Care amiche, cari amici,
Sono sempre intervenuto, da dieci anni a questa parte, ogni qualvolta è sopraggiunta la giornata dedicata a Margherita e fra Dolcino perchè sono convinto si festeggino la libertà ed il diritto dell’uomo a rivendicarla, in ogni istante della vita.
Partecipo, anche se rinchiuso nelle patrie galere (questo anno da ancora più lontano!), poichè sono convinto che differenze di pensiero, così come le diverse convinzioni religiose ed etiche, non possono nè devono rappresentare un fossato invalicabile od un un muro divisorio (tanti ce ne sono, troppo pochi sono abbattuti!).
Alle distanze apparentemente incolmabili, di cui non si può negare l’esistenza, dobbiamo opporre la costruzione di “ponti”, equilibrati nella loro strutturazione ma determinati nel voler colmare il vuoto di conoscenza e comunicazione reale.
Il terreno del confronto deve esser tenuto aperto sia perchè esiste una impellente necessità di definire spazi condivisi di intervento opponibili ad una strategia repressiva sempre più marcata, manifesta e dominante, sia perchè le Verità che la Storia ci regala non sono mai assolute (le pretese sono altra cosa!) e la modalità con cui si affrontano le questioni importanti appaiono, è del tutto evidente, molto più che fallibili, possiamo dire fallimentari e tragiche nei loro effetti.
Tra le materie irrisolte il carcere e le connesse problematiche certamente compaiono e, sebbene in molti ritengano necessaria una rielaborazione del concetto stesso di “pena” ed un coraggioso ripensamento della “istituzione carceraria” poichè la sanzione punitiva, nella sua specifica innegabile “materialità”, non è automaticamente in simbiosi con la Giustizia, oggi mi “accontenterei” di veder concretamente prevista l’idea che includa tra i diritti fondamentali la “cittadinanza”, diritto (forse) mai come adesso accantonato e denigrato.
Chiudersi a riccio intorno ad interessi particolari è più facile che recuperare la fiducia esercitando pure la propria curiosità verso le ragioni degli altri, verso gli esempi positivi e le istanze innovative, eppure laddove si è investito sulle alternative i risultati sono stati senz’altro positivi e si sono protratti nel tempo.
Rifiutare la “cittadinanza”, negare il diritto stesso al desiderio di ottenerla vuol dire disconoscere delle identità, delle vite, l’orgoglio e la memoria in esse racchiuse, vuol dire impedire la costruzione di legami sociali e, più propriamente, di comunità.
Il rifiuto della cittadinanza – sia che si parli del popolo dei bimbi, donne ed uomini che disperati e affamati sbarcano sulle coste dei Paesi industrializzati, sia che si tratti di quella negata ai tanti esclusi od espulsi dal ciclo del lavoro, sia essa quella manco ipotizzata per noi prigionieri con lunghe pene scontate e da scontare – lo si voglia o no è riduzione del Diritto nella disponibilità di qualsiasi altro uomo libero che già ne dispone poichè la cittadinanza non si limita al possesso di un passaporto od al diritto al voto, comunque elementi importanti che offrono responsabilità, nè equivale alla libertà quando si parla di noi detenuti e nemmeno determina insicurezza per la collettività.
La cittadinanza esprime innanzitutto il valore della “presenza” condivisa (e ritrovata), è la riconquista dell’idea stessa di “vita sociale”, è il bisogno di vivere la società condividendo i doveri, è comunicare senza essere sottomessi alla dimenticanza, è il senso dell’appartenenza perchè nelle risorse umane bloccate, respinte oppure non sollecitate nè aiutate nella integrazione/reintegrazione, c’è una grande potenzialità di sviluppo che la società civile può tramutare in valore aggiunto.
Per riconoscerla è sufficiente cogliere con onestà intellettuale e saggezza il senso profondo ed allegro (poichè da e prende fiducia!) delle tantissime esperienze socio-culturali affermatesi nel mondo del volontariato, delle cooperative, delle Fondazioni, dell’associazionismo di diverso “colore” e di differente credo religioso, delle imprese, ma anche delle scelte propositive di molte Istituzioni ed Enti locali e regionali che hanno saputo promuovere e sostenere istanze positive e ne propongono, con la volontà politica di non dispenderle, l’estensione sul territorio e nella stessa coscienza della società intera, compresa in quella dei diffidenti.
Noi sappiamo che l’esistenza naturale di legalità deve fondersi con la battaglia culturale avviata contro le paure costruite e contro le politiche che indeboliscono la convivenza e soffocano la speranza in un futuro migliore (non c’è nulla di retorico nel ricercarlo!). E’ questa una consonanza cui possiamo aspirare poichè, diversamente, ai vincoli sociali sarà sottratta la legittimazione esercitata dalle responsabilità e, insieme, dai diritti civili dei quali noi dobbiamo in ogni caso rivendicare il rispetto.
Il modello di società che ci viene proposto ci vuole assuefatti alla frenesia, ai rumori assordanti e monotoni, alla velocità, alla virtualità.
Noi all’opposto proponiamo senza negare o rinnegare il tempo dei cambiamenti, sguardi più lenti, voci meno unanimi, differenze vive ed appassionanti, un viaggiare cosciente, la difesa della natura e della accoglienza, una lettura della storia non vittima delle mode revisioniste o degli “accordi commerciali” ma forte nella sua capacità critica e propulsiva.
Chi scrive è uno che, per carattere e per condizione, il domani lo cerca, lo attende, lo sogna senza pausa alcuna. E’ il mio modo di dire “ci sono, sono lì con voi” ed è a partire dalla mia totale disponibilità a mettermi in gioco, per e con le ragioni imperdibili che mi sorreggono, che riaffermo la necessità del confronto, nello specifico carcerario l’urgenza di un “tavolo allargato” ove l’attuale impossibilità di salvaguardare con dignità, affettività e salute sia subito affrontata quale emergenza, vera ed inaccettabile.
A me stesso, agli altri ed al futuro propongo il piacere di emozionarsi.
Un grande abbraccio
Fabio Canavesi
Carinola, 7 settembre 2009
Sono sempre intervenuto, da dieci anni a questa parte, ogni qualvolta è sopraggiunta la giornata dedicata a Margherita e fra Dolcino perchè sono convinto si festeggino la libertà ed il diritto dell’uomo a rivendicarla, in ogni istante della vita.
Partecipo, anche se rinchiuso nelle patrie galere (questo anno da ancora più lontano!), poichè sono convinto che differenze di pensiero, così come le diverse convinzioni religiose ed etiche, non possono nè devono rappresentare un fossato invalicabile od un un muro divisorio (tanti ce ne sono, troppo pochi sono abbattuti!).
Alle distanze apparentemente incolmabili, di cui non si può negare l’esistenza, dobbiamo opporre la costruzione di “ponti”, equilibrati nella loro strutturazione ma determinati nel voler colmare il vuoto di conoscenza e comunicazione reale.
Il terreno del confronto deve esser tenuto aperto sia perchè esiste una impellente necessità di definire spazi condivisi di intervento opponibili ad una strategia repressiva sempre più marcata, manifesta e dominante, sia perchè le Verità che la Storia ci regala non sono mai assolute (le pretese sono altra cosa!) e la modalità con cui si affrontano le questioni importanti appaiono, è del tutto evidente, molto più che fallibili, possiamo dire fallimentari e tragiche nei loro effetti.
Tra le materie irrisolte il carcere e le connesse problematiche certamente compaiono e, sebbene in molti ritengano necessaria una rielaborazione del concetto stesso di “pena” ed un coraggioso ripensamento della “istituzione carceraria” poichè la sanzione punitiva, nella sua specifica innegabile “materialità”, non è automaticamente in simbiosi con la Giustizia, oggi mi “accontenterei” di veder concretamente prevista l’idea che includa tra i diritti fondamentali la “cittadinanza”, diritto (forse) mai come adesso accantonato e denigrato.
Chiudersi a riccio intorno ad interessi particolari è più facile che recuperare la fiducia esercitando pure la propria curiosità verso le ragioni degli altri, verso gli esempi positivi e le istanze innovative, eppure laddove si è investito sulle alternative i risultati sono stati senz’altro positivi e si sono protratti nel tempo.
Rifiutare la “cittadinanza”, negare il diritto stesso al desiderio di ottenerla vuol dire disconoscere delle identità, delle vite, l’orgoglio e la memoria in esse racchiuse, vuol dire impedire la costruzione di legami sociali e, più propriamente, di comunità.
Il rifiuto della cittadinanza – sia che si parli del popolo dei bimbi, donne ed uomini che disperati e affamati sbarcano sulle coste dei Paesi industrializzati, sia che si tratti di quella negata ai tanti esclusi od espulsi dal ciclo del lavoro, sia essa quella manco ipotizzata per noi prigionieri con lunghe pene scontate e da scontare – lo si voglia o no è riduzione del Diritto nella disponibilità di qualsiasi altro uomo libero che già ne dispone poichè la cittadinanza non si limita al possesso di un passaporto od al diritto al voto, comunque elementi importanti che offrono responsabilità, nè equivale alla libertà quando si parla di noi detenuti e nemmeno determina insicurezza per la collettività.
La cittadinanza esprime innanzitutto il valore della “presenza” condivisa (e ritrovata), è la riconquista dell’idea stessa di “vita sociale”, è il bisogno di vivere la società condividendo i doveri, è comunicare senza essere sottomessi alla dimenticanza, è il senso dell’appartenenza perchè nelle risorse umane bloccate, respinte oppure non sollecitate nè aiutate nella integrazione/reintegrazione, c’è una grande potenzialità di sviluppo che la società civile può tramutare in valore aggiunto.
Per riconoscerla è sufficiente cogliere con onestà intellettuale e saggezza il senso profondo ed allegro (poichè da e prende fiducia!) delle tantissime esperienze socio-culturali affermatesi nel mondo del volontariato, delle cooperative, delle Fondazioni, dell’associazionismo di diverso “colore” e di differente credo religioso, delle imprese, ma anche delle scelte propositive di molte Istituzioni ed Enti locali e regionali che hanno saputo promuovere e sostenere istanze positive e ne propongono, con la volontà politica di non dispenderle, l’estensione sul territorio e nella stessa coscienza della società intera, compresa in quella dei diffidenti.
Noi sappiamo che l’esistenza naturale di legalità deve fondersi con la battaglia culturale avviata contro le paure costruite e contro le politiche che indeboliscono la convivenza e soffocano la speranza in un futuro migliore (non c’è nulla di retorico nel ricercarlo!). E’ questa una consonanza cui possiamo aspirare poichè, diversamente, ai vincoli sociali sarà sottratta la legittimazione esercitata dalle responsabilità e, insieme, dai diritti civili dei quali noi dobbiamo in ogni caso rivendicare il rispetto.
Il modello di società che ci viene proposto ci vuole assuefatti alla frenesia, ai rumori assordanti e monotoni, alla velocità, alla virtualità.
Noi all’opposto proponiamo senza negare o rinnegare il tempo dei cambiamenti, sguardi più lenti, voci meno unanimi, differenze vive ed appassionanti, un viaggiare cosciente, la difesa della natura e della accoglienza, una lettura della storia non vittima delle mode revisioniste o degli “accordi commerciali” ma forte nella sua capacità critica e propulsiva.
Chi scrive è uno che, per carattere e per condizione, il domani lo cerca, lo attende, lo sogna senza pausa alcuna. E’ il mio modo di dire “ci sono, sono lì con voi” ed è a partire dalla mia totale disponibilità a mettermi in gioco, per e con le ragioni imperdibili che mi sorreggono, che riaffermo la necessità del confronto, nello specifico carcerario l’urgenza di un “tavolo allargato” ove l’attuale impossibilità di salvaguardare con dignità, affettività e salute sia subito affrontata quale emergenza, vera ed inaccettabile.
A me stesso, agli altri ed al futuro propongo il piacere di emozionarsi.
Un grande abbraccio
Fabio Canavesi
Carinola, 7 settembre 2009
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