sabato 28 marzo 2020

Predicazione su Giobbe 19,19-27 - domenica 29 marzo 2020, quinta domenica del tempo di Passione, a cura di Marco Gisola

Non potendo celebrare il culto domenicale, a causa dei provvedimenti presi dal governo per limitare la diffusione del Coronavirus, pubblichiamo la predicazione sul testo di domani, domenica 29 marzo

Giobbe 19,19-27

19 Tutti gli amici più stretti mi hanno in orrore, quelli che amavo si sono rivoltati contro di me.
20 Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle e alla mia carne, non m’è rimasta che la pelle dei denti.
21 Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito.
22 Perché perseguitarmi come fa Dio? Perché non siete mai sazi della mia carne?
23 «Oh, se le mie parole fossero scritte! Se fossero impresse in un libro!
24 Se con lo scalpello di ferro e con il piombo fossero incise nella roccia per sempre!
25 Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli d’un altro; il cuore, dal desiderio, mi si consuma!


In questa quinta domenica del tempo di passione, mentre ci stiamo avvicinando al momento in cui la passione di Gesù avrà inizio e Gesù toccherà il fondo della sua vita umana, ci viene proposto un testo tratto dal libro di Giobbe, il personaggio biblico che più di ogni altro ha davvero toccato il fondo della sua esistenza.
Giobbe ha toccato il fondo non solo in quanto a disgrazie (ha perso beni, familiari, affetti e anche la salute: ha perso letteralmente tutto), ma perché tutto e tutti gli sono contro, anche i cosiddetti amici.
Ma non solo: come se non bastasse, persino Dio gli è contro, persino Dio è un suo nemico e vuole il suo male. Così dice Giobbe poco prima del brano che abbiamo letto:
«Sappiatelo: chi m’ha fatto torto e m’ha avvolto nella sua rete è Dio […] Dio mi ha sbarrato la via e non posso passare, ha coperto di tenebre il mio cammino […] Ha acceso la sua ira contro di me, mi ha considerato come suo nemico» (19,6.8.11).
Per un credente, è la peggior cosa che possa capitargli: arrivare a pensare che colui in cui ha sempre riposto fiducia, che ha sempre considerato un rifugio, è ora un nemico, non è più a suo favore ma contro di lui.
Sappiamo che Giobbe non è l’unico ad essere arrivato a pensare questo, lo ha fatto anche il salmista che ha pregato con le parole del Salmo 22: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato...” e lo ha fatto Gesù, che ha ripetuto quelle stesse parole del salmo mentre era sulla croce.
Davvero un terribile lamento quello che Giobbe esprime qui con disperazione, ma anche con rabbia, rabbia verso i nemici che non lo capiscono e cercano anzi di dimostragli che è tutta colpa sua, e rabbia contro Dio che gli ha inflitto tutte queste sofferenze.
E allora si rivolge di nuovo agli amici e implora la loro pietà; se non può avere la pietà di Dio almeno quella degli amici!: «Pietà, pietà di me, voi, amici miei, poiché la mano di Dio mi ha colpito» (19,21).
Giobbe vorrebbe che questo suo grido con cui implora pietà venisse scritto per essere ricordato; vorrebbe che le sue parole di lamento e di protesta «fossero incise con lo scalpello di ferro e con il piombo nella roccia per sempre!» (19,24).
Siamo davvero al punto più basso, Giobbe ha davvero toccato il fondo. Dio è contro di lui, gli amici non lo capiscono… Gli amici sono lì, ma Giobbe non si è mai sentito così solo. Non c’è davvero più futuro, non c’è più comunione, non c’è più speranza….
Ma…!
C’è un “ma” nel testo che abbiamo letto e c’è un “ma” anche nel cuore di Giobbe. Nel bel mezzo della disperazione, dell’angoscia, della solitudine, a cui nessun grido pone rimedio, nasce un “MA”:
«Ma io so che il mio Redentore vive».
Nel bel mezzo di questa realtà terribile, quel “Ma” fa scorgere un altra realtà, una realtà diversa, che dice che la realtà non è tutta e non è solo quella che Giobbe sta vivendo.
Quel “Ma” di Giobbe è la parolina che apre alla speranza, che dice che la speranza non è morta.
Il teologo cattolico Luigino Bruni, commentando questo brano, ha scritto queste parole:
Una speranza che arriva come un arcobaleno mentre ancora infuria la tempesta. Le speranze vere arrivano sempre così: non sono frutto delle nostre virtù né del merito, ma tutto e solo grazia, charis, dono. E quindi ci sorprendono sempre, lasciandoci senza fiato” (quotidiano Avvenire, 25 aprile 2015).
La tempesta infuria ma Giobbe intravvede l’arcobaleno: «Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere». Ecco la speranza che è dono, è grazia: No, Dio non può essere il nemico, alla fine si rivelerà per quello che è, ovvero il redentore. Anzi il mio redentore, dice Giobbe.
Il redentore indica nell’Antico Testamento una persona che ha un ruolo ben preciso, è colui che ha il dovere di riscattare un parente in difficoltà. Il riscatto può essere di una proprietà del parente caduto in disgrazia (per esempio della terra che ha dovuto vendere perché non era in grado di pagare i debiti), oppure della persona stessa, nel caso abbia dovuto, sempre in seguito a una disgrazia, vendersi come schiavo al proprio creditore. In questo caso il riscatto è una vera e propria liberazione dalla situazione di servitù.
Questo termine è poi stato utilizzato per indicare Dio stesso, che è così descritto come il redentore del suo popolo Israele, che ha liberato dalla schiavitù d’Egitto.
Giobbe ritrova la speranza nel redentore, nel suo redentore, che si alza sulla polvere nella quale Giobbe si trova, perché è proprio a terra e non ha nemmeno più la forza di rialzarsi.
C’è un grosso dibattito sul significato delle parole che seguono «E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio» (19,26), se esse si riferiscano a una speranza nella resurrezione oppure se Giobbe speri che questo accada ancora nel corso della sua vita e speri in ciò che poi la conclusione del libro ci racconterà, ovvero in una sua riabilitazione non solo nella salute, negli affetti e nei beni, ma anche davanti a Dio, che darà ragione a lui e non ai suoi amici che si erano auto-eletti “difensori di Dio..”.
Ma per concludere vorrei fermarmi ancora su questa affermazione di Giobbe: «io so che il mio redentore vive…»
«Io so...»; proprio in queste settimane di epidemia del Coronavirus siamo stati messi a duro confronto con ciò che non sappiamo. Quante volte abbiamo detto o abbiamo sentito dire, anche da medici ed esperti, che non si sa quando finirà l’epidemia, non si conosce ancora una cura, non si sa esattamente da dove questo virus arrivi…
La nostra conoscenza per certi versi è meravigliosa (e del resto è anch’essa un dono di Dio…), ma non è onnipotente e non è onnisciente, ovvero non sappiamo tutto. In teoria siamo ben consapevoli del fatto che non conosciamo tutto, che anzi sono molte le cose che non conosciamo; anche in campo medico, pensiamo alla instancabile ricerca sul cancro, che da un lato fa grandi passi avanti, mentre d’altro lato molte persone ancora ne muoiono.
Ma – dobbiamo ammetterlo - a un’epidemia, che ha colpito e sta colpendo quasi tutto il mondo e con una notevole velocità, non eravamo preparati. E dunque in questo caso la nostra non conoscenza è evidente, a partire dal fatto che – noi che vorremmo prevedere sempre tutto – non abbiamo saputo prevederla, fino ad arrivare soprattutto al fatto che non sappiamo (ancora) curarla. Medici e scienziati ce la stanno mettendo tutta, ma al momento non hanno ancora trovato una cura.
Non intendo paragonare la nostra situazione a quella di Giobbe, le storie sono troppo diverse, ma forse possiamo dire che una cosa che le accomuna è la domanda “perché?”, è – appunto - il non sapere perché certe cose accadano.
Giobbe non si spiega perché sia stato gettato così in basso, lui non trova delle ragioni e le spiegazioni che gli danno gli amici non gli bastano; Giobbe non sa. Eppure in questo versetto c’è una svolta, perché Giobbe afferma che una cosa la sa: che il suo redentore vive e agirà.
In mezzo a tutte le incertezze, una certezza Giobbe ce l’ha; nel profondo della disperazione, una speranza la trova; nella confusione delle domande, dei tentativi di trovare risposte, del rifiuto delle risposte (sbagliate) degli amici, una cosa chiara Giobbe nella sua mente e nel suo cuore ce l’ha; nel buio più totale, una luce la vede: Giobbe sa che il suo redentore vive.
Vive” non vuol dire semplicemente che esiste (il pensiero ebraico non è astratto, ma molto concreto), ma che agisce, interviene, che libererà Giobbe dalla polvere in cui si trova, che agirà da redentore, da liberatore.
Questa affermazione è tanto più profonda e più significativa proprio perché non viene pronunciata da un uomo a cui va tutto bene, ma da un uomo a cui va tutto male, malissimo, che ha – appunto – toccato il fondo.
È una parola che ci viene donata perché anche noi la facciamo nostra e la pronunciamo quando va tutto male. Una parola per i momenti in cui noi tocchiamo il fondo, in cui siamo vicini alla disperazione o ci siamo già caduti dentro, in cui tutto appare buio e non sembra esserci alcuna luce.
È una parola – per usare un’immagine che si rifà alla storia della passione di Gesù – da Venerdì santo, una parola da momenti estremi, da momenti ultimi. E se le parole di Giobbe che abbiamo citato prima vanno in parallelo con il salmo pregato da Gesù sulla croce – “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27,46) - questa affermazione (potremmo dire: questa confessione di fede) di Giobbe va in parallelo con quell’altra affermazione che secondo l’Evangelo di Luca Gesù pronuncia sulla croce un attimo prima di morire: «Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio» (Luca 23,46).
Una confessione di fede che nasce dall’abisso dell’esistenza. Questo sono queste parole di Giobbe, come quelle di Gesù sulla croce (almeno secondo Luca.
Una parola che ci raggiunge nel nostro abisso, nel momento in cui noi tocchiamo il fondo e ci sollevano lo sguardo verso una realtà altra, diversa, ma altrettanto reale dell’angoscia e del dolore.
A Giobbe è stato dato di riuscire a pronunciare questa parola, che è davvero, come tutto il suo libro, rimasta scritta (anche se non nella roccia, ma ci è arrivata lo stesso…) per sempre, per noi.
Ci dia il Signore di poterla pronunciare anche noi, quando ci capiterà di toccare il fondo e precipitare nell’abisso: una cosa la so, una sola, ma mi basta: che il mio redentore vive e che alla fine si alzerà sulla polvere e solleverà anche me dall’abisso.
Questa unica, sola cosa che so è quella che fa sì che possa rinascere la speranza.

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