domenica 31 ottobre 2021

Predicazione di domenica 31 ottobre 2021 (domenica della Riforma) su Galati 5,1-6 a cura di Marco Gisola

 

Galati 5,1-6

1 Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi; state dunque saldi e non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della schiavitù. 2 Ecco, io, Paolo, vi dichiaro che, se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. 3 Dichiaro di nuovo: ogni uomo che si fa circoncidere, è obbligato a osservare tutta la legge. 4 Voi che volete essere giustificati dalla legge, siete separati da Cristo; siete scaduti dalla grazia. 5 Poiché quanto a noi, è in spirito, per fede, che aspettiamo la speranza della giustizia. 6 Infatti, in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l'incirconcisione; quello che vale è la fede che opera per mezzo dell'amore.



1. Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi. Letteralmente il testo greco dice “Cristo ci ha liberati per la libertà”. E che cosa è la libertà secondo Paolo? La libertà per Paolo consiste nell’essere in Cristo, o come dice altrove “di Cristo”. Per la visione biblica si è liberi solo se si è di Cristo. Cristo il liberatore ci libera perché diventiamo suoi. Così come Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto per fare di Israele il suo popolo, il suo tesoro particolare.

Oggi quando parliamo di libertà pensiamo all’indipendenza, all’autonomia, a non essere di nessuno, nel senso di non essere sottomessi a nessuno; e ovviamente questo è sacrosanto per quanto riguarda i rapporti umani e i diritti umani e sociali. Pensiamo al dramma dei femminicidi, dove l’uomo tratta la donna come una sua proprietà e piuttosto di perderla, arriva ad ucciderla! Nell’antichità, invece, e quindi anche in Paolo, non si può non appartenere a nessuno o appartenere soltanto a se stessi, non c’è questa idea. Quindi la questione è a chi appartieni.

Per Paolo, dunque, o appartieni a Cristo o appartieni a qualche altro signore. E solo se appartieni a Cristo sei veramente libero. Per questo dopo questa bella parola solenne sulla libertà in Cristo, che ci ha liberati perché fossimo liberi, Paolo scrive un’altra parola solenne, ma questa volta una parola dura e chiara: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. I cristiani delle chiese della Galazia devono scegliere se appartenere a Cristo oppure alla circoncisione, cioè alla legge. Cioè, nella visione di Paolo, devono scegliere se rimanere nella libertà che Cristo ha data loro o ricadere nella schiavitù.

Perché per Paolo, voler aggiungere, o pensare di dover aggiungere, qualcos’altro alla libertà che Cristo ci ha dato equivale ricadere nella schiavitù. Ma i Galati – o almeno alcuni fra loro che si opponevano a Paolo – la pensavano diversamente. Volevano farsi circoncidere, perché volevano appartenere a Cristo. La circoncisione era, secondo loro, il segno e il mezzo per appartenere a Cristo. Per gli oppositori di Paolo la circoncisione è la ricerca di una garanzia umana e visibile, impressa addirittura nel corpo, che appunto garantisca di essere di Cristo.

Paolo sta invece dicendo loro che non c’è bisogno di nessuna altra garanzia. Soltanto Cristo è necessario e sufficiente: Solus Christus, ha detto la Riforma. Ma non solo! Paolo è radicale: se a Cristo aggiungi o affianchi qualcosa, non appartieni più a Cristo, ma a quella cosa – qui è la circoncisione – che metti accanto a Cristo. Se vi fate circoncidere, scrive ai Galati, “Cristo non vi gioverà a nulla”. Non c’è bisogno di altra garanzia se non Cristo stesso, la sua morte e la sua resurrezione.

Questo discorso sulla circoncisione, che a noi può sembrare lontano e di scarso interesse, invece ci riguarda, ed è un campanello di allarme per tutti noi: ogni volta che cerchiamo, o siamo tentati di cercare, una garanzia oltre a Cristo, accanto a Cristo, è come se volessimo farci circoncidere. Non c’è bisogno di trovare una garanzia materiale che ci dia o ci confermi di appartenere a Cristo, e non solo non ce n’è bisogno, ma non ci può essere un’altra garanzia oltre a quella che ci dà la fede.

Se noi cerchiamo una garanzia in noi stessi, nella chiesa, nella nostra identità, nella nostra storia, siamo fuori strada. Per quanto possiamo amare la nostra chiesa, appassionarci alla nostra storia, avere a cuore la nostra identità protestante, esse non sono garanzia di alcunché: l’unica garanzia è Cristo. E se proprio cerchiamo una garanzia materiale, l’unica garanzia materiale che l’evangelo ci da è la croce, come segno dell’amore di Dio per noi.

Questo non aver bisogno di altre garanzie dell’amore di Dio, rivelato per noi nella morte e resurrezione di Gesù, è la nostra libertà. È questa la nostra libertà, libertà di mettere in discussione tutte le garanzie umane, tutte quelle certezze che si aggiungono o intrecciano alla nostra fede nella grazia di Dio.

Pensiamo alla nostra storia recente: per secoli anche le chiese della Riforma hanno pensato che le donne non potessero avere diritto di accedere al ministero pastorale; eppure a un certo punto, nel nome di Cristo e della sua Parola siamo stati liberi di superare quella che per secoli era stata una certezza.

Per secoli abbiamo pensato che le persone e le coppie omosessuali non avessero diritto di cittadinanza nella chiesa; eppure a un certo punto, nel nome di Cristo e della sua Parola, siamo stati liberi di mettere in discussione quella che per secoli era stata una certezza; e così via …

La nostra libertà è non avere altra garanzia e altra certezza che l’amore gratuito e immeritato (Sola Gratia) che Dio ci ha manifestato in Cristo soltanto (Solus Christus), che conosciamo attraverso la scrittura (Sola Scriptura), e che crediamo per fede (Sola fide). La fede che nasce dall’evangelo è quella che ci dà questa grande libertà di appartenere a Cristo e a lui soltanto e di non avere altri signori. Tutto il resto può dunque essere messo in discussione, a partire ovviamente da noi stessi. Perché ogni idea, tradizione, abitudine, prassi rischiano di renderci schiavi se non siamo liberi di metterle in discussione. Questa è la nostra grande libertà, che ci data in Cristo e soltanto in Cristo.


2. È per fede soltanto che noi “aspettiamo la giustizia di Dio”. “Aspettare” qui non ha un significato negativo, come nella nostra concezione molto “italica” di attesa come tempo perso. Qui l’attesa è sinonimo di speranza: si attende ciò che si sa che accadrà; si attende il ritorno di Cristo, che si sa che avverrà; si attende il regno di Dio, che si sa che verrà.

Aspettare” la giustizia di Dio, o il regno di Dio, significa che quel regno noi non possiamo prendercelo con i nostri sforzi, non possiamo guadagnarcelo né meritarcelo, ma possiamo solo aspettarlo, aspettarcelo da Dio, perché è un suo dono, è opera solo sua e non nostra. Noi possiamo aspettarlo con gioia, perché appunto sappiamo che verrà, come un bambino aspetta un dono la mattina di Natale, sapendo che quel dono non dipende da lui o da lei, ma sa che quel dono verrà.

Nei confronti di Dio non si può dunque che aspettare, in senso positivo, cioè con fiducia, con gioia e con riconoscenza. Questo “aspettare” è la speranza, che è la sorella gemella della fede, perché la fede crede e spera, spera perché crede nelle promesse del Signore e crede perché Gesù è già venuto a liberarci, morendo per noi e per noi vincendo la morte la notte di Pasqua.

E che si fa mentre si aspetta ciò che può fare Dio soltanto? Che cosa fa la fede che aspetta la giustizia di Dio? Questa fede – dice Paolo - “opera per mezzo dell’amore”. La fede opera, agisce, ovvero: ama. È la tua fede che ama. Non è il tuo buon cuore, la tua gentilezza, la tua generosità. È la fede che ti insegna ad amare e ti rende capace di amare, che ti rende libero di amare. È Cristo che ti insegna ad amare, perché appartieni a lui che ha vissuto l’amore fino in fondo e ci ha indicato l’amore come la strada per andare incontro al prossimo e per dare senso alla nostra vita.

La fede “opera”: i riformatori non hanno mai sminuito le “opere”. Hanno affermato – leggendo Paolo – che le opere non salvano, non hanno nessun valore salvifico, nessun valore davanti a Dio, ma hanno tanto, tantissimo valore davanti al prossimo. Anzi: l’unica cosa da fare, l’unica cosa giusta da fare davanti al prossimo, in obbedienza fiduciosa alla Parola di Dio, è amarlo.

La fede opera per mezzo dell’amore. La fede in Cristo opera nel prossimo, amandolo. Potremmo dire: Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi di amare. A che cos’altro dovrebbe servire la libertà che Cristo ci ha guadagnato venendo crocifisso per noi, se non ad amare? A che cosa dovrebbero “servire” i cristiani nel mondo se non ad amare? O detto meglio: quale dovrebbe la ragione d’essere, cioè la vocazione dei cristiani nel mondo se non quella di amare, di cercare il regno e la giustizia di Dio e lavorare per la giustizia e la pace?

La nostra libertà – che Cristo ci ha donato – e la nostra fede hanno uno scopo: operare per mezzo dell’amore. Non è scontato essere liberi di amare, amare persino i nemici, persino chi non ci ama. È un dono essere liberi di amare; è anche questo frutto della liberazione che Cristo ha operato per noi.

Oggi, “domenica della Riforma”, noi in realtà non “celebriamo” la Riforma come evento storico, ma celebriamo l’evangelo che la Riforma ha rimesso al centro della fede e della vita dei cristiani e della chiesa: siamo stati liberati, e dunque siamo di Cristo e non abbiamo alcun altro signore, per essere liberi di amare e di operare per mezzo dell’amore.

Questo evangelo, è il tesoro di cui parlava Lutero [“Il vero tesoro della Chiesa è il sacrosanto Evangelo della gloria e della grazia di Dio” (tesi 62, dalle 95 tesi del 1517)].

Questo dono, questo amore, questa libertà è il tesoro che ci è dato e affidato. Ci aiuti il Signore a viverlo e a condividerlo con umiltà e con riconoscenza.

Nessun commento: