lunedì 10 giugno 2019

Predicazione di domenica 9 giugno 2019 (Pentecoste) su Giovanni 14,15-27 a cura di Giuseppe Sgroi

Giovanni 14, 15-27 (Atti 2, 1-21)
15 «Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16 e io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro consolatore, perché stia con voi per sempre, 17 lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi. 18 Non vi lascerò orfani; tornerò da voi. 19 Ancora un po', e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20 In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi. 21 Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui».
22 Giuda (non l'Iscariota) gli domandò: «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?» 23 Gesù gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui. 24 Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato.
25 Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; 26 ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto.
27 Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.


Oggi è il giorno in cui si commemora l’evento della Pentecoste.
Quest’evento ricorda in qualche modo la nascita della chiesa o quantomeno esso ne è uno dei momenti fondanti.
La festa di Pentecoste è una festa risalente alla tradizione ebraica. Era chiamata la festa delle settimane e si celebrava quarantanove giorni dopo la Pasqua; con il tempo assunse diversi significati nel mondo ebraico: fu celebrata allo stesso tempo come festa delle primizie del raccolto così come festa di celebrazione del dono della Torah.
C’è un midrash ebraico, un racconto rabbinico, che narra del dono della Torah:
Mose salito sul monte per ricevere le parole della Torah, è accolto dall’indignazione degli angeli che chiedono a Dio come mai vuole mettere nelle mani d’un umano, quindi un peccatore, la Torah, che è santa in quanto pensata e promulgata da Dio stesso.
Dio non risponde direttamente ma chiede a Mosè di rispondere.
Mosè allora si sofferma sui punti salienti della Torah intesa come decalogo, i dieci comandamenti, risponde rivolgendo agli angeli delle domande:
cosa dice la Torah? «Io sono il Signore Dio tuo che ti fece uscire
dalla terra d’Egitto» (Es 20, 2).
- E voi, - disse Mosè rivolgendosi agli angeli - siete forse stati in Egitto?
avete dovuto sostenere la schiavitù? a che dovrebbe servirvi, dunque, la Torah?
Inoltre- continuò Mosè - è scritto in essa: «non avere altri dei».
Siete, forse, voi in mezzo a genti idolatriche?
È ancora scritto: «non pronunciare il Nome di Dio, ecc.». Avete voi forse rapporti secondo le umane consuetudini?
È scritto inoltre: «ricordati del giorno di sabato per santificarlo». Forse che voi lavorate, per dover poi riposare?
È scritto ancora: «onora tuo padre e tua madre». Avete voi genitori?
È scritto ancora: «non uccidere, non commettere adulterio, non rubare». V’è forse, tra voi, gelosia o invidia?
Così gli angeli, dopo aver lodato Dio, divennero amici di Mosè e ciascuno gli fece un regalo, come è detto: «salisti al cielo, prendesti ricchezze, prendesti doni per gli uomini» (Sal 68, 19).

Da sempre Pentecoste è stata una festa importante, anche nel mondo cristiano, perché si ricorda la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e dunque, l’aspetto solenne della festa è rimasto confermato.
I testi che abbiamo letto oggi, e che sono alla base di questa riflessione, ci mostrano due aspetti, ambedue fondamentali per la comprensione di questa festività e della sua gioiosa celebrazione: nell’evangelo di Giovanni, sono riportate le parole di Gesù dette ai discepoli, parole con le quali sottolineò l’importanza della relazione con il Padre e quindi con lui stesso, come manifestazione della presenza dello Spirito nel cuore dei credenti; nel libro degli Atti invece, è raccontato l’evento prodigioso della discesa dello Spirito sui discepoli e l’effetto che produsse, indicando l’elevato numero di persone che a partire proprio da quell’evento, credettero.
Ebbene, anche oggi il ricordo di quell’avvenimento ha un valore fondante per noi, per la chiesa, per ogni singolo credente, figlia e figlio di Dio.
Il testo dell’evangelo di Giovanni, è un testo nel quale traspare tutta la preoccupazione dei discepoli: il Maestro aveva loro detto che se ne sarebbe andato, sarebbe tornato al Padre.
E di loro? Che ne sarebbe stato di loro? Cosa avrebbero fatto delle loro vite, dopo anni passati con Lui a girare in lungo e in largo per la Galilea e la Giudea, la Samaria e la Decapoli?
Una preoccupazione legittima, fondata. Molti di loro erano dei semplici pescatori, il problema che si presentava davanti a loro riguardava il “cosa fare dopo”. Quale sarebbe stato il loro futuro?
Uno dei discepoli gli pone una domanda: “ma perché ti manifesti solo a noi e non a tutti? Perché ti vedremo solo noi e non tutti?”
Domanda questa che non è solamente segno di curiosità, forse c’è pure dell’incomprensione del significato dell’insegnamento del Maestro, ma denota anche la preoccupazione riguardo alla loro vita.
In fondo sarebbe stato tutto molto più semplice se il Maestro, si fosse manifestato a tutti e non solo a loro.
Sarebbe stato più semplice se il Maestro, il Messia, si fosse reso visibile a tutti e non solo a loro.
La loro vita sarebbe stata facilitata, tutto avrebbe un senso più ampio, non ristretto alla loro piccola cerchia. Non avrebbero dovuto spiegare, bastava un semplice “l’hai visto anche tu”, una certezza visiva, una prova tangibile e non un evento raccontato.
Cosa fare dunque? Come comportarsi? Come affrontare il futuro, le sfide, il timore di essere perseguitati, come infatti lo furono, esclusi dalla comunità d’Israele, additati come blasfemi, come esaltati, come utopici, come strani o ubriachi di vin dolce come lo stesso racconto degli atti ci riporta.
In una sola parola emarginati e rifiutati, senza futuro, senza arte né parte.
L’emarginazione è un problema concreto ancora oggi presente nella nostra società: se non si è omologati al pensiero dominante, in fondo si è considerati come “strani”, quanto meno sospetti, nella migliore delle ipotesi, eccentrici oppure nella nuova vulgata, buonisti.
Se si è stranieri poi, si è guardati con diffidenza; se si è tra coloro che aiutano queste categorie di persone, stranieri, immigrati in genere, rom, in fondo si è guardati con un distacco che sovente rasenta la diffidenza: “c’è qualcosa di losco, di poco chiaro, chissà perché lo fanno, di sicuro ci guadagnano…”
Dunque l’interrogativo dei discepoli concretizzato proprio nella domanda posta a Gesù da uno di loro, da Giuda (non l’iscariota, precisa il testo): “perché solo a noi e non a tutti”, interroga anche noi nell’oggi della nostra quotidianità, della nostra fede e delle nostre azioni sociali che sono una conseguenza di essa.
Vivere la fede è da sempre un esercizio complesso, non di rado suscita ammirazione negli altri, ma spesso solo dopo la morte della persona; allora vengono ricordati gesti, azioni, parole o gli insegnamenti. In vita il trattamento sovente è differente.
Coloro che però non sono omologabili al pensiero religioso tradizionale della maggioranza, sono scartati, non sono nominati, ancora una volta emarginati anche post mortem.
Questo accadde ai valdesi e in generale ai protestanti, spesso visti non solo teologicamente come eretici ma anche come potenziali elementi di instabilità per il potere: il dissenso e la protesta non sono utili per la gestione del potere stesso. Sono componenti di destabilizzazione.
Come si può perciò coniugare la fede davanti alle tante difficoltà, tra le quali quelle appena descritte?
Come coniugare la fede davanti ad una società che accetta quasi passivamente l’ostentazione di simboli religiosi interpretati come espressione della fede stessa?
Le critiche tra cui anche la nostra, rimangono incomprensibili ai tanti.
Possiamo vedere l’opera dello Spirito in queste manifestazioni?
In questi casi, quasi certamente i dubbi rimangono e sono forti, esattamente come i dubbi e le paure dei discepoli sul loro futuro e sulla loro missione.
Cosa fare dunque? Come comportarsi?
Allora come oggi, seguendo la lettura del Vangelo, potremmo dire che Gesù comprese lo stato d’animo dei discepoli, così come comprende il nostro.
Egli fece loro delle promesse: la promessa del suo ritorno e la promessa del Paraclito, il Consolatore, lo Spirito Santo.
Una promessa cui segue l’evento gioioso e strabiliante di una predicazione espressa in diverse lingue, lingue comprese dagli ascoltanti, che sancirono e testimoniarono che l’allargamento del perimetro dovesse andare oltre la cerchia dei primi discepoli, che fosse di fatto quella la strada da percorrere.
Strada infatti che successivamente Paolo percorse e difese per tutta la sua vita. Lo Spirito Santo dunque come la Torah per il mondo ebraico, nel midrash che abbiamo citato all’inizio, ha la funzione di guida, sostegno, mezzo di forza e aiuto per ogni credente per la propria vita di fede. Un avvocato ma anche un tutore.
È l’evento promesso già dal profeta Gioele e che il testo del libro degli Atti letto oggi riporta; evento già previsto da Dio, evento che segna il punto di partenza di una comunità che crede che occorra propagare il messaggio ricevuto dal Maestro.
Ma Gesù ai discepoli aggiunge ancora dell’altro che potremmo tradurre così:
non solo ciò che al momento non capite vi sarà reso comprensibile proprio dall’intervento dello Spirito, ma questo Spirito è Colui che supplirà pienamente alla mia assenza terrena e corporale, ma rendendomi spiritualmente presente in mezzo a voi. Ecco perché voi mi vedrete e gli altri no!”
Non solo! Gesù non si limitò solo ad una promessa, Egli diede anche delle indicazioni precise: osservare i suoi insegnamenti, prendere in considerazione che senza l’osservanza della sua predicazione, sarebbe impossibile vivere l’esperienza fondante e fondamentale della relazione con il Padre (e con Lui stesso). Esperienza certamente personale ma che si concretizza nella relazione comunitaria dove la pace lasciata da Cristo prende consistenza e vede la sua applicazione pratica.
Osservare i suoi insegnamenti, equivaleva ad osservare i suoi comandamenti ma di fatto si trattava e si tratta di un solo comandamento, che racchiude qualunque altro: il comandamento dell’amore.
I discepoli continuarono, in quel momento, a non comprendere il suo messaggio; esso non fu chiaro per loro nemmeno dopo la sua resurrezione, iniziò ad apparire più comprensibile dopo la sua apparizione come Risorto, fu completo con la Pentecoste e la prospettiva che si schiudeva d’innanzi, fu palese subito dopo.
A quel punto, sapevano cosa fare, sapevano come fare, sapevano dove andare, sapevano cosa dire.
Il mistero fu sciolto definitivamente.
A quel punto era chiaro e sempre più chiaro sarebbe stato nel futuro: convincere gli esseri umani di questa bella notizia, di questa possibilità, di questa necessità.
E per noi oggi? Forse non ci è poi sempre così chiaro, spesso perdiamo l’orientamento e abbiamo bisogno di qualche momento di riflessione.
Ma ci accompagna la promessa ed insieme la certezza che il Signore è con noi, cammina con noi, ci supporta nelle nostre ansie, nelle nostre preoccupazioni, nei nostri quesiti, nei nostri dubbi, che Lui è lì, c’è, ci indica una strada, ci chiama di continuo, ci incita, ci ama incondizionatamente e chiede solo in cambio, la relazione, la nostra apertura.
Un messaggio dunque, è alla base di questa prospettiva, un messaggio da diffondere, ma soprattutto un messaggio da vivere: l’amore.
Quello di Dio per ciascuno e ciascuna di noi e il nostro, verso gli altri, all’interno di una dinamica relazionale.
Non è banale né banalizzabile come messaggio; certo si potrebbe dire che lo sanno anche i muri che bisogna amare, in fondo non è una scoperta.
Ma in realtà dietro questa parola che indica un sentimento, ci sono diverse emozioni, diverse manifestazioni, diversi modi di vivere questa sfera affettiva.
L’apertura che il libro degli Atti ci racconta, è un’apertura verso un mondo estraneo, che parla lingue differenti, che è portatore di culture differenti, modi di fare differenti, è di fatto, l’indicazione chiara che lo Spirito dà.
Il giorno di Pentecoste dunque è un’esperienza vera di vicinanza a Dio, e di Dio; una relazione che spezza ogni legame, ogni barriera, ogni muro, ogni recinzione di filo spinato (come ultimamente se ne vedono alle frontiere degli stati), e stabilisce l’apertura quale esperienza concreta di fede e liberazione.
L’esperienza della Pentecoste non è un mero rapporto teorico e nemmeno un espediente mnemonico, lo sterile ricordo di un avvenimento.
Essa è relazione!
Relazione con Dio, relazione con il prossimo, apertura e condivisione.
Il Signore ci ha chiamati a vivere quest’esperienza pienamente per mezzo dello Spirito, e a viverla con gioia.
E allora avendo noi, questa convinzione di fede, auguro a tutte e tutti una felice, buona e gioiosa Pentecoste.
Amen

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