giovedì 30 dicembre 2021

Predicazione del giorno di Natale 2021 su 1 Giovanni 3,1-2 a cura di Marco Gisola

 1 Giovanni 3,1-2

(culto insieme alla chiesa avventista)

1 Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. 2 Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è.


Oggi, care sorelle e fratelli, siamo qui per celebrare la nascita di Gesù, la venuta del figlio di Dio nel mondo. Il brano proposto per oggi dal nostro lezionario non è un classico brano natalizio, come quelli che abbiamo ascoltato nelle altre due letture, ma è un brano della prima lettera di Giovanni che, scrivendo alle comunità a cui manda questa lettera, dice ai membri di quelle chiese che Dio ci ha manifestato il suo amore al punto di darci di “essere chiamati figli di Dio”.

Il giorno in cui celebriamo la nascita del Figlio di Dio (con la F maiuscola!), la Scrittura ci viene a dire che noi siamo per grazia chiamati figli di Dio (con la f minuscola). Per dirla con un’immagine: nel giorno in cui nasce Gesù, nasciamo anche noi. In Gesù, diventiamo figli anche noi. L’apostolo Paolo parlerà di “adozione”: “avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: «Abbà! Padre!»” (Romani 8,15). Adozione, perché Gesù è il figlio di Dio, e noi lo siamo – o lo diventiamo – soltanto in lui e attraverso di lui.

È attraverso Gesù e grazie a Gesù che possiamo chiamare Dio nostro padre, come Gesù stesso ci ha insegnato a fare nel Padre Nostro. Non perché ce lo meritiamo o ce lo guadagniamo, ma per pura grazia. In Cristo siamo figli adottivi, figli che il Padre di Gesù ha deciso di adottare, per amore e solo per amore: “Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio”. Non è un nostro diritto essere figli di Dio, e non è un nostro merito: dipende esclusivamente dall’amore di Dio, dalla scelta di Dio di mandare il suo figlio nel mondo.

E infatti, probabilmente a noi viene spontaneo reagire dicendo: ma io non mi merito di essere chiamato figlio di Dio, è troppo per una persona piccola come me, con tutti i miei difetti e i miei peccati! E in effetti è troppo! Non ce lo meritiamo, non potremmo mai osare chiamarci figli di Dio, di definirci così davanti agli altri. Sarebbe estremamente presuntuoso. Noi non possiamo chiamarci figli di Dio. Dio invece sì, lui può, solo lui può chiamarci così. Se lo diciamo noi è presunzione, è orgoglio. Se lo dice lui è dono, è grazia. È una cosa che non possiamo dirci da noi stessi, ma che possiamo solo sentirci dire da Dio, attraverso la sua parola.

Oggi il Signore, attraverso la sua parola rivelata nella scrittura, ci dice questo, che siamo suoi figli, perché lui ci ha fatti diventare suoi figli, in Cristo, nella sua morte e resurrezione. E dunque è pura grazia, dono al cento per cento. Dio ci considera suoi figli e ci ama come figli. Essere figli di Dio non è un premio, non è uno status, non è un onore, non vuol dire entrare a far parte di una categoria privilegiata. Essere figli di Dio – o per essere più precisi: essere stati resi figli di Dio da Dio stesso – è una relazione e una vocazione.

È una relazione, una relazione padre-figlio, padre-figlia. È ovvio che questa immagine non ci vuol dire che Dio è di sesso maschile, perché Dio è Dio e i generi appartengono all’umanità. Dio è padre nostro in quanto padre di Gesù e in Gesù ci adotta come suoi figli e figlie. Una relazione che sicuramente nella società del tempo di Gesù non era paritaria; padre e figlio in quella società non sono sullo stesso piano. Il figlio dipende dal padre ed è tenuto ad ascoltare il padre e a seguire la sua volontà. E allo stesso modo noi dipendiamo da Dio, che ci ha dato la vita e che in Cristo ci da la nuova vita. E siamo chiamati ad ascoltare la sua parola e a seguire la sua volontà per costruire e orientare la nostra vita.

È una relazione fatta di dialogo e di fiducia; perché noi siamo chiamati ad ascoltare Dio, ma anche Dio ascolta noi, suoi figli e figlie, e ascolta le nostre preghiere. Il Dio biblico è un Dio che parla, ma anche un Dio che ascolta. Ed è in questo dialogo che la relazione cresce e si approfondisce.

E poi l’essere figli è una vocazione, cioè un compito: l’essere figli prevede delle responsabilità. La parola responsabilità viene dal verbo rispondere: siamo chiamati a rispondere con la nostra vita all’immenso dono dell’amore di cui Dio ci ama e grazie al quale ci chiama suoi figli e figlie. Spesso nella storia i credenti si sono ritenuti superiori agli altri, a volte persino al punto da disprezzare gli altri.

Ma l’unica cosa che abbiamo “in più” rispetto agli altri è la responsabilità di ascoltare la parola di Dio, di testimoniarla con le nostre parole e con le nostre scelte.

Questo significa essere figli e figlie di Dio: il dono di questa relazione che Dio crea con noi, adottandoci come figli e figlie in Cristo, relazione che dona gioia e speranza, e il compito di ascoltare la sua parola e viverla nelle nostre scelte quotidiane. Questa relazione con Dio, che dà senso e speranza al nostro presente, guarda anche al futuro, contiene una promessa: ora siamo figli, “ma non è stato ancora manifestato ciò che saremo. Sappiamo che quando egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è”.

Queste parole dell’apostolo osano guardare oltre la nostra realtà, e gettare lo sguardo alla realtà del regno. Qui, in questa nostra vita terrena siamo figli, siamo stati adottati per grazia, ma nel regno saremo addirittura “simili a lui”. Simili a Dio è un’espressione enigmatica, che si riferisce al fatto che con Dio avremo una piena comunione, che noi saremo con lui e lui sarà con noi. Qui l’apostolo cerca di dire l’indicibile, di esprimere l’inesprimibile.

Da voce alla promessa che è rivolta ai figli e alle figlie. Una promessa che da senso, gioia e speranza alla nostra vita qui ed ora. Non è manifesto quel che saremo, non si sa, non lo sappiamo ed è in fondo inutile saperlo. Ciò che è invece fondamentale che sappiamo è che saremo simili a Dio, cioè saremo con Dio e non vivremo più immersi nelle domande e nei dubbi, ma vedremo Dio faccia a faccia.

Oggi, care sorelle e fratelli, siamo qui per celebrare la nascita di Gesù, la venuta del figlio di Dio nel mondo. Siamo qui per celebrare un inizio. Ma il testo di oggi ci fa guardare alla fine, al regno. Perché la fine è già contenuta in quell’inizio.

In quell’inizio, in quel bambino coricato nella mangiatoia, in quel bambino che nasce durante un viaggio e appena nato è già profugo, perché i suoi genitori devono fuggire in Egitto per salvare la vita di Gesù, in quell’inizio c’è già il nostro presente e il nostro futuro.

Quell’inizio cambia la storia, cambia la nostra storia personale. Pensate a che cosa saremmo oggi se Gesù non fosse nato, se il figlio di Dio non fosse venuto nel mondo.

In quell’inizio c’è il nostro presente di figli e figlie, nel suo figlio Gesù Cristo Dio rende noi figli e figlie adottivi. Un dono e una vocazione, un dono che dà gioia e una vocazione che dà senso alla nostra vita.

E in quell’inizio c’è il nostro futuro, che non è ancora manifesto, perché è nelle mani di Dio ed è più grande di quello che possiamo immaginare.

Tra parentesi, visto che oggi siamo qui a celebrare questo culto insieme membri di chiese diverse, trovo che il messaggio che ci viene dalla Parola di Dio di oggi sia molto adatto al nostro essere insieme. Noi siamo oggi qui insieme avventisti e valdesi, ma Dio non vede in noi degli avventisti e dei valdesi, Dio vede in noi “soltanto” dei figli e delle figlie.

Non vede in noi ciò che la storia, la teologia, gli eventi storici hanno fatto di noi, ma vede in noi ciò che lui ha fatto di noi: figli e figlie, niente di più (perché di più non c’è…!) e niente di meno.

Perché l’azione della grazia di Dio è più grande delle nostre realtà storiche, più grande delle nostre chiese, che pure amiamo e di cui siamo membri attivi. E il nostro futuro, di tutti noi, che siamo avventisti o valdesi, è nelle sue mani, per tutti noi vale la parola: non è ancora manifesto ciò che saremo.

Ciò che siamo – figli e figlie – e ciò che saremo è nelle mani di Dio e della sua immensa grazia.

E tutto ha avuto inizio in quella notte a Betlemme, inizio che contiene già tutto ciò che Gesù farà per noi, tutto il nostro presente e tutto il nostro futuro.

Ci dia il Signore di essere figli e figlie che lo ascoltano, lo seguono, lo lodano, e che vivono, gioiscono e sperano in lui che ci ha amati così tanto da chiamarci suoi figli.

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