sabato 6 giugno 2020

Predicazione di domenica 7 giugno 2020 su Numeri 6,22-27 a cura di Marco Gisola

Numeri 6,22-27
22 Il SIGNORE disse ancora a Mosè: 23 «Parla ad Aaronne e ai suoi figli e di’ loro: “Voi benedirete così i figli d’Israele; direte loro:
24 ‘Il SIGNORE ti benedica e ti protegga! 25 Il SIGNORE faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! 26 Il SIGNORE rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!’”.
27 Così metteranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò».


L’ultima parola che pronunciamo nel nostro culto è una parola di benedizione, e questa parola di benedizione è parola di Dio; dunque l’ultima parola che Dio ci dice nel culto è una parola di benedizione.
Che cos’è la benedizione? (Su questo tema si può leggere il bel libro del teologo Claus Westermann, La benedizione nella Bibbia e nell’azione della chiesa, Queriniana 1997).
La benedizione è diversa dalla salvezza, sono due modi diversi di agire di Dio: la salvezza è un intervento di Dio nella storia come può esserlo stato la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù di Egitto. Per noi cristiani evento di salvezza è stato la venuta nel mondo di Gesù (l’incarnazione), lo sono i suoi miracoli e le sue guarigioni, lo è senz’altro la sua resurrezione. Gli eventi di salvezza sono azioni puntuali di Dio, e in genere cambiano il corso della storia, a volte generale, a volte individuale.
La benedizione è invece la presenza costante di Dio nella vita quotidiana, presenza invisibile e sommessa. Per questo la benedizione è spesso associata a questioni molto pratiche e concrete, per esempio quelle legate al cibo, come la semina e il raccolto. La benedizione è dunque la presenza di Dio nella nostra quotidianità, il fatto che egli ci accompagna e sostiene - appunto - con la sua benedizione, ovvero con la sua presenza amorevole. La richiesta di benedizione non è una formula magica da invocare perché porti fortuna, ma è la richiesta dell’accompagnamento di Dio e della sua presenza invisibile nelle piccole e grandi cose della nostra esistenza. Molto bella l’immagine del “nome” di Dio messo sul suo popolo che troviamo nel v. 27, nome che è “messo” lì e non abbandona il popolo di Israele e non abbandona noi.
Tre pensieri su queste bellissime parole:

1. La benedizione che abbiamo letto, e che è diventata una formula liturgica che chiude spesso il nostro culto (accanto a quell’altra benedizione che prendiamo della conclusione della seconda lettera ai Corinzi), fa parte di un insegnamento che Dio dona al suo popolo. Dio insegna al suo popolo a chiedere a lui la sua benedizione. A pensarci bene potrebbe sembrare un po’ strano: se Dio vuole benedire il suo popolo perché semplicemente non lo fa, anziché insegnargli a chiedere la sua benedizione?
Forse perché Dio, che certo vuole benedire il suo popolo e tutti noi con la sua presenza amorevole e attenta, vuole anche che glielo chiediamo e, chiedendoglielo, mostriamo così di avere capito di averne bisogno. Proprio come Gesù ha dato ai suoi discepoli e a tutti noi le parole per pregare nella preghiera del Padre Nostro che abbiamo commentato alcune domeniche fa, così Dio ci insegna a chiedergli la sua benedizione.
È giusto che noi chiediamo a Dio la sua benedizione perché innanzitutto, come ho già detto, questo è il modo per esprimere di averne bisogno, di avere bisogno della sua presenza e della sua protezione. E in secondo luogo per non dare per scontato che Dio sia con noi e ci benedica. Esattamente come dicevamo per le richieste del Padre Nostro, la benedizione che chiediamo a Dio non è un nostro diritto ma una nostra necessità e sopratutto un suo dono.
E la relazione con Dio non è quella che si ha con un distributore automatico di eventi di salvezza o di benedizione, ma è appunto una relazione, creata dalla Parola che egli ci rivolge e che noi ascoltiamo, parola che ci vuole trasformare e donare speranza, a cui risponde la nostra parola che è essenzialmente preghiera di lode e di richiesta, in cui cioè esprimiamo la nostra gratitudine e le nostre necessità. Una delle principali necessità che abbiamo è proprio la sua benedizione, ovvero la sua presenza nella nostra vita.


2. Che cosa si chiede a Dio in questa richiesta di benedizione che Lui stesso ci insegna a fare? Si chiede la protezione di Dio: «Il Signore ti benedica e ti protegga!». Si chiede la benevolenza di Dio: «Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio». E si chiede la pace di Dio: «Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace».
Si chiede la protezione di Dio perché siamo esposti al male; al male che possiamo subire dagli altri o dagli eventi accidentali; al male che causa dolore e tristezza; siamo esposti anche al male che noi stessi facciamo. Da tutto questo – e molto altro, l’elenco sarebbe lunghissimo… - abbiamo bisogno di essere protetti. Noi vorremmo che essere protetti significasse che tutte queste cose potessero esserci evitate, ma sia la Bibbia, sia la storia (forse anche la nostra storia personale) ci insegna che a volte essere protetti dal male non vuol dire che il male ci viene risparmiato, ma significa saperlo affrontare, superare, a volte persino accettare, e soprattutto non perdere la fiducia che Dio è più grande del male che possiamo vivere.
Chiedere a Dio di essere protetti da lui significa riconoscere la nostra debolezza e la nostra fragilità e chiedergli di sapere “attraversare” il male, come il salmista del Salmo 23 cammina attraverso la valle dell’ombra della morte e non ha paura «perché tu sei con me» (Salmo 23,4). Quel «perché tu sei con me», quel sapere che Dio attraversa la valle buia con lui, è già la benedizione del salmista che ha scritto quel bellissimo salmo.
Si chiede poi la benevolenza di Dio, che Dio sia «propizio». È molto bello che sia questa sia la richiesta successiva menzionino il volto di Dio. Questo “antropomorfismo”, cioè questo parlare di Dio come se avesse le fattezze di un essere umano, con volto, mani e braccia, potrà sembrare a molti arcaico e ingenuo. Fermo restando che si tratta di una metafora, di una immagine e non di una descrizione di Dio, a me pare invece un modo chiaro e molto efficace di esprimere la relazione con Dio, che ci guarda voltando il suo volto verso di noi, o ci tiene per mano o libera il suo popolo con braccio potente. Di Dio non si può che parlare per immagini e questa immagine così umana di Dio non può far altro che rendercelo ancora più vicino. La richiesta è qui che Dio “faccia risplendere il suo volto sopra di noi”, che la luce che emana dal suo volto – luce di grazia, di amore, di salvezza, luce che irrompe nel buio e lo scaccia – giunga fino a noi e illumini la nostra esistenza e il nostro cammino. La sua benevolenza, il suo essere propizio, sono la luce del perdono e del suo amore gratuito che illumina la nostra vita.
Si chiede poi la pace di Dio, il suo Shalom. Anche qui si chiede a Dio di rivolgere il suo volto verso di noi, di guardarci e di donarci la sua pace, che non è soltanto assenza di conflitto ma è molto di più. Lo Shalom comprende la pace nel senso di assenza di conflitto, ma anche la serenità, l’avere tutto ciò di cui si ha bisogno, sia dal punto di vista materiale, sia morale. Lo Shalom non è ricchezza (l’AT sa bene che molto spesso le ricchezze degli uni sono la causa della povertà degli altri), ma è assenza di povertà. Chi vive nella miseria non gode dello Shalom di Dio. E del resto proprio l’Antico Testamento lega spesso la pace alla giustizia, che nella bellissima espressione del salmo 85 “si baciano” (Salmo 85,10). Invocare la benedizione di Dio vuol dunque dire anche chiedergli la sua pace e la sua giustizia.


3. Un ultimo pensiero: la benedizione che Dio insegna al suo popolo a chiedere va pronunciata dai sacerdoti. Dio prima dice «voi benedirete così i figli d’Israele...» e poi dice «io li benedirò». È chiaro che è Dio che benedice, è lui il soggetto dell’azione di benedizione. Ma la benedizione va pronunciata. Nella nostra liturgia cerchiamo di essere meno clericali possibile sostituendo il “ti” che c’è nel testo con un “ci” che comprende anche chi la pronuncia e non lo differenzia dagli altri (anche se personalmente non mi spiacerebbe che la benedizione finale del culto fosse pronunciata da tutta l’assemblea mantenendo il “ti” che comprende tutti ma che al tempo stesso è personale, proprio come l’amore di Dio è rivolto a tutti e a ciascuno/a).
L’idea di sacerdozio come mediazione tra Dio e l’ essere umano è stata abolita dalla venuta di Gesù, ma abbiamo bisogno che qualcuno – una sorella o un fratello o tanti fratelli e sorelle insieme – pronunci per noi e su di noi (vorrei dire per te e su di te) la benedizione di Dio, ovvero la richiesta che Dio ti benedica. E al di là della liturgia e del culto, è un bellissimo dono non solo il fatto che Dio ci insegni a chiedere la sua benedizione – che Egli ci vuole dare - ma anche il fatto che ci insegni a pronunciarla per e sulla sorella e sul fratello che condivide il nostro cammino di fede.
L’ultima parola che Dio ci dice nel culto è una parola di benedizione. L’ultima (ma anche la prima…) parola che Dio ci dice nella nostra vita, nella nostra giornata e in ogni momento che viviamo è una parola di benedizione. E che noi possiamo dare la nostra voce alla benedizione di Dio per il nostro prossimo è davvero un dono straordinario.

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