24
maggio 2020 – Ascensione di Gesù
Giovanni
17,20-26
20
Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me
per mezzo della loro parola: 21 che siano tutti uno;
e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in
noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. 22
Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno
come noi siamo uno; 23 io in loro e tu in me;
affinché siano perfetti nell’unità, e affinché il mondo conosca
che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me. 24
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu
mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data;
poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo. 25
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto;
e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 26
e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere,
affinché l’amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in
loro».
Questa
domenica ricordiamo l’ascensione di Gesù al cielo, la sua “salita”
al padre. Gesù è asceso al cielo “proprio per essere più vicino
a tutti noi, per essere e per venire più vicino a noi. Per essere
invocato da tutti gli angoli della terra, in tutte le lingue della
terra” come ha scritto il pastore Emanuele Fiume sul settimanale
Riforma della settimana
scorsa.
Il
nostro lezionario ci propone per ricordare l’ascensione di Gesù un
brano della lunga preghiera di Gesù del cap. 17 del vangelo di
Giovanni. Una preghiera che si trova tra il discorso di addio di Gesù
(iniziato con la lavanda dei piedi del cap. 13) e la sua passione che
inizia subito dopo. Gesù in questo discorso parla della sua
“glorificazione” che è il tipico termine usato da Giovanni per
indicare la crocifissione-resurrezione-ascensione di Gesù, come
fossero un unico evento.
L’ascensione
non è una ricorrenza molto sentita, eppure è la conclusione e
l’esito della venuta di Gesù nel mondo, dell’incarnazione della
Parola di Dio. Gesù torna da dove è venuto, torna al Padre che lo
ha mandato, e questo significa che il suo compito in mezzo a noi non
solo è terminato, ma è compiuto, portato a termine. Ma non solo:
Gesù non è solo andato al Padre, e quindi andato via da noi; Gesù
siede alla destra del Padre, non è scomparso, c’è, è lì,
il risorto è il glorificato, veglia su di noi, insieme al padre e in
unità con lui. E prega per noi. Infatti, nella sua preghiera del
cap. 17 sembra proprio che da un lato parli il Gesù che deve ancora
andare verso la croce, ma dall’altro egli sembra essere già con il
Padre; chi parla è il Gesù uomo che deve ancora affrontare la
passione e allo stesso tempo il Gesù glorificato che sa di essere
tutt’uno con il Padre.
1)
la prima riflessione che possiamo fare è proprio questa: Gesù
prega per noi. È una cosa bellissima, è un dono che egli ci fa
e che secondo l’apostolo Paolo Gesù continua a fare proprio dopo
la sua ascensione, essendo alla destra del Padre: «Cristo
Gesù è colui che è morto e, ancor più, è risuscitato, è alla
destra di Dio e anche intercede per noi»
(Rom. 8,34). Gesù intercede per noi.
Nel
brano che abbiamo letto prega proprio per noi, non cioè per i
dodici, per i discepoli che lui ha chiamato e lui stesso ha istruito
(per loro ha pregato
nella prima parte della preghiera),
ma per «quelli che
credono in me per mezzo della loro parola», ovvero per quelli che
credono grazie alla predicazione degli apostoli e poi grazie
alla predicazione di coloro che sono venuti dopo, di generazione
in
generazione. Qualcuno
li ha definiti “discepoli di seconda
mano”, perché non hanno ascoltato la Parola direttamente
dalla bocca
di Gesù. Noi tutti siamo “discepoli di seconda
mano” perché dopo la sua ascensione
non possono esserci che “discepoli di seconda
mano”. Gesù prega per
i discepoli che verranno e questa è una cosa bellissima, per questo
possiamo ritenerci compresi nella sua preghiera. Prega anche per chi
ancora non c’è e ancora non lo ha conosciuto.
2)
E
come si diventa discepoli? I discepoli che verranno «credono in me
per mezzo della loro parola», cioè
della parola degli apostoli. Noi forse lo diamo per scontato ma non
lo era affatto: si può credere non solo ascoltando le parole di
Gesù, che escono dalla sua bocca, ma anche ascoltando le parole su
Gesù pronunciate da fragili e contraddittorie bocche umane.
Questo
è il miracolo che avviene per opera
dello Spirito Santo, che giungerà a Pentecoste. Non si crede certo
grazie alle parole più o meno belle
o più o
meno chiare di un predicatore o di una predicatrice, di un o di una
testimone. Non è il predicatore/la predicatrice,
non è il/la testimone che porta alla fede, ma è
colui
che è
predicato, colui
che è
testimoniato, cioè Gesù Cristo. È lo Spirito che dalla
predicazione
e dalla testimonianza
umane
sa
trarre fuori il Signore predicato, il redentore testimoniato.
La
fede - lo ha detto anche Paolo – nasce dalla Parola ascoltata.
E, ripeto: che Dio, attraverso il suo Spirito, si serva della parola
umana per far giungere la sua Parola non era affatto scontato, ma
è
anch’esso un dono della grazia.
3)
Per che cosa prega
Gesù? Prega per i suoi discepoli e per i discepoli che verranno ma
in modo particolare per la loro unità.
Questa
preghiera di Gesù è diventata – a ragione - uno dei fondamenti
biblici del movimento
ecumenico. Gesù vuole l’unità dei suoi discepoli e delle sue
discepole, prega per essa. Gesù non conosceva la divisione che ci
sarebbe stata tra le chiese
(possiamo chiederci se se l’aspettava o se l’immaginava….), ma
conosceva bene la divisione che corre tra gli esseri umani e i gruppi
di esseri umani (Paolo, per
esempio, conosce
bene le divisioni che ci sono all’interno della chiesa di Corinto…
1 Cor. 1,10ss.).
Per questo Gesù ha ben motivo di pregare per l’unità dei suoi
discepoli e delle sue discepole.
Ma
per quale unità prega? Non
per una unità istituzionale:
nulla è più lontano dal vangelo di Giovanni, o dal Gesù che
Giovanni ci racconta, dell’istituzione. E nemmeno per una unità
sentimentale.
Il
modello di unità a cui Gesù pensa è nientemeno che l’unità tra
lui e il Padre: «affinché
siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; affinché siano
perfetti nell’unità», dice Gesù. Parole non facili da
capire.
Giovanni
usa qui l’espressione
“essere in” come
l’ha usata anche prima:
«che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te,
anch’essi siano in noi». L’unità
dei cristiani discende e deriva dall’unità di Cristo col Padre e
accade quando Gesù è
nei
cristiani e i cristiani sono
in Gesù.
Qualunque sia il significato
preciso
di queste parole di Gesù, è chiaro che l’unità dei cristiani è
in Cristo. Coloro che sono in Cristo e Cristo in loro sono anche
uniti fra loro.
Certo
sono parole non facili da trasformare in dottrina o in prassi. Anzi
forse è impossibile trasformarle in dottrina o in prassi e forse è
molto
meglio
così: l’unità per cui Gesù prega non è dottrinale, non è
pratica, non è istituzionale
e non è sentimentale. È cristiana, nel senso che ha il suo
fondamento
e la sua ragion
d’essere
in Cristo. E basta. Non siamo noi ad unirci tra noi, ma è lui ad
unirci a lui e, di
conseguenza (ma solo di
conseguenza!),
tra di noi. La nostra è un’unità che
deriva dall’azione di grazia di Dio e non dai nostri sforzi o dalle
nostre buone intenzioni
(che
ovviamente non sono negativi,
ma non sono determinanti).
4)
L’unità tra i discepoli/e per cui Gesù prega non è fine a se
stessa. L’unità dei discepoli/e ha uno scopo: «affinché il mondo
creda che tu mi hai mandato» (v. 21). Al v. 23 Gesù dice la stessa
cosa (solo che usa il verbo «conoscere»
anziché credere) e fa un’aggiunta interessante: «… affinché
il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato
me».
Il
mondo – cioè tutti coloro che non credono – deve
venire a sapere due cose: 1) che Dio ha mandato Gesù nel mondo come
suo figlio redentore; e 2) che Dio ama coloro
che si affidano a lui. I discepoli/e di Gesù sono quindi chiamati a
testimoniare attraverso la loro
unità il Figlio di Dio e l’amore di Dio. Potremmo anche dire:
l’amore che Dio ha rivelato mandando suo figlio. La rivelazione che
l’unità dei discepoli/e testimonia è la rivelazione dell’amore
di Dio nel figlio e
attraverso il figlio.
La prima cosa quindi che siamo chiamati a testimoniare è il fatto di
essere amati, è l’amore di Dio per noi. Prima dell’amore che
riusciamo (o non riusciamo) a dare, siamo chiamati a essere testimoni
dell’amore che abbiamo ricevuto. La prima caratteristica del nostro
essere cristiani sta nell’essere amati. Tutto il resto nasce da lì.
5)
Nella seconda parte del brano Gesù guarda direttamente al Regno di
Dio, anzi parla come se fosse già nel Regno di Dio, come se –
appunto – la sua ascensione (che Giovanni chiama “innalzamento”
o “glorificazione”) sia già avvenuta: «Padre, io voglio che
dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati». Gesù
usa una parola
forte nella sua preghiera: «voglio». La sua richiesta
è che i suoi discepoli
(di prima e di seconda mano…) siano
con lui dove lui è, cioè appunto con il padre nel suo regno. Ma
poiché il volere di Gesù è identico a quello del Padre (il
vangelo di Giovanni lo dice ripetutamente)
la richiesta di Gesù è in realtà una promessa: i suoi discepoli
saranno con lui.
È
la promessa che aveva già lasciato ai suoi discepoli nella prima
parte del discorso di addio, dopo la lavanda dei piedi: «Quando
sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò
presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi»
(14,3). La promessa che
Gesù ci fa è
che dove sarà lui – nel regno di amore e giustizia del Padre –
ci saremo anche noi.
Gesù
prega per noi e per la nostra unità, si serve di noi per far
arrivare nel mondo la sua Parola, Gesù è l’amore incarnato del
Padre e questo amore, che il mondo deve vedere, è per noi promessa
che Egli non ci lascia e non ci lascerà, finché la sua promessa
sarà compiuta nel regno del Padre suo dove saremo sempre con lui.
Tutto questo ci dice il brano di oggi e tutto questo significa
l’ascensione di Gesù al Padre. Tutto questo per amore di Dio,
tutto questo per la nostra gioia, consolazione e speranza.
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