso tra loro: perché Cristo è risorto.

La ragione, ciò che rende possibile e da senso a questo tentativo – che, ripeto, rimane un modello e un esempio per qualunque comunità cristiana di ogni tempo – è l’evangelo della resurrezione. Cristo è risorto, lo Spirito della Pentecoste spinge gli apostoli ad annunciarlo al mondo e questo è quello che accade quando l’evangelo della resurrezione è annunciato e entra nei cuori, nelle menti e nelle tasche delle persone. Voglia lo Spirito che l’evangelo della resurrezione converta e trasformi anche noi, dalla testa ai piedi, passando per le tasche.

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