sabato 30 maggio 2020

Predicazione della domenica di Pentecoste (31 maggio 2020) su Atti 2 a cura di Marco Gisola

Atti 2,1-13
1 Quando il giorno della Pentecoste giunse, tutti erano insieme nello stesso luogo. 2 Improvvisamente si fece dal cielo un suono come di vento impetuoso che soffia, e riempì tutta la casa dov'essi erano seduti. 3 Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro. 4 Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi.
5 Or a Gerusalemme soggiornavano dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 Quando avvenne quel suono, la folla si raccolse e fu confusa, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7 E tutti stupivano e si meravigliavano, dicendo: «Tutti questi che parlano non sono Galilei? 8 Come mai li udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natìa? 9 Noi Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, 10 della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia cirenaica e pellegrini romani, 11 tanto Giudei che proseliti, Cretesi e Arabi, li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue». 12 Tutti stupivano ed erano perplessi chiedendosi l'uno all'altro: «Che cosa significa questo?» 13 Ma altri li deridevano e dicevano: «Sono pieni di vino dolce».


1. Pentecoste è il racconto di un miracolo, miracolo inteso come intervento di Dio; in questo caso si tratta del dono dello Spirito Santo, che cambia le cose, che trasforma la realtà. Il miracolo, come sempre sono i miracoli, è un dono: lo Spirito scende sui discepoli perché è donato ai discepoli, è un dono, un dono promesso, perché Gesù lo aveva detto, un dono forse atteso, ma pur sempre un dono e un miracolo, ovvero qualcosa che non sta nelle mani e nelle forze degli esseri umani.
Qual è il miracolo che accade a Pentecoste? Il racconto non è così chiaro: sono i discepoli che parlano in altre lingue o gli ascoltatori che li sentono parlare nelle loro lingue natìe? Detto altrimenti: sono i discepoli che “imparano” improvvisamente tutte le lingue delle popolazioni elencate in questi versetti oppure sono queste persone che sentono la loro lingua indipendentemente da come si esprimano i discepoli?
Forse il racconto è volutamente ambiguo, affinché non siamo tentati di “classificare” o “sistematizzare” il miracolo che accade, o forse il miracolo ne comprende due, ovvero riguarda sia il parlare, sia l’ascoltare. O forse il miracolo è nel suo risultato: chi parla viene capito da chi ascolta, o detto altrimenti chi ascolta comprende chi parla; insomma il miracolo è la comunicazione riuscita, il miracolo è capirsi. E ce ne rendiamo ben conto, vedendo quanta fatica facciamo a capirci anche quando parliamo la stessa lingua…!
Lo Spirito agisce dunque sia in chi parla sia in chi ascolta, è un dono che Dio ci fa per aiutarci a parlare e per aiutarci ad ascoltare. Possiamo metterci tutto il nostro impegno a costruire un discorso il più possibile chiaro, possiamo fare il massimo sforzo per concentrarci nell’ascolto, ma il miracolo della comunicazione dell’evangelo avviene soltanto grazie al dono dello Spirito.
E la “comunicazione” non consiste, appunto, soltanto nel capire la lingua che l’altro parla, non consiste soltanto nel comprendere le parole, ma nel riconoscere che quelle parole sono lo strumento che Dio ha scelto per farci giungere l’evangelo. Riconoscere l’evangelo nelle parole umane (in questo caso di Pietro) è il miracolo della Pentecoste; molti di coloro che ascoltano il lungo discorso di Pietro «furono compunti nel cuore, e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Fratelli, che dobbiamo fare?» (2,37). E alla fine «quelli che accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone» (2,41). Lo Spirito trasforma le parole (umane) in Parola (di Dio), in evangelo, buona notizia che tocca i cuori e converte. Questo è il miracolo/dono della Pentecoste.

2. Un aspetto importante di questo racconto è la pluralità di coloro che ricevono e riconoscono l’evangelo: «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua». Esseri umani tutti diversi tra loro ascoltano l’evangelo “ciascuno nella propria lingua”. “Ciascuno”: Parti, Medi, Elamiti… e esseri umani di molti altri popoli. La provenienza geografica e culturale ci dice che i primi destinatari della prima predicazione degli apostoli sono, già allora, persone tutte diverse tra loro. La diversità degli ascoltatori dell’evangelo è un dato di fatto già il giorno stesso della Pentecoste e lo sarà sempre di più col procedere dell’evangelizzazione. Coloro che ascoltano la predicazione di Pietro a Pentecoste sono tutti ebrei o proseliti, cioè simpatizzanti della fede ebraica. Più avanti l’annuncio dell’evangelo arriverà anche ai pagani.
Questa diversità e questa pluralità è dunque costitutiva della primissima comunità cristiana. Questa diversità intrinseca alla prima comunità, che qui è descritta come diversità linguistica, geografica e culturale, non è forse il segno del fatto che la comunità cristiana tout-court è in sé diversa e plurale? Non solo "Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia...”. Non solo – poco più tardi – ebrei e pagani. Ma anche uomini e donne, schiavi e liberi (vedi Galati 3,28), e poi giovani e anziani, persone con più o meno istruzione, persone del nord e del sud del mondo, persone etero e persone omosessuali, e così via…
La diversità degli ascoltatori della prima predicazione degli apostoli non contiene forse in sé tutte le diversità umane esistenti? Le differenze umane – ci dice questo racconto - non sono un ostacolo al ricevere il dono dall’evangelo, perché «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua». Ciascuno, cioè tutti e tutte, uno per uno, una per una. Nessuno e nessuna esclusa. Forse proprio la parola di Paolo che ho citato poco fa è uno dei più bei commenti all’evento della Pentecoste: «Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28). Tante persone e tanto diverse le une dalle altre, ma “uno” (unite) in Cristo Gesù, oppure “uno” (unite) nello Spirito Santo, che è la presenza di Gesù dopo la sua salita al Padre e che suscita in noi la fede in Gesù Cristo.
La diversità non è un ostacolo all’evangelo; questo è sempre stato difficile da accettare anche e proprio da chi ha creduto in Cristo. Per motivi storici, politici e culturali (soprattutto il fatto che nel terzo secolo l’impero romano diventa cristiano e il cristianesimo diventa imperiale) il cristianesimo ha sempre cercato piuttosto l’uniformità e mal tollerato – e spesso combattuto! - la pluralità. A Pentecoste invece – cioè all’inizio della storia della chiesa! - la pluralità è una realtà che va insieme all’unità. A unire è l’annuncio del Cristo morto e risorto per tutti; tutto il resto passa in secondo piano. Questo annuncio è uguale per tutti e unisce tutti nella fiducia in Gesù e nella chiamata al discepolato.
Le rotture nella chiesa sono quasi sempre avvenute perché si intendeva in modo diverso che cosa sia l’evangelo, in che cosa consista e che conseguenze abbia nella dottrina e nella prassi della chiesa. È stato così per le cosiddette “eresie” dei primi secoli, è stato così per la Riforma protestante: pur partendo dallo stesso evangelo (sintetizzato dottrinalmente nei Credo Apostolico e Niceno) si sono tratte conseguenze molto diverse che hanno impedito la comunione. Per cercare l’unità nella diversità - e senza annullare o cancellare le diversità - l’unica strada è rimettersi costantemente all’ascolto di quell’evangelo che è e rimane uno: Gesù crocifisso e risorto per noi, Signore e Dio, che Pietro annuncia nella sua predicazione di Pentecoste.

3. L’evangelo non cancella le diversità e nemmeno le individualità: E «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua», ovvero l’evangelo è per ciascuno di loro, ha da dire qualcosa a ciascuno di loro non solo nella sua propria lingua, ma nella sua propria realtà, nella sua propria situazione, nella sua propria storia. L’evangelo ha qualcosa da dire a tutti e a tutte, ha qualcosa da dire a me e a te, nella mia e nella tua situazione, in ciò che sto e stai vivendo adesso.
Levangelo non è una parola astratta e teorica, ma una parola concreta, che ti raggiunge nella tua esistenza e la vuole trasformare. Molti di coloro che ascoltarono la predicazione di Pietro furono «compunti nel cuore» (v. 37). Il cuore - è bene ricordarlo - nella cultura ebraica non è, come nella nostra, la sede dei sentimenti, ma la sede delle decisioni. Coloro che ascoltano Pietro non sono “commossi” o “emozionati” (forse anche, ma non è questo ciò che il testo vuol dire…), ma sono convinti e portati a prendere una decisione, sono convertiti, cioè portati ad affidarsi alla parola ricevuta e a confidare in questo Gesù che è stato loro annunciato.
Pentecoste non è dunque un evento spettacolare (benché ci sia descritto anche così), ma è il miracolo e il dono dell’annuncio dell’evangelo ascoltato e riconosciuto, evangelo che converte, cioè trasforma. È dunque Pentecoste ogni volta che Gesù Cristo morto e risorto per noi viene annunciato con fragili parole umane, che lo Spirito trasforma in Parola di Dio e porta chi l’ascolta a riconoscervi l’evangelo, la buona notizia che trasforma la nostra esistenza donandole gioia e speranza.




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