giovedì 30 dicembre 2021

Predicazione di domenica 26 dicembre 2021 su Isaia 7,10-14 a cura di Marco Gisola

 Isaia 7,10-14

Il SIGNORE parlò di nuovo ad Acaz, e gli disse: «Chiedi un segno al SIGNORE, al tuo Dio! Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!» Acaz rispose: «Non chiederò nulla; non tenterò il SIGNORE».  Isaia disse: «Ora ascoltate, o casa di Davide! È forse poca cosa per voi lo stancare gli uomini, che volete stancare anche il mio Dio? Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.


Il Signore stesso vi darà un segno”. Questa antica promessa fatta da Dio al suo popolo attraverso il profeta Isaia è l’evangelo di questa domenica dopo Natale. Il segno che Dio vuole dare al suo popolo è che la “giovane” partorirà un figlio cui sarà dato nome Emmanuele. E proprio questo brano di Isaia è ripreso dal vangelo di Matteo che dice che questa profezia si adempie con la nascita di Gesù. È lui l’Emmanuele, il Dio con noi.

Il testo ci presenta un breve dialogo tra Dio e il re Acaz, re di Giuda. Il re Acaz è in una brutta situazione, c’è una guerra alle porte ed è tentato di allearsi con l’Assiria, un regno grande e potente. Ma allearsi con l’Assiria significa sottomettersi a questo grande regno e anche sottomettersi alle sue divinità.

Dio non vuole questo e invita Acaz a chiedere un segno, un segno a sua scelta: “Chiedilo giù nei luoghi sottoterra o nei luoghi eccelsi!”. Insomma Dio è disposto a dare un segno straordinario perché Acaz torni a fidarsi di lui.

Acaz però rifiuta di chiedere un segno, e trova una scusa molto pia, dice che non vuole tentare il Signore. Ma in realtà è perché non si fida di Dio, o meglio si fida di più dell’Assiria che di Dio. Dio ovviamente non è contento e manda Isaia a chiedere al popolo se, non contenti di stancare gli uomini, vogliano ora stancare anche Dio, cioè provocarlo con la loro mancanza di fiducia.

E Dio, attraverso Isaia, proclama che un segno lo darà lo stesso. E il segno sarà un bambino che nasce: una giovane partorirà un bambino. Probabilmente questo bambino è il re che avrebbe sostituito il re Acaz e che sarebbe stato, questa volta, un re giusto e fedele.

Dio aveva proposto ad Acaz di chiedere un segno straordinario, un segno che voleva lui, Acaz ha rifiutato e ora Dio sceglie di dare lo stesso un segno.

Però qui c’è qualcosa di strano: questo segno non è straordinario, è un segno molto ordinario: una donna che partorisce, un bambino che nasce, cose che accadono ogni giorno centinaia di volte.

Questo racconto ha degli echi nei racconti della nascita di Gesù. In Matteo come abbiamo detto è citato esplicitamente per dire che la nascita di Gesù è la realizzazione di questa promessa di Dio.

Nel vangelo di Luca non è citato, ma nel racconto di Luca troviamo la parola “segno” detta dall’angelo ai pastori: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore. E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”.

In Luca è proprio come in Isaia: il segno è un bambino appena nato. Per di più, coricato in una mangiatoia, in un riparo di fortuna perché i genitori erano in viaggio e non hanno trovato altro riparo che una stalla.

Quel bambino – dice l’angelo – è il “salvatore che è il Cristo, il Signore”, ma per ora è solo un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia. Non è un condottiero, non è un uomo forte e potente, non è un re. È un neonato.

È veramente “il salvatore, il Cristo, il Signore”, ma non si vede. Il segno che Dio dà – in Isaia come in Luca – non è ciò che vorremmo vedere, non è evidente, non è straordinario.

Che cosa è un segno? Un segno non è una dimostrazione, una prova, ma è appunto un “segno”, qualcosa che significa, che segnala, che indica qualcos’altro. Un segno chiede la nostra fede.

Chiede la nostra fede perché vedendo il segno siamo invitati a credere a ciò che quel segno ci indica. E questo segno chiede la nostra fede anche perché è un segno debole e fragile. Come tutta la storia della nascita di Gesù.

Luca ci racconta la storia del censimento, del viaggio di Giuseppe e Maria, del fatto che non c’è posto per loro nell’albergo, della mangiatoia che si trova in una stalla o in una grotta adibita a stalla… e poi i pastori, uomini impuri a causa del loro mestiere che sono i primi a visitare Gesù e ad adorarlo.

Matteo ci racconta la storia della strage degli innocenti, cioè dei bambini che il re Erode fa uccidere perché è geloso e vuole eliminare colui che pensa possa essere il suo rivale. E poi la storia dei Magi, uomini saggi, astronomi che vengono da lontano ad adorare Gesù… Insomma una storia di persone marginali, che stanno alla periferia della società e della storia.

Un segno fragile, che in sé non ha nulla di straordinario, un bambino che non si distingue da tutti gli altri bambini che sono nati, che nascono oggi e che nasceranno in questo mondo.

Gesù sarà un segno fragile dall’inizio alla fine, e soprattutto alla fine, nella passione e nella croce, verrà fuori tutta la sua fragilità. È un segno volutamente fragile, perché Dio ha voluto con l’incarnazione rivelarsi attraverso la fragilità umana per portare perdono e speranza ai noi fragili esseri umani.

Ma rivelarsi attraverso la fragilità umana non vuol dire per Dio essere meno Dio. Dio, in Gesù di Nazaret, nel neonato nella mangiatoia, è altrettanto Dio di quando separava le acque del Mar Rosso per portare Israele fuori dall’Egitto, altrettanto Dio di quando faceva trovare la manna nel deserto e faceva scaturire acqua dalla roccia per dissetare il suo popolo.

Nella fragilità di Gesù sta la forza di Dio, sta la forza del regno che Gesù porta in prima persona. Forza del regno che molte delle persone che Gesù ha incontrato hanno sperimentato: coloro che Gesù ha guarito, coloro a cui ha portato il perdono di Dio. Tutte le persone che erano a terra – fisicamente e spiritualmente - e Gesù ha rialzato con la forza della sua parola.

E a Pasqua la forza del regno vincerà persino la morte, e vincerà non annientando chi lo aveva ucciso, ma perdonando i suoi carnefici. È la forza di chi vuole vincere senza sconfiggere, senza annientare, è la forza dell’amore e del perdono.

Vera forza, ma non come la intendiamo noi, cioè come forza da usare contro altri esseri umani, bensì forza come la intende Dio, forza per il bene e la gioia degli esseri umani.

E se ci pensiamo bene, anche la resurrezione – cioè la più grande opera che Dio abbia compiuta – non è evidente, molti non ci crederanno, diranno che il corpo di Gesù è stato rubato. Anche lì, a parte i pochi che hanno incontrato il risorto, tutti gli altri hanno solo un segno, che è la tomba vuota. La tomba vuota è un segno altrettanto debole quanto il neonato coricato nella mangiatoia.

La forza di Dio si incarna nella fragilità umana del neonato di Betlemme, segno della sua presenza in mezzo a noi.

Segno che chiede la nostra fede, che ci chiede di riconoscere nel neonato coricato nella mangiatoia il “salvatore, Cristo e Signore”, che ci chiede di riconoscere nel crocifisso non la sconfitta di Dio ma la vittoria del suo amore, che ci chiede di riconoscere nella tomba vuota non un inganno ma la forza della sua resurrezione.

Gesù nasce, Gesù viene in mezzo a noi; nel neonato coricato nella mangiatoia abbiamo un segno, un segno delle grandi cose che Dio ha promesso di fare per noi e che ha fatto nella vita, morte e resurrezione di suo figlio. Il Signore è fedele e mantiene le sue promesse.

Questo segno ci è dato, la promessa di Dio ci è data. Ciò che è iniziato quella notte a Betlemme nessuno ha potuto fermarlo, nemmeno la croce ha potuto fermarlo, perché non può essere fermato.

In questo segno e in questa promessa si fondano tutta la nostra fede, tutta la nostra speranza e tutta la nostra gioia.

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