Con un recente motu proprio, Benedetto XVI ha dato precise disposizioni proibendo l’uso del “vernacolo” nella liturgia, e cioé la traduzione dell’Evangelo e dei Salmi, e nelle omelie; in altre parole, non sono ammesse lingue che non siano riconosciute e appunto i dialetti non lo sono. Ma come distinguere una “lingua” da un “dialetto”? Non esiste un criterio scientifico valido per tracciarne la differenza.
Ad esempio, il Basco, riconosciuto ora dallo Stato spagnolo come lingua a tutti gli effetti, durante il regime fascista di Franco era un dialetto vilipeso, ed i Vescovi ne avevano proibito l’uso liturgico nelle diocesi dove lo si parla. Il Corso è l’idioma regionale, con il Toscano, più simile all’Italiano: ma la Repubblica francese gli ha aperto le scuole, e così la Chiesa romana consente che si celebri la Messa in quella “lingua”. È chiaro, pertanto, che la differenza è soltanto “politica”. A Monaco si parla un dialetto ligure, ma colà la Messa è consentita nell’idioma locale perché gradito ai prìncipi Grimaldi; invece a Genova l’uso liturgico di quello stesso ligure è proibito. Mentre la Bibbia testimonia che Dio “dà ascolto al piccolo come al grande” (Deut. 1:17), ed ammonisce dal “disprezzare alcuni di questi piccoli” (Matteo 18:10) perché “il Padre che è in cielo vuole che nessuno dei piccoli vada perduto” (idem, 14)”, là dove il potere politico chiude alle lingue regionali le porte delle scuole e delle pubbliche amministrazioni, pure la Chiesa romana chiude le porte delle sue chiese infierendo, come Maramaldo, sulle piccole lingue morenti. Sembra incredibile che non si comprenda come il Padre celeste, che ha voluto nella creazione varietà di colori, di paesaggi, di creature viventi (vegetali, animali e gli uomini “altri animali”) non dovrebbe gradire la molteplicità dei linguaggi che tutti si fondono in vivente armonia, così come nel bosco non risuona soltanto il canto dell’usignolo. Le prime preghiere rivolte a Gesù, erano quelle dei pastori di Betlemme, che certo non parlavano una lingua illustre, ma una forma molto rustica di aramaico; del resto non mi risulta che oggi l’Aramaico sia “lingua” riconosciuta da alcun Stato. E allora pure il “dialetto” con il quale Gesù ha portato la “buona novella” sarebbe vietato da chi pretende di esserne il vicario in terra? Quelli che sono chiamati “dialetti” in Italia, non sono forme corrotte della lingua nazionale, ma idiomi neolatini, proprio come quelli illustri (italiano, francese, castigliano, portoghese, romeno...) entrate a Palazzo come le sorelle spocchiose della favola popolare, che hanno relegato la disprezzata Cenerentola al pascolo ed al focolare: tale e quale alla lingua povera e negletta, appunto, che la Chiesa romana, al contrario della buona fata, non trasforma in regina ma condanna al ruolo servile. Eppure questi idiomi svalutati possiedono dizionari, grammatiche, valide letterature, traduzioni della Bibbia, non hanno eserciti, sono prive di potere e quindi la Chiesa romana, che del potere è sempre stata avida, ed è in simbiosi con il Palazzo, li discrimina e impedisce che il popolo parli al Padre con la lingua della famiglia, del lavoro, dell’amicizia.
Comprendiamo, certo, che le traduzioni debbano essere consone e corrette, non imposte ma liberamente scelte dall’assemblea dei fedeli. Ma l’essenziale è che si onori la Legge di Gesù, che non è la “proibizione”, ma l’Amore. E allora ricordiamo le sue parole: “Non esiste buon albero che porti cattivi frutti. Ogni albero si riconosce dai suoi frutti” (Matteo, 12:33; Luca 6:43). Far trovare la porta di legno a chi vuol pregare nella propria lingua, specie se piccola e povera, non ci sembra sia un buon frutto.
Ad esempio, il Basco, riconosciuto ora dallo Stato spagnolo come lingua a tutti gli effetti, durante il regime fascista di Franco era un dialetto vilipeso, ed i Vescovi ne avevano proibito l’uso liturgico nelle diocesi dove lo si parla. Il Corso è l’idioma regionale, con il Toscano, più simile all’Italiano: ma la Repubblica francese gli ha aperto le scuole, e così la Chiesa romana consente che si celebri la Messa in quella “lingua”. È chiaro, pertanto, che la differenza è soltanto “politica”. A Monaco si parla un dialetto ligure, ma colà la Messa è consentita nell’idioma locale perché gradito ai prìncipi Grimaldi; invece a Genova l’uso liturgico di quello stesso ligure è proibito. Mentre la Bibbia testimonia che Dio “dà ascolto al piccolo come al grande” (Deut. 1:17), ed ammonisce dal “disprezzare alcuni di questi piccoli” (Matteo 18:10) perché “il Padre che è in cielo vuole che nessuno dei piccoli vada perduto” (idem, 14)”, là dove il potere politico chiude alle lingue regionali le porte delle scuole e delle pubbliche amministrazioni, pure la Chiesa romana chiude le porte delle sue chiese infierendo, come Maramaldo, sulle piccole lingue morenti. Sembra incredibile che non si comprenda come il Padre celeste, che ha voluto nella creazione varietà di colori, di paesaggi, di creature viventi (vegetali, animali e gli uomini “altri animali”) non dovrebbe gradire la molteplicità dei linguaggi che tutti si fondono in vivente armonia, così come nel bosco non risuona soltanto il canto dell’usignolo. Le prime preghiere rivolte a Gesù, erano quelle dei pastori di Betlemme, che certo non parlavano una lingua illustre, ma una forma molto rustica di aramaico; del resto non mi risulta che oggi l’Aramaico sia “lingua” riconosciuta da alcun Stato. E allora pure il “dialetto” con il quale Gesù ha portato la “buona novella” sarebbe vietato da chi pretende di esserne il vicario in terra? Quelli che sono chiamati “dialetti” in Italia, non sono forme corrotte della lingua nazionale, ma idiomi neolatini, proprio come quelli illustri (italiano, francese, castigliano, portoghese, romeno...) entrate a Palazzo come le sorelle spocchiose della favola popolare, che hanno relegato la disprezzata Cenerentola al pascolo ed al focolare: tale e quale alla lingua povera e negletta, appunto, che la Chiesa romana, al contrario della buona fata, non trasforma in regina ma condanna al ruolo servile. Eppure questi idiomi svalutati possiedono dizionari, grammatiche, valide letterature, traduzioni della Bibbia, non hanno eserciti, sono prive di potere e quindi la Chiesa romana, che del potere è sempre stata avida, ed è in simbiosi con il Palazzo, li discrimina e impedisce che il popolo parli al Padre con la lingua della famiglia, del lavoro, dell’amicizia.
Comprendiamo, certo, che le traduzioni debbano essere consone e corrette, non imposte ma liberamente scelte dall’assemblea dei fedeli. Ma l’essenziale è che si onori la Legge di Gesù, che non è la “proibizione”, ma l’Amore. E allora ricordiamo le sue parole: “Non esiste buon albero che porti cattivi frutti. Ogni albero si riconosce dai suoi frutti” (Matteo, 12:33; Luca 6:43). Far trovare la porta di legno a chi vuol pregare nella propria lingua, specie se piccola e povera, non ci sembra sia un buon frutto.
Tavo Burat
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