lunedì 28 settembre 2020

Predicazione di domenica 27 settembre 2020 su 2 Timoteo 1,7-10 a cura di Marco Gisola

2 Timoteo 1,7-10

7 Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo. 8 Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio. 9 Egli ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, non a motivo delle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la grazia che ci è stata fatta in Cristo Gesù fin dall'eternità, 10 ma che è stata ora manifestata con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo



Non vergognarti di testimoniare Gesù Cristo e soffri per l’evangelo! Queste le parole che l’apostolo Paolo rivolge a Timoteo, suo allievo e collaboratore. Deve essere un momento difficile per Timoteo e per le comunità cristiane di questo periodo, le ostilità, se non vere e proprie persecuzioni, sono quotidiane.

La tentazione di chiudersi in se stessi per evitare difficoltà e sofferenze è molto umana e anche comprensibile. Ma – dice Paolo – Dio ci ha rivolto una santa chiamata, la chiamata a vivere e ad annunciare il suo evangelo, la buona notizia della grazia di Dio, che in Gesù Cristo ha distrutto la morte. Questa fede è quindi più forte delle sofferenze e della paura di soffrire. Anche Timoteo ha evidentemente paura di soffrire, che è una cosa molto umana. E quindi Paolo lo incoraggia, facendo appello alla vocazione che gli è stata rivolta e alla vittoria di Gesù sulla morte.

Qui siamo alla seconda generazione cristiana, ma è una situazione in cui si trovano più o meno tutte le generazioni cristiane: il dover scegliere se vivere la loro fede in modo privato o pubblico, se la fede vada vissuta – per così dire - in salotto o in piazza, se il cristianesimo sia una casa confortevole dove ci si trova tra amici o una frontiera dove si incontrano le altre persone, che magari sono diverse da noi. In altre parole: se stare soltanto dentro, oppure anche fuori. Abbiamo certo bisogno di un “dentro”, di una casa in cui trovarci per leggere insieme la Bibbia, pregare e discutere. Abbiamo bisogno di sostegno reciproco e di consolazione. Abbiamo bisogno di rinforzare la nostra fede e la speranza e l’amore che ne nascono. Ma non si può stare sempre dentro: «Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore». C’è una santa chiamata a cui bisogna rispondere. Non con presunzione o con arroganza, ma nemmeno con timidezza, perché lo Spirito che il Signore ci dona è di forza, d’amore e di autocontrollo.

La nostra testimonianza al Signore passa attraverso la forza, l’amore e l’autocontrollo. La forza, di cui Paolo parla a Timoteo, è la forza di resistere al male e di non soccombervi; non è la nostra forza, ma é la forza che viene dall’evangelo o dallo Spirito stesso, potremmo quasi dire che è la forza dei deboli, perché è la forza che Dio dona a chi chiama e che non ha forza. È la forza di non rinunciare, di non rassegnarsi, di non spaventarsi davanti alle difficoltà e all’arroganza altrui. È la forza di non chiudersi dentro la casa, ma di uscire nella piazza. È la forza dell’amore.

E infatti dopo la forza, Paolo menziona l’amore. La forza a cui esorta Timoteo non è forza senza amore, ma è la forza dell’amore. Quale migliore testimonianza dell’amore? Ma anche qui non è in primo luogo il nostro amore, l’amore di cui noi siamo capaci, ma l’amore che abbiamo ricevuto, di cui siamo stati amati da Dio. La nostra testimonianza al Signore non è in primo luogo “io ti amo”, ma “Dio ti ama”, la «santa chiamata» è la vocazione ad andare a dire al nostro prossimo “sei amato/a”, sei amato/a da Dio e per questo, per quel che posso e sono capace, anche da me, perché so che Dio ti ama. Ma non vengo a testimoniare me stesso, non vengo ad annunciarti il mio amore, che è debole e fragile e contraddittorio quanto il tuo, ma l’amore di Dio, che non viene meno, nemmeno quando non è ricambiato.

E poi l’autocontrollo (la Bibbia della Riforma dice: “assennatezza”). Forse non ci aspetteremmo di incontrare questa parola in una lettera apostolica. Che cosa avrà voluto dire l’apostolo con questa parola? L’apostolo invita forse a controllare le proprie emozioni? Penso piuttosto che sia un invito a non diventare orgogliosi, a non credere che – come dicevamo prima – si tratti della nostra forza e del nostro amore, ma un invito a testimoniare con sobrietà la forza del perdono e dell’amore di Dio. Non siamo noi al centro della nostra testimonianza, non testimoniamo di noi stessi, ma di Gesù Cristo. E non testimoniamo nemmeno della nostra chiesa o della nostra storia, ma – appunto - di Gesù Cristo. Per quanto amiamo la nostra storia e ci teniamo alla nostra chiesa non sono la storia e la chiesa al centro della testimonianza, ma solo Gesù Cristo come rivelazione di Dio.

Due dettagli di questo brano sono importanti: il primo è quando Paolo scrive «Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore» e aggiunge «né di me, suo carcerato». Sono importanti queste parole “suo carcerato” perché in realtà Paolo è stato incarcerato dai romani (qualcuno dice a Roma, ma non è rilevante dove). Nel secondo capitolo scrive infatti «io soffro fino ad essere incatenato come un malfattore» (2,9). E alcuni fratelli per questo lo hanno abbandonato, dice poco dopo, evidentemente qualcuno si vergogna del fatto che Paolo sia in prigione, o ha paura. Ed esorta Timoteo a non fare come loro, a non vergognarsi e non spaventarsi.

Quella frase “suo carcerato” riferita a Gesù, vuol quindi dire che Paolo, pur essendo materialmente incatenato dai romani, spiritualmente è carcerato di Gesù, è incatenato soltanto a lui e a nessun’altra catena. E chi è incatenato, legato a Gesù è libero. Le catene di Paolo non possono imprigionare la sua fede e non possono togliergli la sua vera libertà. Perché questa libertà gli è stata guadagnata dal salvatore Gesù Cristo, che ha vinto la morte.

L’altro dettaglio importante è il fatto che Paolo chiama Gesù “salvatore”, termine che per noi è scontato, usiamo questa parola per parlare di Gesù da quasi duemila anni. Ma ai suoi tempi non era consueto: “salvatore” per gli ebrei era Dio, che li aveva liberarti dall’Egitto e salvati infinite volte. E per i romani, che lo tenevano prigioniero il salvatore era Cesare, era l’imperatore. Questa frase “salvatore Gesù Cristo” inserita qui, dice quindi molto: le catene di Paolo gli sono state messe nel nome del salvatore Cesare, ma in realtà lui – benché sia in catene - è libero grazie al suo salvatore Gesù Cristo. Timoteo non deve vergognarsi di testimoniare questa libertà, libertà donata da Dio in Cristo, libertà grazie alla quale è libero anche chi è in catene per Cristo come Paolo.

Questa parola di Dio, questo invito, questa esortazione è rivolta oggi a noi: non vergogniamoci di testimoniare. Di testimoniare la libertà che Cristo ci dona, di testimoniare che è lui il salvatore e che non vogliamo affidaci ad altri sedicenti salvatori. Testimoniamo, non con presunzione, non con arroganza, non come quelli che hanno capito tutto, perché così facendo saremmo testimoni di noi stessi e non di Cristo e del suo evangelo. Testimoniamo invece con forza, perché la testimonianza dell’evangelo può causare ostilità e sofferenza, con amore, ovvero nel rispetto degli altri, e con autocontrollo per non cadere appunto nella presunzione.

Un’ultima cosa: abbiamo detto fin dall'inizio che Paolo incoraggia Timoteo a fare queste cose. Ciò vuol dire che Timoteo ha bisogno di essere incoraggiato. Non c’è nulla di male ad aver bisogno di essere incoraggiati. Persino uno stretto collaboratore di Paolo come Timoteo ne ha bisogno.

E anche noi abbiamo bisogno di essere incoraggiati, spinti, di essere aiutati a vincere le nostre ritrosie, le nostre paure, la nostra timidezza. Questo vuole fare oggi la Parola di Dio con noi: ci incoraggia ad affidarci a Gesù, nostro salvatore, che per noi ha vinto la morte e ci chiede di vivere per lui e con lui.

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