Numeri
6,22-27
22
Il SIGNORE disse ancora a Mosè: 23
«Parla ad Aaronne e ai suoi figli e di’ loro: “Voi benedirete
così i figli d’Israele; direte loro:
24 ‘Il SIGNORE ti benedica e ti protegga! 25 Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! 26 Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!’”.
27 Così metteranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò».
24 ‘Il SIGNORE ti benedica e ti protegga! 25 Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! 26 Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!’”.
27 Così metteranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò».
L’ultima
parola che pronunciamo nel nostro culto è una parola di benedizione,
e questa parola di benedizione è parola di Dio; dunque l’ultima
parola che Dio ci dice nel culto è una parola di benedizione.
Che
cos’è la benedizione? (Su questo tema si può leggere il bel libro
del teologo Claus
Westermann, La benedizione nella Bibbia e nell’azione
della chiesa, Queriniana 1997).
La
benedizione è diversa dalla salvezza, sono due modi diversi di agire
di Dio: la salvezza è un intervento di Dio nella storia come può
esserlo stato la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù
di Egitto. Per noi cristiani evento di salvezza è stato la venuta
nel mondo di Gesù (l’incarnazione), lo sono i suoi miracoli e le
sue guarigioni, lo è senz’altro la sua resurrezione. Gli eventi di
salvezza sono azioni puntuali di Dio, e in genere cambiano il corso
della storia, a volte generale, a volte individuale.
La
benedizione è invece la presenza costante di Dio nella vita
quotidiana, presenza invisibile e sommessa. Per questo la benedizione
è spesso associata a questioni molto pratiche e concrete, per
esempio quelle legate al cibo, come la semina e il raccolto. La
benedizione è dunque la presenza di Dio nella nostra quotidianità,
il fatto che egli ci accompagna e sostiene - appunto - con la sua
benedizione, ovvero con la sua presenza amorevole. La richiesta di
benedizione non è una formula magica da invocare perché porti
fortuna, ma è la richiesta dell’accompagnamento di Dio e della sua
presenza invisibile nelle piccole e grandi cose della nostra
esistenza. Molto bella l’immagine del “nome” di Dio messo sul
suo popolo che troviamo nel v. 27, nome che è “messo” lì e non
abbandona il popolo di Israele e non abbandona noi.
Tre
pensieri su queste bellissime parole:
1.
La benedizione che abbiamo letto, e che è diventata una formula
liturgica che chiude spesso il nostro culto (accanto a quell’altra
benedizione che prendiamo della conclusione della seconda lettera ai
Corinzi), fa parte di un insegnamento che Dio dona al suo
popolo. Dio insegna al suo popolo a chiedere a lui la sua
benedizione. A pensarci bene potrebbe sembrare un po’ strano: se
Dio vuole benedire il suo popolo perché semplicemente non lo fa,
anziché insegnargli a chiedere la sua benedizione?
Forse
perché Dio, che certo vuole benedire il suo popolo e tutti noi con
la sua presenza amorevole e attenta, vuole anche che glielo chiediamo
e, chiedendoglielo, mostriamo così di avere capito di averne
bisogno. Proprio come Gesù ha dato ai suoi discepoli e a tutti noi
le parole per pregare nella preghiera del Padre Nostro che abbiamo
commentato alcune domeniche fa, così Dio ci insegna a chiedergli la
sua benedizione.
È
giusto che noi chiediamo a Dio la sua benedizione perché
innanzitutto, come ho già detto, questo è il modo per esprimere di
averne bisogno, di avere bisogno della sua presenza e della sua
protezione. E in secondo luogo per non dare per scontato che Dio sia
con noi e ci benedica. Esattamente come dicevamo per le richieste del
Padre Nostro, la benedizione che chiediamo a Dio non è un nostro
diritto ma una nostra necessità e sopratutto un suo dono.
E
la relazione con Dio non è quella che si ha con un distributore
automatico di eventi di salvezza o di benedizione, ma è appunto una
relazione, creata dalla Parola che egli ci rivolge e che noi
ascoltiamo, parola che ci vuole trasformare e donare speranza, a cui
risponde la nostra parola che è essenzialmente preghiera di
lode e di richiesta, in cui cioè esprimiamo la nostra gratitudine e
le nostre necessità. Una delle principali necessità che abbiamo è
proprio la sua benedizione, ovvero la sua presenza nella nostra vita.
2.
Che cosa si chiede a Dio in questa richiesta di benedizione che Lui
stesso ci insegna a fare? Si chiede la protezione
di Dio: «Il Signore ti
benedica e ti protegga!». Si
chiede la benevolenza
di Dio: «Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti
sia propizio». E si chiede la pace
di Dio: «Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia
la pace».
Si
chiede la protezione di Dio perché siamo esposti al male; al male
che possiamo subire dagli altri o dagli eventi accidentali; al
male che causa dolore e
tristezza; siamo esposti anche al male che noi stessi facciamo. Da
tutto questo – e molto altro, l’elenco sarebbe lunghissimo… -
abbiamo bisogno di essere protetti. Noi vorremmo che essere protetti
significasse che tutte queste cose potessero esserci evitate, ma sia
la Bibbia, sia la storia (forse anche
la nostra
storia personale) ci insegna che a volte essere protetti dal male non
vuol dire che il male ci viene
risparmiato, ma significa saperlo
affrontare, superare, a volte persino
accettare, e soprattutto
non perdere
la fiducia che Dio è più grande del male che possiamo vivere.
Chiedere
a Dio di essere protetti da lui significa riconoscere
la nostra debolezza e la nostra fragilità
e chiedergli di sapere “attraversare”
il male, come il salmista del Salmo 23 cammina
attraverso
la valle dell’ombra della morte e non ha paura «perché
tu sei con me» (Salmo
23,4). Quel «perché
tu sei con me», quel sapere che Dio attraversa la valle
buia con lui, è già la benedizione del salmista che ha scritto quel
bellissimo salmo.
Si
chiede poi la
benevolenza di Dio, che
Dio sia «propizio». È molto bello che sia
questa sia la richiesta successiva menzionino
il volto di Dio. Questo
“antropomorfismo”, cioè questo parlare di Dio come se avesse
le fattezze di un essere
umano, con volto, mani e braccia, potrà sembrare a molti arcaico e
ingenuo. Fermo restando che si tratta di una metafora, di una
immagine e non
di una descrizione di Dio, a me pare invece un modo chiaro e molto
efficace di esprimere la relazione con Dio, che ci guarda voltando il
suo volto
verso di noi, o ci
tiene per mano o libera il suo popolo con braccio potente. Di Dio non
si può che parlare per immagini
e questa immagine
così umana di Dio non può far altro che rendercelo ancora più
vicino. La richiesta
è qui che Dio “faccia risplendere
il suo volto sopra di noi”, che la luce che emana dal suo volto –
luce di grazia,
di amore, di salvezza, luce che irrompe nel buio e lo scaccia –
giunga fino a noi e illumini
la nostra
esistenza e il
nostro cammino. La sua
benevolenza, il suo essere propizio, sono la luce del perdono e del
suo amore gratuito che illumina la nostra vita.
Si
chiede poi la pace di Dio, il suo Shalom. Anche qui si chiede
a Dio di rivolgere il suo volto verso di noi, di guardarci e di
donarci la sua pace, che non è soltanto assenza di conflitto ma è
molto di più. Lo Shalom comprende la pace nel senso di assenza di
conflitto, ma anche la serenità, l’avere tutto ciò di cui si ha
bisogno, sia dal punto di vista materiale, sia morale. Lo Shalom
non è ricchezza (l’AT sa bene che molto spesso le ricchezze degli
uni sono la causa della povertà degli altri), ma è assenza di
povertà. Chi vive nella miseria non gode dello Shalom di Dio.
E del resto proprio l’Antico Testamento lega spesso la pace alla
giustizia, che nella bellissima espressione del salmo 85 “si
baciano” (Salmo 85,10). Invocare la benedizione di Dio vuol dunque
dire anche chiedergli la sua pace e la sua giustizia.
3.
Un
ultimo
pensiero: la benedizione
che Dio insegna al
suo popolo a chiedere va
pronunciata dai sacerdoti. Dio prima
dice «voi benedirete così i figli d’Israele...»
e poi dice «io
li benedirò».
È chiaro
che è Dio che benedice, è lui il soggetto dell’azione di
benedizione.
Ma la benedizione
va pronunciata. Nella nostra liturgia cerchiamo di essere meno
clericali possibile sostituendo il “ti” che c’è nel testo con
un “ci” che comprende anche chi la pronuncia e non lo differenzia
dagli altri (anche se personalmente non mi spiacerebbe che la
benedizione finale del culto fosse pronunciata da tutta l’assemblea
mantenendo il “ti” che comprende tutti ma che al tempo stesso è
personale, proprio come l’amore di Dio è rivolto a tutti e a
ciascuno/a).
L’idea
di sacerdozio come mediazione tra Dio e l’ essere umano è stata
abolita dalla venuta di Gesù, ma abbiamo bisogno che qualcuno –
una sorella o un fratello o tanti fratelli e sorelle insieme –
pronunci per noi e su di noi (vorrei dire per te e su di te) la
benedizione di Dio, ovvero la richiesta che Dio ti benedica. E al di
là della liturgia e del culto, è un bellissimo dono non solo il
fatto che Dio ci insegni a chiedere la sua benedizione – che Egli
ci vuole dare - ma anche il fatto che ci insegni a
pronunciarla per e sulla sorella e sul fratello che condivide il
nostro cammino di fede.
L’ultima
parola che Dio ci dice nel culto è una parola di benedizione.
L’ultima (ma anche la prima…) parola che Dio ci dice nella nostra
vita, nella nostra giornata e in ogni momento che viviamo è una
parola di benedizione. E che noi possiamo dare la nostra voce alla
benedizione di Dio per il nostro prossimo è davvero un dono
straordinario.
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