Giovanni
14, 15-27 (Atti 2, 1-21)
15 «Se
voi mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16 e
io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro consolatore, perché
stia con voi per sempre, 17 lo
Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo
vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e
sarà in voi. 18 Non
vi lascerò orfani; tornerò da voi. 19 Ancora
un po', e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io
vivo e voi vivrete. 20 In
quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io
in voi. 21 Chi
ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà
amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a
lui».
22 Giuda (non l'Iscariota) gli domandò: «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?» 23 Gesù gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui. 24 Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato.
25 Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; 26 ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto.
27 Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
22 Giuda (non l'Iscariota) gli domandò: «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?» 23 Gesù gli rispose: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui. 24 Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato.
25 Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; 26 ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto.
27 Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Oggi
è il giorno in cui si commemora l’evento della Pentecoste.
Quest’evento
ricorda in qualche modo la nascita della chiesa o quantomeno esso ne
è uno dei momenti fondanti.
La
festa di Pentecoste è una festa risalente alla tradizione ebraica.
Era chiamata la festa delle settimane e si celebrava quarantanove
giorni dopo la Pasqua; con il tempo assunse diversi significati nel
mondo ebraico: fu celebrata allo stesso tempo come festa delle
primizie del raccolto così come festa di celebrazione del dono della
Torah.
C’è
un midrash ebraico, un racconto rabbinico, che narra del dono della
Torah:
Mose
salito sul monte per ricevere le parole della Torah, è accolto
dall’indignazione degli angeli che chiedono a Dio come mai vuole
mettere nelle mani d’un umano, quindi un peccatore, la Torah, che è
santa in quanto pensata e promulgata da Dio stesso.
Dio
non risponde direttamente ma chiede a Mosè di rispondere.
Mosè
allora si sofferma sui punti salienti della Torah intesa come
decalogo, i dieci comandamenti, risponde rivolgendo agli angeli delle
domande:
cosa
dice la Torah? «Io sono il Signore Dio tuo che ti fece uscire
dalla
terra d’Egitto» (Es 20, 2).
-
E voi, - disse Mosè rivolgendosi agli angeli - siete forse stati in
Egitto?
avete
dovuto sostenere la schiavitù? a che dovrebbe servirvi, dunque, la
Torah?
Inoltre-
continuò Mosè - è scritto in essa: «non avere altri dei».
Siete,
forse, voi in mezzo a genti idolatriche?
È
ancora scritto: «non pronunciare il Nome di Dio, ecc.». Avete voi
forse rapporti secondo le umane consuetudini?
È
scritto inoltre: «ricordati del giorno di sabato per santificarlo».
Forse che voi lavorate, per dover poi riposare?
È
scritto ancora: «onora tuo padre e tua madre». Avete voi genitori?
È
scritto ancora: «non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare». V’è forse, tra voi, gelosia o invidia?
Così
gli angeli, dopo aver lodato Dio, divennero amici di Mosè e ciascuno
gli fece un regalo, come è detto: «salisti al cielo, prendesti
ricchezze, prendesti doni per gli uomini» (Sal 68, 19).
Da
sempre Pentecoste è stata una festa importante, anche nel mondo
cristiano, perché si ricorda la discesa dello Spirito Santo sugli
apostoli e dunque, l’aspetto solenne della festa è rimasto
confermato.
I
testi che abbiamo letto oggi, e che sono alla base di questa
riflessione, ci mostrano due aspetti, ambedue fondamentali per la
comprensione di questa festività e della sua gioiosa celebrazione:
nell’evangelo di Giovanni, sono riportate le parole di Gesù dette
ai discepoli, parole con le quali sottolineò l’importanza della
relazione con il Padre e quindi con lui stesso, come manifestazione
della presenza dello Spirito nel cuore dei credenti; nel libro degli
Atti invece, è raccontato l’evento prodigioso della discesa dello
Spirito sui discepoli e l’effetto che produsse, indicando l’elevato
numero di persone che a partire proprio da quell’evento,
credettero.
Ebbene,
anche oggi il ricordo di quell’avvenimento ha un valore fondante
per noi, per la chiesa, per ogni singolo credente, figlia e figlio di
Dio.
Il
testo dell’evangelo di Giovanni, è un testo nel quale traspare
tutta la preoccupazione dei discepoli: il Maestro aveva loro detto
che se ne sarebbe andato, sarebbe tornato al Padre.
E
di loro? Che ne sarebbe stato di loro? Cosa avrebbero fatto delle
loro vite, dopo anni passati con Lui a girare in lungo e in largo per
la Galilea e la Giudea, la Samaria e la Decapoli?
Una
preoccupazione legittima, fondata. Molti di loro erano dei semplici
pescatori, il problema che si presentava davanti a loro riguardava il
“cosa fare dopo”. Quale sarebbe stato il loro futuro?
Uno
dei discepoli gli pone una domanda: “ma perché ti manifesti solo a
noi e non a tutti? Perché ti vedremo solo noi e non tutti?”
Domanda
questa che non è solamente segno di curiosità, forse c’è pure
dell’incomprensione del significato dell’insegnamento del
Maestro, ma denota anche la preoccupazione riguardo alla loro vita.
In
fondo sarebbe stato tutto molto più semplice se il Maestro, si fosse
manifestato a tutti e non solo a loro.
Sarebbe
stato più semplice se il Maestro, il Messia, si fosse reso visibile
a tutti e non solo a loro.
La
loro vita sarebbe stata facilitata, tutto avrebbe un senso più
ampio, non ristretto alla loro piccola cerchia. Non avrebbero dovuto
spiegare, bastava un semplice “l’hai visto anche tu”, una
certezza visiva, una prova tangibile e non un evento raccontato.
Cosa
fare dunque? Come comportarsi? Come affrontare il futuro, le sfide,
il timore di essere perseguitati, come infatti lo furono, esclusi
dalla comunità d’Israele, additati come blasfemi, come esaltati,
come utopici, come strani o ubriachi di vin dolce come lo stesso
racconto degli atti ci riporta.
In
una sola parola emarginati e rifiutati, senza futuro, senza arte né
parte.
L’emarginazione
è un problema concreto ancora oggi presente nella nostra società:
se non si è omologati al pensiero dominante, in fondo si è
considerati come “strani”, quanto meno sospetti, nella migliore
delle ipotesi, eccentrici oppure nella nuova vulgata, buonisti.
Se
si è stranieri poi, si è guardati con diffidenza; se si è tra
coloro che aiutano queste categorie di persone, stranieri, immigrati
in genere, rom, in fondo si è guardati con un distacco che sovente
rasenta la diffidenza: “c’è qualcosa di losco, di poco chiaro,
chissà perché lo fanno, di sicuro ci guadagnano…”
Dunque
l’interrogativo dei discepoli concretizzato proprio nella domanda
posta a Gesù da uno di loro, da Giuda (non l’iscariota, precisa il
testo): “perché solo a noi e non a tutti”, interroga anche noi
nell’oggi della nostra quotidianità, della nostra fede e delle
nostre azioni sociali che sono una conseguenza di essa.
Vivere
la fede è da sempre un esercizio complesso, non di rado suscita
ammirazione negli altri, ma spesso solo dopo la morte della persona;
allora vengono ricordati gesti, azioni, parole o gli insegnamenti. In
vita il trattamento sovente è differente.
Coloro
che però non sono omologabili al pensiero religioso tradizionale
della maggioranza, sono scartati, non sono nominati, ancora una volta
emarginati anche post mortem.
Questo
accadde ai valdesi e in generale ai protestanti, spesso visti non
solo teologicamente come eretici ma anche come potenziali elementi di
instabilità per il potere: il dissenso e la protesta non sono utili
per la gestione del potere stesso. Sono componenti di
destabilizzazione.
Come
si può perciò coniugare la fede davanti alle tante difficoltà, tra
le quali quelle appena descritte?
Come
coniugare la fede davanti ad una società che accetta quasi
passivamente l’ostentazione di simboli religiosi interpretati come
espressione della fede stessa?
Le
critiche tra cui anche la nostra, rimangono incomprensibili ai tanti.
Possiamo
vedere l’opera dello Spirito in queste manifestazioni?
In
questi casi, quasi certamente i dubbi rimangono e sono forti,
esattamente come i dubbi e le paure dei discepoli sul loro futuro e
sulla loro missione.
Cosa
fare dunque? Come comportarsi?
Allora
come oggi, seguendo la lettura del Vangelo, potremmo dire che Gesù
comprese lo stato d’animo dei discepoli, così come comprende il
nostro.
Egli
fece loro delle promesse: la promessa del suo ritorno e la promessa
del Paraclito, il Consolatore, lo Spirito Santo.
Una
promessa cui segue l’evento gioioso e strabiliante di una
predicazione espressa in diverse lingue, lingue comprese dagli
ascoltanti, che sancirono e testimoniarono che l’allargamento del
perimetro dovesse andare oltre la cerchia dei primi discepoli, che
fosse di fatto quella la strada da percorrere.
Strada
infatti che successivamente Paolo percorse e difese per tutta la sua
vita. Lo Spirito Santo dunque come la Torah per il mondo ebraico, nel
midrash che abbiamo citato all’inizio, ha la funzione di guida,
sostegno, mezzo di forza e aiuto per ogni credente per la propria
vita di fede. Un avvocato ma anche un tutore.
È
l’evento promesso già dal profeta Gioele e che il testo del libro
degli Atti letto oggi riporta; evento già previsto da Dio, evento
che segna il punto di partenza di una comunità che crede che occorra
propagare il messaggio ricevuto dal Maestro.
Ma
Gesù ai discepoli aggiunge ancora dell’altro che potremmo tradurre
così:
“non
solo ciò che al momento non capite vi sarà reso comprensibile
proprio dall’intervento dello Spirito, ma questo Spirito è Colui
che supplirà pienamente alla mia assenza terrena e corporale, ma
rendendomi spiritualmente presente in mezzo a voi. Ecco perché voi
mi vedrete e gli altri no!”
Non
solo! Gesù non si limitò solo ad una promessa, Egli diede anche
delle indicazioni precise: osservare i suoi insegnamenti, prendere in
considerazione che senza l’osservanza della sua predicazione,
sarebbe impossibile vivere l’esperienza fondante e fondamentale
della relazione con il Padre (e con Lui stesso). Esperienza
certamente personale ma che si concretizza nella relazione
comunitaria dove la pace lasciata da Cristo prende consistenza e vede
la sua applicazione pratica.
Osservare
i suoi insegnamenti, equivaleva ad osservare i suoi comandamenti ma
di fatto si trattava e si tratta di un solo comandamento, che
racchiude qualunque altro: il comandamento dell’amore.
I
discepoli continuarono, in quel momento, a non comprendere il suo
messaggio; esso non fu chiaro per loro nemmeno dopo la sua
resurrezione, iniziò ad apparire più comprensibile dopo la sua
apparizione come Risorto, fu completo con la Pentecoste e la
prospettiva che si schiudeva d’innanzi, fu palese subito dopo.
A
quel punto, sapevano cosa fare, sapevano come fare, sapevano dove
andare, sapevano cosa dire.
Il
mistero fu sciolto definitivamente.
A
quel punto era chiaro e sempre più chiaro sarebbe stato nel futuro:
convincere gli esseri umani di questa bella notizia, di questa
possibilità, di questa necessità.
E
per noi oggi? Forse non ci è poi sempre così chiaro, spesso
perdiamo l’orientamento e abbiamo bisogno di qualche momento di
riflessione.
Ma
ci accompagna la promessa ed insieme la certezza che il Signore è
con noi, cammina con noi, ci supporta nelle nostre ansie, nelle
nostre preoccupazioni, nei nostri quesiti, nei nostri dubbi, che Lui
è lì, c’è, ci indica una strada, ci chiama di continuo, ci
incita, ci ama incondizionatamente e chiede solo in cambio, la
relazione, la nostra apertura.
Un
messaggio dunque, è alla base di questa prospettiva, un messaggio da
diffondere, ma soprattutto un messaggio da vivere: l’amore.
Quello
di Dio per ciascuno e ciascuna di noi e il nostro, verso gli altri,
all’interno di una dinamica relazionale.
Non
è banale né banalizzabile come messaggio; certo si potrebbe dire
che lo sanno anche i muri che bisogna amare, in fondo non è una
scoperta.
Ma
in realtà dietro questa parola che indica un sentimento, ci sono
diverse emozioni, diverse manifestazioni, diversi modi di vivere
questa sfera affettiva.
L’apertura
che il libro degli Atti ci racconta, è un’apertura verso un mondo
estraneo, che parla lingue differenti, che è portatore di culture
differenti, modi di fare differenti, è di fatto, l’indicazione
chiara che lo Spirito dà.
Il
giorno di Pentecoste dunque è un’esperienza vera di vicinanza a
Dio, e di Dio; una relazione che spezza ogni legame, ogni barriera,
ogni muro, ogni recinzione di filo spinato (come ultimamente se ne
vedono alle frontiere degli stati), e stabilisce l’apertura quale
esperienza concreta di fede e liberazione.
L’esperienza
della Pentecoste non è un mero rapporto teorico e nemmeno un
espediente mnemonico, lo sterile ricordo di un avvenimento.
Relazione
con Dio, relazione con il prossimo, apertura e condivisione.
Il
Signore ci ha chiamati a vivere quest’esperienza pienamente per
mezzo dello Spirito, e a viverla con gioia.
E
allora avendo noi, questa convinzione di fede, auguro a tutte e tutti
una felice, buona e gioiosa Pentecoste.
Amen
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