domenica 21 marzo 2021

Predicazione di Domenica 21 marzo 2021 su Giobbe 19,19-27 a cura di Marco Gisola

Giobbe 19,19-27

Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore, quelli che amavo si sono rivoltati contro di me. 

Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne, non m’è rimasta che la pelle dei denti.

Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.

 Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?

«Oh, se le mie parole fossero scritte! Se fossero impresse in un libro!

Se con lo scalpello di ferro e con il piombo fossero incise nella roccia per sempre!

Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.

E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.

Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma!


Non so se c’è un altro testo biblico in cui incontriamo fianco a fianco, nello stesso brano, tanta disperazione e allo stesso tempo una confessione di fede così bella. Accade qui nel libro di Giobbe, in uno dei capitoli più densi di questo libro.

Immagino che tutti voi conosciate la storia di Giobbe: Giobbe è un uomo giusto ed è un credente, ed è anche un uomo molto felice e molto ricco: ha una grande famiglia, ha beni, greggi, terreni, servi e serve.  I primi due capitoli del libro ci spiegano che cosa è successo a Giobbe. Ci viene raccontato un dialogo tra Dio e Satana; Satana convince Dio a mettere Giobbe alla prova: è facile – dice Satana - essere retti e religiosi quando va tutto bene e non ci manca nulla! Satana vuole vedere come reagirebbe Giobbe nel caso gli andasse invece tutto male e se anche nel dolore e nella solitudine la sua fede resisterebbe. Dio acconsente a questa sfida sulla pelle di Giobbe e Giobbe, passo dopo passo perde tutto: beni, greggi, terreni, anche i suoi amati figli muoiono… poi perde anche la salute, si copre di ulcere e inizia a soffrire terribilmente. 

Vengono a consolarlo degli amici, che a un certo momento, iniziano a dirgli che se sta soffrendo così tanto una ragione dovrà pur esserci, che la sua sofferenza è senz’altro una punizione che viene da Dio e se Dio lo punisce, ciò significa che lui deve aver commesso qualcosa di molto grave. Il discorso degli amici di Giobbe è tanto semplice quanto antico: la sofferenza è punizione divina, e se Dio sta punendo Giobbe in questo modo, lui è senza dubbio colpevole di qualcosa. È la stessa teoria che sostengono i discepoli di Gesù quando incontrano l’uomo cieco fin dalla nascita e chiedono se sia lui ad aver commesso peccato oppure i suoi genitori (Giovanni 9). Anche loro pensano che se c’è sofferenza, essa è sicuramente una punizione di Dio e quindi alla base c’è sicuramente una colpa. È la stessa teoria che è sopravvissuta nei secoli e sopravvive ancora oggi e che è tornata a farsi sentire anche durante questa pandemia, che per qualcuno era anch’essa una punizione divina. Il libro di Giobbe è una vigorosa protesta contro questa teoria. Giobbe non accetta il discorso dei suoi amici: egli soffre, soffre terribilmente ma è innocente! Non c’è alcuna ragione per la sua sofferenza, non c’è alcuna colpa. Ovviamente il libro di Giobbe è una creazione letteraria, non è un fatto accaduto, è un racconto paradossale, come è paradossale che Dio si faccia convincere da Satana – cioè dal male in persona- a fare soffrire così tanto una persona. Il racconto ha lo scopo di presentare la protesta contro un’immagine di Dio molto diffusa allora e anche ancora un po’ oggi.

Nel nostro brano di oggi Giobbe accusa apertamente Dio: «sappiatelo: chi m’ha fatto torto e m’ha avvolto nella sua rete è Dio» (v. 6), «Mi ha demolito pezzo per pezzo […] mi ha considerato come suo nemico» (vv. 10-11). Giobbe chiede allora ai suoi amici di avere pietà di lui: “Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito. Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?” (vv. 21-22). Già mi sta perseguitando Dio – dice ai suoi amici - non fatelo anche voi con i vostri discorsi con cui volete convincermi che la colpa di ciò che mi sta accadendo è mia!

Giobbe nel suo libro non solo discute con Dio, ma protesta, e rivolge a Dio una vera e propria accusa. E lo straordinario è che Giobbe fa tutto ciò non solo con fede, ma per fede, perché crede. Giobbe non diventa ateo, la sua è la protesta di un credente. Giobbe protesta perché crede. Protesta e fede non solo convivono, ma la protesta fa parte della fede, potremmo dire che la protesta nasce dalla fede, e questi versetti ne sono un esempio. Dio, che in genere consideriamo il giudice della nostra esistenza, è qui messo - lui! - sul banco degli imputati. Il giudice diventa l’accusato! Ma allo stesso tempo Giobbe invoca Dio; qualcuno ha detto che qui Giobbe fa appello a Dio contro Dio, al Dio redentore contro il Dio persecutore.

Giobbe chiama in soccorso Dio redentore: «io so che il mio redentore vive». Il termine redentore, parola che noi usiamo anche per parlare di Gesù, viene dall’Antico Testamento, è un diritto/dovere prescritto dalla Torah. 


Il redentore è colui che riscatta un parente, per esempio pagando i debiti di chi non può pagarli e ha dovuto vendere la sua terra o addirittura vendere se stesso come schiavo di qualcun altro per sopravvivere. Giobbe invoca l’aiuto di Dio e lo chiama a riscattarlo,  confessa la sua fede nel Dio redentore, nel Dio che riscatta.

In uno dei momenti più bassi e dolorosi della sua vicenda, quando si sente non solo perseguitato da Dio ma anche abbandonato dagli amici, Giobbe invoca il suo redentore, proclama la sua fede in lui: «Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere». La sua protesta nasce dalla fede, abbiamo detto, perché la sua fede è nel Dio redentore, anzi nel suo Dio redentore, è una confessione di fede molto personale: il mio redentore, colui che mi libererà, in colui che libererà proprio me, in lui io ripongo la mia fede.

Sapete come finisce il libro di Giobbe: Dio alla fine parlerà con Giobbe, non risponderà alle sue domande, ma anzi gliene farà lui molte, di domande, chiedendo a Giobbe dove fosse lui quando egli creava la terra, ecc. Insomma, lo rimette al suo posto di piccola creatura. Ma dirà anche che lui, Giobbe, ha parlato bene di lui e non i suoi amici, ai quali dirà «voi non avete parlato di me secondo verità come ha fatto il mio servo Giobbe» (42,7.8). Dio non si mette sullo stesso piano di Giobbe, non risponde alle accuse, ma su questo gli da ragione (e lo benedice di nuovo, con beni, animali e figli e figlie). Giobbe ha capito Dio meglio dei suoi amici, ha ragione a respingere l’idea che la sofferenza è punizione di Dio e a parlare invece di Dio come redentore. Dio non è colui che punisce mandando disgrazie e malattie. Dio è, sì, il giudice ma è anche il redentore. Il giudice si rivela come il redentore. E così si è rivelato a noi Dio, in Cristo, andando ancora oltre, perché in Cristo Dio si è lasciato giudicare e condannare dagli esseri umani che non lo hanno riconosciuto. E tutto ciò proprio per rivelarsi pienamente come redentore.

E proprio su questa bellissima quanto sintetica confessione di fede di Giobbe, che è il culmine del racconto – «ma io so che il mio redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere» - vorrei fermarmi un attimo per concludere, sottolineando tre parole di questa frase, che potrebbero sembrare secondarie:

La prima è “ma”: ma io so che il mio redentore vive… Giobbe è a terra, è prostrato, è colpito da Dio che ne ha fatto il suo nemico, è abbandonato dagli amici che volendo fare gli avvocati di Dio sanno solo dirgli che deve riconoscere la sua colpa e gli sanno solo presentare un Dio che punisce, ma…  Ma tutto ciò non ha distrutto la sua fede nel redentore. Ha distrutto la sua famiglia, i suoi beni, il suo corpo, ma non la sua fede. A tutta questa distruzione e a tutta questa disperazione Giobbe oppone il suo “ma”, la sua confessione di fede nel redentore. Abbiamo qui una bellissima immagine di che cosa sia la speranza: è quel “ma” che Giobbe sa opporre a tutte le disgrazie che gli stanno capitando, che lo hanno ridotto in quello stato. È morto tutto intorno a lui, ma non è morta la speranza, che gli dà la forza di pronunciare il suo “ma”.

La seconda parola è “alla fine”. Il significato di questa parola ebraica non è così chiaro, ma indica comunque qualcosa che viene dopo. Molti cristiani lo hanno letto come un accenno alla “fine dei tempi”, cioè alla venuta del regno, ma è una interpretazione molto insicura. Sta di fatto che la speranza di Giobbe, di cui parlavamo un attimo fa, riguarda un “dopo”, un futuro e non il presente. E questa è allo stesso tempo la debolezza e la forza della nostra fede: noi – con Giobbe e come Giobbe - speriamo in qualcosa che sta davanti a noi, in un “alla fine”. Questa è da un lato la debolezza della nostra fede, soprattutto nei momenti bui della nostra esistenza, che è fede in un dopo, in ciò che deve ancora accadere, mentre noi viviamo nel presente, mentre Giobbe vive nel presente dei suoi lutti, della sua miseria e del suo dolore e la redenzione che invoca è futura quando vorrebbe che fosse ora, che fosse presente. Spesso vorremmo che quel “dopo” fosse “ora”. D’altra parte però questa è anche la forza della nostra fede perché ci dice che il futuro non deve essere per forza uguale al presente, e questa è la speranza. Giobbe è schiacciato da tutti i mali che gli sono caduti addosso, ma la sua speranza è che questi mali gli saranno tolti, che sarà liberato da Dio. 

E infine l’ultima parola è “so”: io so che il mio redentore vive… Giobbe non sa più nulla, non capisce più nulla di ciò che gli sta accadendo, e non vuole credere a quello che gli raccontano i suoi amici; non ha più certezze, se non una: lui sa che il suo redentore vive, sa che si alzerà sulla polvere, cioè che agirà e lo toglierà dalla polvere in cui è caduto, che si mostrerà come redentore, liberatore. È perché sa questo che osa protestare ed è perché sa questo che osa sperare: sa che Dio è il suo redentore. 

Anche noi lo sappiamo, questa è anche la nostra fede, e ogni domenica siamo qui per impararlo di nuovo e non dimenticarlo. Sappiamo che il Dio di Giobbe è il Dio che si è rivelato per noi in Gesù Cristo, proprio come redentore. A volte discuteremo anche noi con Dio, a volte anche noi non capiremo Dio e protesteremo. Il Signore ci aiuti anche e proprio in quei momenti a continuare a confidare in lui e dire con Giobbe “Ma io so che il mio redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere”.

In Gesù Cristo il nostro redentore vive per sempre e non ci abbandona.

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