domenica 28 giugno 2020

Predicazione di domenica Biella 28 giugno 2020 su Michea 7,18-20 a cura di Marco Gisola

Michea 7,18-20


Quale Dio è come te, che perdoni l’iniquità e passi sopra alla colpa del resto della tua eredità? Egli non serba la sua ira per sempre, perché si compiace di usare misericordia. Egli tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà a Giacobbe, la tua misericordia ad Abraamo, come giurasti ai nostri padri, fin dai giorni antichi.


In questo brano del profeta Michea c’è tutto Dio e c’è tutto l’essere umano. C’è tutto l’essere umano perché c’è tutta la colpa umana e c’è tutto Dio perché c’è tutta la grazia divina. È la conclusione del libro del profeta Michea, profeta che ha annunciato il giudizio e la grazia, che ha accusato e rimproverato e ha annunciato il perdono di Dio.

Nelle ultime parole del suo libro Michea porta il nostro sguardo a Dio e contemporaneamente porta il nostro sguardo al futuro; se ci fate attenzione, tutti i verbi degli ultimi due versetti sono al futuro: «tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà […]. Sono dunque cose che Dio farà e dunque sono promesse di Dio.

Guardare a Dio significa guardare al futuro. Quello del profeta Michea è uno sguardo rivolto verso l’alto e quindi rivolto verso il futuro ed è un invito rivolto al popolo d’Israele – e oggi rivolto a noi – a guardare a Dio e al futuro.

Michea, però, non sta dicendo che va tutto bene. Anzi: Michea chiama le cose con il loro nome: l’essere umano è descritto dalle parole «iniquità», «colpa», «colpe», «peccati». Tutte cose vere, reali, dolorose, che Michea ha raccontato e contro cui ha annunciato il giudizio di Dio nei capitoli precedenti.

Ma l’iniquità è perdonata, alla colpa Dio ci passa sopra, le nostre colpe le metterà sotto i suoi piedi e i nostri peccati li getterà in fondo al mare! Questo modo di essere e di agire di Dio è riassunto nelle parole «misericordia», «pietà», «fedeltà», e di nuovo «misericordia».

Ma, di nuovo, non si tratta, banalmente, di un happy end, un lieto fine; il perdono di Dio non è un diritto (nostro) o un dovere (di Dio), ma è un dono, una decisione di grazia. Una decisione sofferta, nel senso che Dio, prima di fare tutto ciò, soffre ed è arrabbiato.

Il testo dice che Dio «non serba la sua ira per sempre»; Dio non serba la sua ira, ma la sua ira c’è, Dio è adirato, arrabbiato. Arrabbiato perché vede le colpe del suo popolo, vede i poveri sfruttati e la sua legge ignorata, vede l’infedeltà del popolo – o di gran parte di esso - che se ne infischia di ciò che Egli gli ha chiesto. Per questo è adirato, arrabbiato, per questo Dio soffre.

Se noi saltassimo questo passaggio, se noi ignorassimo questa ira di Dio per passare immediatamente al suo perdono e alla sua misericordia, non renderemmo giustizia a Dio, non ne parleremmo come ne parla la Bibbia, come qui ne parla Michea, e come ne parla anche Gesù.

Solo prendendo sul serio la colpa, anche il perdono è una cosa seria. Ed è un cosa talmente seria che per donarci la sua grazia, Dio ha mandato suo figlio che l’umanità (colpevole) ha inchiodato sulla croce e Dio ha risuscitato per dire che la sua ultima parola è parola di vita e di grazia. Come nel libro del profeta Michea.

L’ultima parola del libro di Michea è dunque una parola di grazia. Potremmo dire: lultima parola di Dio è una parola di grazia, è il Dio adirato che lascia la sua ira e sceglie l’amore. L’ultima parola di Dio è la grazia, ma questa si comprende soltanto se teniamo ben presente anche la penultima parola di Dio che è appunto la sua ira.

L’ultima parola è la grazia, è l’amore, ma la penultima è l’ira. Se dimentichiamo una delle due non capiamo Dio e non capiamo nemmeno noi stessi.

Un professore della facoltà di teologia ci diceva che quando si parla di Dio non basta dire una cosa sola, ma bisogna sempre dirne due. E in questo testo di Michea ci sono appunto due parole che parlano di Dio, anzi due parole di Dio: il giudizio e la grazia. Solo se li teniamo insieme capiamo Dio e capiamo noi stessi.

Solo se siamo convinti che il giudizio di Dio su di noi è meritato capiamo fino in fondo la portata della sua grazia. E solo se crediamo fermamente nella grazia di Dio possiamo accettare e sopportare il suo giudizio.

Se consideriamo solo il Dio che giudica allora torniamo alla situazione in cui si trovava Lutero prima della sua grande scoperta della grazia. Torniamo al Dio che incute timore, da cui si è tentati di fuggire, un Dio che non ci ama, ma ci giudica e ci punisce.

Se al contrario consideriamo solo il Dio della grazia cadiamo nel grave errore che Bonhoeffer chiamava la “grazia a buon mercato”, grazia che non mette in crisi, che non chiama al discepolato, che in fondo è grazia senza Cristo. Se consideriamo solo il Dio della grazia finiamo per pensare come quel poeta che ha detto che Dio perdona perché questo è il suo mestiere.

Invece no: il Dio di Michea, il Dio di Gesù è un Dio che non perdona per mestiere, è un Dio che ci giudica e ci ama, che giudicandoci è addolorato e adirato, ma non lascia che questo dolore e questa ira prevalgano sull’amore. La sua ultima parola è la grazia, ma l’ultima parola viene solo dopo la penultima, dopo il suo giudizio e la sua ira.

E allora dove stiamo noi? Potremmo chiederci: ma per noi vale l’ultima o la penultima parola di Dio? Ma c’è un errore in questa domanda e l’errore è in quell’ “o”, l’errore è nel pensare di dover scegliere tra l’ultima e la penultima, tra il Dio del giudizio e il Dio della grazia, l’errore è nel pensare di ridurre Dio o a solo giudizio o a solo grazia.

La ragione per cui la fede non può essere considerata una cosa scontata o un’abitudine, non può essere ridotta a ritualità, ma è fiducia ed è vita e vuole coinvolgere tutto me stesso sta nel fatto che dobbiamo fare nostre tutte e due queste parole: la penultima e l’ultima, il giudizio e la grazia.

Siamo chiamati a prendere sul serio il suo giudizio e accogliere con gioia la sua grazia, sapendo che questa è l’ultima parola, che è l’ultima parola che Dio pronuncia anche quando noi non abbiamo più nulla da dire.

Anzi proprio quando noi non abbiamo più nulla da dire - perché vediamo che il suo giudizio è vero, perché vediamo che la sua giustizia e la sua volontà da noi non sono fatte, perché vediamo che l’amore che ci chiede non riusciamo a viverlo – proprio allora, quando noi non abbiamo più nulla da dire, parla lui e ci dice le parole che ci arrivano oggi dal profeta Michea:

le nostre colpe, tutte vere, Dio le mette sotto i piedi, i nostri peccati, verissimi, che fanno male, Dio li getta in fondo al mare, perché si compiace della sua misericordia, ovvero perché lo vuole, perché vuole così, perché sceglie la misericordia e non l’ira, perché non lascia che il giudizio sia l’ultima parola ma solo la penultima, mentre l’ultima è la grazia.

Quindi si spiega la domanda retorica iniziale: «Quale Dio è come te?» quale Dio può trasformare la sua ira in misericordia? O meglio quale Dio lascia che il suo amore prevalga sulla giusta ira davanti all’infedeltà del suo popolo e dei suoi fedeli? La domanda è retorica nel senso che la risposta è scontata: non c’è nessun Dio come te!

Ma la domanda non vuole fare un paragone o aprire una competizione tra il Dio di Israele e altri dei, ma è piuttosto un esclamazione per dire che il Dio di Israele (e padre di Gesù) è unico e non ce ne sono altri come lui, per cui la misericordia prevalga sull’ira, l’amore sulla rabbia.

Un’esclamazione di stupore e di gioia, perché il Dio di Michea e di Gesù Cristo è così, è un Dio la cui ultima parola è la grazia.

Lo Spirito ci aiuti a non ignorare il giudizio di Dio, ma a prenderlo sul serio, e a non dare per scontata la sua grazia, ma a continuare a stupirci e a gioire per la sua immensa misericordia, che Egli ha voluto donare anche a noi, perché vivessimo guardando a lui e guardando con fiducia al nostro futuro con lui.

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