domenica 28 marzo 2021

Predicazione di Domenica 28 marzo 2021 (domenica delle Palme) su Ebrei 11-12 a cura di Gabriele Passantino

Ebrei 11,1-2.8-12.39-40; 12,1-3


11,1 Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono.2 Infatti, per essa fu resa buona testimonianza agli antichi.
[…] 8 Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. 9 Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa. 10 perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio.
11 Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. 12 Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare.
[…] 39 Tutti costoro, pur avendo avuto buona testimonianza per la loro fede, non ottennero ciò che era stato promesso. 40 Perché Dio aveva in vista per noi qualcosa di meglio, in modo che loro non giungessero alla perfezione senza di noi.
12,1 Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, 2 fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. 3 Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo




“Gente, preparatevi. C’è un treno in arrivo. Non servono bagagli, dovete soltanto salire a bordo. La fede è tutto quello che vi serve, per udire i motori che sbuffano. Non servono biglietti, basta ringraziare il Signore”

La fede è tutto quello che vi serve, così canta questo gospel (People get ready) che è diventato negli anni 60 l’inno non ufficiale del movimento dei diritti civili negli Stati Uniti. La fede è tutto quello che vi serve, sembra essere quello che ci racconta anche il predicatore dell’Epistola agli Ebrei all’inizio del testo che abbiamo letto.

Il primo versetto, provando a definire la fede, ne mette in luce le due dimensioni che poi verranno sviluppate nei versetti successivi: la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono.

Per prima cosa, la fede ci offre una garanzia, un terreno su cui possiamo contare nelle nostre vite e, se necessario, anche aggrapparci. Ma questo radicamento ci orienta verso il futuro e ci offre il coraggio di muoverci verso spazi sconosciuti, che ancora non vediamo. Radicamento, dunque, e possibilità di andare avanti.

Lo scrittore dell’epistola, tuttavia, non si limita a definire. Vuole mettere davanti ai nostri occhi la fede in carne ed ossa. Nel testo selezionato dal lezionario, abbiamo di fronte a noi i nostri antenati nella fede, Abramo e Sara. Nella loro storia, entrambe le dimensioni che abbiamo individuato nel primo versetto brillano. Il radicamento e la disponibilità al cambiamento.

Per prima cosa, la fede è il radicamento nelle promesse di Dio. Dio ha promesso a Sara e Abramo una discendenza e una terra. Ma queste sono promesse che Abramo e Sara non vedono, ma cui credono. Rispetto alle quali decidono di mettersi in gioco. Conosciamo la storia, credere alla promessa di una discendenza per una coppia avanti negli anni, non è questione di speculazione, ma unicamente di fede. Infatti, la prima volta che Sara udì di questa possibilità, lei sorrise. E probabilmente da questo fu scelto il nome di Isacco, che significa appunto sorriso. Il nome stesso del figlio voleva rimarcare la gioia che Dio dà al di là delle aspettative umane.

Abramo e Sara prestarono fede anche alla seconda promessa di Dio, una altrettanto impossibile, ovvero quella della terra. Impossibile per due nomadi come loro, che pure decisero di seguire il Signore. E quando pure arrivarono in Canaan, continuarono a vivere nelle tende, come stranieri, sempre pronti a muoversi nuovamente. Vivevano in tende perché sapevano che il viaggio era parte della loro obbedienza, e non era Canaan la loro destinazione finale, bensì, come ci dice l’Epistola, la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio.

Non raccolsero, dunque, i frutti di quella seconda promessa durante la loro vita, ma li videro all’orizzonte. Abramo e Sara sperimentarono la promessa come una chiamata, fidandosi di quanto il Signore aveva indicato e muovendosi in avanti in risposta a questa chiamata. Capirono che la fede è una forma di coraggio, che ci sposta spesso in territori sconosciuti della nostra vita, verso il futuro che Dio promette.

Noi ci rendiamo conto che è difficile mantenere entrambe le dimensioni della fede, come hanno fatto Abramo e Sara. Alcuni di noi preferiscono radicarsi. Nelle storie bibliche, nelle storie delle comunità, nelle tradizioni. Perché ci raccontano chi siamo e da dove veniamo e cosa dovremmo fare. Ma questi stessi fratelli e sorelle trovano difficile muoversi verso il futuro, magari con le tende, e se partono si portano tanti bagagli.

Altri di noi hanno facilità nel muoversi, nel piantare e smontare le tende, nel viaggiare con pochi pesi. Sono disposti a seguire il Signore nella consapevolezza che è suo il futuro. Ma queste persone hanno bisogno di aiuto nel ricordare da dove vengono, perché solo la consapevolezza e la lealtà verso una tradizione possono sostenere quando la marcia si fa dura e lunga.

Fratelli e sorelle, i credenti della chiesa delle origini non erano così tanti, ma erano idealmente circondati da una schiera di testimoni di tutte le età, come il capitolo 11 dell’epistola ci sottolinea. Questa dimensione ci viene introdotta anche dai primi versetti del capitolo 12, nei quali ci viene mostrato che la fede è una dimensione profondamente intima e personale. In un certo senso, crediamo come altri prima di noi hanno fatto. Per me, almeno, è stato così. In momenti cruciali della mia vita, ho incontrato credenti la cui vita mi è sembrata autentica. Ho toccato con mano persone come me, con domande e conflitti interiori simili ai miei. E che credevano in Dio.

Quando ero più giovane, ho partecipato a tanti discorsi accademici a favore o contro la fede. Quasi ogni argomento a favore della fede ha un suo opposto dall’altra parte del campo. Di solito queste discussioni terminano in un estenuante pareggio. Incontrare credenti in carne ed ossa è tutt’altro. L’esistenza e l’identità di una persona non possono essere rifiutati come un argomento di discussione. La loro esistenza solleva la domanda per me cruciale: se la fede in Dio ha modellato la vita di questo uomo o di questa donna e l’ha resa così autentica, non è possibile che questa stessa fede doni autenticità alla mia?”

Nella parte finale del nostro testo di stamattina, la grande schiera di testimoni nella fede che ci circonda e accompagna in ogni era è ritratta come un gruppo folto di fans sugli spalti di uno stadio, lo stadio in cui corriamo la nostra corsa, la corsa della fede. Loro, i fans, hanno terminato la loro gara, ma sono lì, pronti a sostenerci e a incoraggiarci. Sono i supporters, sono coloro che ci indicano quanto l’esempio di Gesù abbia reso piena e autentica la loro corsa e la loro esistenza.
Ogni età, dunque, ha avuto e ha ancora i suoi testimoni. Ognuno di noi è stato sospinto sulla strada della fede da un incontro, da una storia, da una testimonianza. Io vorrei parlarvi di Eric Liddel, uno scozzese vissuto nella prima metà del 1900, la cui storia è stata resa celebre dal film Momenti di Gloria, peraltro un titolo italiano che nulla ha a che vedere col titolo originale in inglese, una citazione biblica, Chariots of Fire (Carri di fuoco).

Eric Liddel nacque in Cina, da una famiglia di missionari cristiani scozzesi. Tornato in Scozia per studiare, per prepararsi alla sua scelta di vita, per diventare anche lui un missionario, durante gli studi si rivelò anche un gradissimo atleta. Grande ala di rugby prima, scoprì di essere un atleta velocissimo. Splendido centometrista, si qualificò per le Olimpiadi del 1924 a Parigi. Tuttavia, poiché le qualificazioni si svolgevano di domenica, Liddel si mantenne fedele al rispetto del giorno di riposo e si rifiutò di correre, venne escluso dalla gara e creò un grande clamore, anche fra i suoi compagni di squadra e nella sua federazione: in molti, lo considerarono un traditore, soprattutto perché tutti i pronostici concordavano nel prevedere una sua vittoria.

Un suo compagno di squadra e grande amico gli cedette il posto nella gara dei 400m, per la quale non era considerato uno specialista, in quanto Liddel era uno scattista puro. Ebbene, arrivò primo e vinse la medaglia d’oro, commentando: “Il segreto della mia vittoria nei 400 è che: nei primi 200m, ho corso più veloce che potevo. Poi, nei secondi 200, con l’aiuto di Dio, sono riuscito a correre ancora più forte”.

Dopo le olimpiadi, Liddel rinunciò a una carriera di sportivo e partì per la missione in Cina. Sposò una sua connazionale, da cui ebbe tre figlie. Nel 1941, quando la guerra tra Giappone e alleati occidentali stava per scoppiare, Liddel mandò la moglie e le figlie in Canada, un luogo lontano dal fronte, ma non partì con loro. Decise di rimanere nel posto dove Dio lo aveva chiamato. Morì nel 1943 in un campo di prigionia giapponese.

Ciò che mi ha sempre affascinato nella vita di Liddel è che sì, lui ha sacrificato molto: ha rinunciato a correre una gara che avrebbe vinto, ha rinunciato a una carriera di agiato atleta. Ha rinunciato a scegliere la strada semplice e ad abbandonare la sua missione allo scoppio della guerra. Ma le sue rinunce furono libere. Nessuno lo avrebbe incolpato o considerato un vigliacco se si fosse comportato diversamente. Agì liberamente, radicando la sua esistenza nelle convinzioni che aveva tratto dalle promesse di Dio e non esitò ad andare avanti, a seguire sentieri inesplorati e pericolosi, gli unici che la sua coscienza gli avrebbe permesso di seguire, perché erano quelli su cui Dio lo aveva chiamato. Liddel corse la sua gara tenendo sempre lo sguardo su Gesù, il suo Signore, il suo allenatore, il suo modello. Ben sapendo che la forza e la determinazione che lo spinsero così avanti nel suo percorso potevano solo venire da quell’esempio perfetto di coraggio e perseveranza che Liddel tanto amò,

Ecco, fratelli e sorelle, ognuno di noi si sente incoraggiato nella sua vita da una schiera di testimoni. Nella nostra vita, quando ci sentiamo in difficoltà, quando il ritmo si fa duro e il respiro pesante, mentre corriamo, cerchiamo di tenere sempre lo sguardo fisso su Gesù e su quanto ha fatto per noi, In quel momento, sentiremo l’incitamento ad andare avanti proveniente dai nostri supporter sugli spalti e, fra quelle voci, ne sono sicuro, anche una con riconoscibilissimo accento scozzese. Amen

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