lunedì 14 febbraio 2022

Predicazione di domenica 13 febbraio 2022 su Geremia 9,23-24 a cura di Andrea Mela

 

Geremia 9, 23-24

23 Così parla il SIGNORE: «Il saggio non si glori della sua saggezza, il forte non si glori della sua forza, il ricco non si glori della sua ricchezza;

24 ma chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il SIGNORE. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio», dice il SIGNORE.


Ci troviamo oggi di fronte a due versetti che, a prima vista, possono somigliare ad altri che troviamo nei libri sapienziali della Bibbia.

Ad esempio nel libro dei Proverbi leggiamo:

- Non ti vantare del domani, poiché non sai quel che un giorno possa produrre. Altri ti lodi, non la tua bocca; [ti lodi] un estraneo, non le tue labbra (27, 1-2);

- Non fare il vanaglorioso in presenza del re e non occupare il posto dei grandi (25, 6).

Del resto anche i nostri proverbi popolari consigliano di evitare di farsi vanto delle proprie presunte virtù (forza, bellezza, ricchezza o sapienza). Penso in particolare a quello che dice: «chi si loda s'imbroda», cioè chi loda sé stesso in realtà agli occhi degli altri si sporca perché appare falso e antipatico.

Ma nella Bibbia c'è qualche cosa di più perché le qualità umane, anche le migliori (come la saggezza e la sapienza) vengono messe a confronto con le caratteristiche di Dio. Certo qualcuno giustamente penserà che questo è un confronto impossibile. Quale essere umano può misurarsi in modo sincero con Dio senza dover constatare la propria totale inadeguatezza?

Eppure Gesù, nel sermone sul monte, chiede proprio questo rivolgendosi non solo ai suoi discepoli ma alle folle che lo seguivano: «Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5,48).

Teniamo quindi presente la meta verso cui la parola del Signore ci orienta.

Ma a chi si rivolge invece Geremia con questo suo invito a non gloriarsi? È importante scoprirlo per non rischiare di intendere le parole del profeta    solo come un'esortazione morale, giusta, ma un po' generica e astratta.

Queste parole infatti giungono al termine di un lungo e terribile lamento funebre perché la distruzione e la morte passano su Gerusalemme e, se questo avviene – grida Geremia – la responsabilità ricade sui suoi capi: dal re di Giuda agli ufficiali militari, ai possidenti terrieri e persino i capi religiosi non sono da meno come si legge al cap. 8 (10b-11): «sono tutti avidi di guadagno; dal profeta al sacerdote, tutti praticano la menzogna. Essi curano alla leggera la piaga del mio popolo; dicono: "Pace, pace", mentre pace non c'è».

Tutti costoro si reputano saggi, potenti e ricchi. Si illudono di poter fronteggiare con improbabili alleanze la minaccia che incombe su Giuda da parte della potenza babilonese. Ma ecco l'accusa:

«...sono diventati potenti nel paese, ma non per agire con fedeltà, poiché passano di malvagità in malvagità e non conoscono me» dice il SIGNORE. (cap. 9, v. 3).

E Geremia domanda: (v. 12): «Chi è il saggio che capisca queste cose?»

Vorrei fermarmi un attimo su questa domanda perché mi sembra molto attuale proprio nel periodo che stiamo vivendo. Chi è il saggio o il sapiente? (la parola ebraica ha entrambi i significati). Già allora evidentemente c'era un po' di confusione fra questi due termini e anche oggi molte persone dotate di grande cultura, forte erudizione (diciamo i "sapienti"), pensano con questo di possedere anche grande saggezza e spesso non esitano a vantarsene. Bisogna allora chiarire che cosa vuol dire saggezza. Il vocabolario Treccani la definisce così: "capacità di seguire la ragione nel comportamento e nei giudizi, moderazione nei desideri, equilibrio e prudenza nel distinguere il bene e il male, nel valutare le situazioni e nel decidere, nel parlare e nell’agire".

Mi pare un'ottima definizione, ma come si acquisiscono queste capacità? È sufficiente lo studio, la riflessione, l'intelligenza?

Queste cose sono certamente utili, anzi necessarie, e l'epoca in cui viviamo ha accumulato una immensa mole di conoscenze, nei vari campi del sapere umano proprio grazie allo studio, alla riflessione, all'intelligenza di chi ci ha preceduto. Tuttavia non è riuscita a costruire una base altrettanto vasta di saggezza.

La carenza di saggezza, tra l'altro, provoca oggi un'assurda contrapposizione: da un lato ci sono coloro che pensano che la scienza possa spiegare ogni cosa, risolvere ogni problema, ne fanno quasi una divinità e, dall'altro, coloro che la temono senza neppure conoscerla, sono diffidenti a priori perché la considerano sempre asservita ad interessi privati.

Davvero manca spesso l'equilibrio e la prudenza nel distinguere, nel valutare, nel decidere, nel parlare e nell’agire, e la situazione di pandemia ha fatto crescere ancor più i sentimenti di sfiducia e di frustrazione.

«Chi è il saggio che capisca queste cose?» domandava Geremia e oggi di fronte ad una minaccia imprevista, mai sperimentata, non è facile orientarsi. Di chi ci si può fidare? A quali saggi governanti, a quali scienziati dare retta?

Ovviamente non ho una risposta precisa ma penso che le parole di Geremia possano essere per noi di grande aiuto.

Nell'invitare i potenti a non gloriarsi (cioè a non rendere gloria a sé stessi) il Signore implicitamente ci dice che è meglio non fidarsi troppo di quelli che lo fanno.

Geremia non disprezza affatto la saggezza e la forza umane né critica la ricchezza in sé stessa. Il peccato non consiste nel possedere questi doni ma nell'usarli malamente cioè, come scrive il profeta, "non per agire con fedeltà".

Il riferimento è naturalmente alla fedeltà al patto del Sinai (Esodo 19) quando, come ricorderete, il Signore disse a Mosè (v. 5-6): «Ora, se volete ascoltare la mia voce e custodite la mia alleanza, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia; e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa».

Tutta la terra appartiene a Dio, tutti i popoli sono suoi figli e sono amati nello stesso modo, ma Israele ha un carattere speciale, è un tesoro particolare, è un po' come il figlio primogenito, l'aiuto su cui i genitori possono sempre contare. Pertanto è chiamato ad essere "un regno di sacerdoti" vale a dire un regno che serve, anziché uno che comanda, e "una nazione Santa" cioè un popolo messo a parte per uno scopo preciso.

Per essere questo tipo di popolo Israele deve incarnare in ogni suo aspetto il disegno di Dio nel mondo, diventare l'ambasciatore di Dio fra le nazioni. Ma il popolo è fatto di esseri umani; perciò il Signore dice loro: sei saggio, forte, ricco? Bene! Ma se credi che questo appartenga a te e sia il tuo vanto, vuol dire che la tua saggezza è ben poca cosa, la tua forza una pura illusione e la tua ricchezza è effimera come un fiore che sboccia e appassisce nel volgere di un giorno. Gloriarti di queste cose le fa impoverire, le riduce in cenere, non servono più a nulla, anzi portano alla rovina. Infatti, se ciascuno celebra sé stesso, si vive in una società del tutti contro tutti. Se ogni popolo, ogni nazione celebra sé stessa, quale altra conseguenza potremo avere se non una guerra totale?

Ma il Signore dice che un'alternativa esiste: c'è qualche cosa di cui è possibile gloriarsi. Rileggiamo le parole del profeta (v. 24):

«... chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il SIGNORE. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio».

Questo versetto è bellissimo perché cambia completamente la prospettiva, non è la reazione di un dio permaloso che si è offeso perché non riceve la dovuta attenzione dal suo popolo, è invece una prospettiva tutta nuova e diversa da quella che nasce dall'autocompiacimento umano.

Ci sono alcune parole in questo versetto che vorrei sottolineare: la prima è "intelligenza". Avere intelligenza qui non vuol dire essere geniali, avere doti intellettuali straordinarie. Il senso è piuttosto quello più vicino al significato etimologico del termine cioè vuol dire avere la capacità di scegliere e di distinguere ciò che è dell'uomo e ciò che è di Dio.

Intelligenza, come dice Gesù, è saper «Rendere a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» ( Mt. 22,21; Mc. 12,17; Lc. 20,25).

O, come dice un altro dei proverbi biblici, "conoscere il Santo è l'intelligenza" (Prov 9, 10b).

Le altre parole sono: "praticare, bontà, diritto e giustizia".

Ecco che cosa il Signore contrappone alle vanterie umane: prima di tutto il "praticare". Dio non usa per sé degli aggettivi e così ci insegna che ciò che conta non è essere saggi, buoni, giusti ma agire come tali. È molto facile (e lo dico soprattutto a me stesso) predicare la bontà e la giustizia. Molto più difficile è perdonare, riconciliarsi, rinunciare a qualche vantaggio, a qualche cosa che possediamo per aiutare altri. Ancora più arduo è mettere in pratica il diritto e la giustizia, specialmente se comprendiamo il senso che la parola di Dio attribuisce a questi termini. Spesso oggi noi li fraintendiamo: non riusciamo a scorgere i limiti dei nostri diritti e usiamo la giustizia come un arma di difesa dai torti subiti ma a volte anche di offesa, di minaccia o di vendetta.

La giustizia di Dio è tutt'altra cosa: essa risana le ferite, ricostruisce le relazioni distrutte, indica una via di pace, si prende cura della vittima in ogni aspetto della sua sofferenza, senza però dimenticare che anche l'aggressore deve essere ristabilito nella sua umanità e non solo punito, deve imparare a scegliere il bene anziché il male. Gesù ha detto: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori» (Marco 2,17).

Grazie a lui possiamo anche noi cercare di conoscere il Signore, con fatica forse, ma anche con fiducia perché lui per primo desidera farsi conoscere e donarci un po' della sua bontà e della sua giustizia.

Se riusciamo, insieme agli altri, ad afferrare la mano che in Cristo Dio ci tende, la relazione con lui ci cambierà e potremo permettergli di essere, anche attraverso di noi, il Dio che mette in pratica la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra. Questa è l'unica base solida della nostra speranza per un mondo nuovo e radicalmente diverso da quello in cui viviamo.

Il Signore ci conceda di saper costruire su questa base.

Nessun commento: