lunedì 7 dicembre 2020

Predicazione di domenica 6 dicembre 2020 - rielaborazione degli interventi delle pastore Letizia Tomassone e Lidia Maggi pubblicate sul quaderno della FDEI in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre 2020)

GENESI 1,26-31

Poi Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbiano dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l'uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra». Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento. A ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo e a tutto ciò che si muove sulla terra e ha in sé un soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento». E così fu. Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. Fu sera, poi fu mattina: sesto giorno.



GALATI 3,26-31

[…] siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù. Se siete di Cristo, siete dunque discendenza d'Abraamo, eredi secondo la promessa.



                                                        MATTEO 5,20-24

Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli.

«Voi avete udito che fu detto agli antichi: "Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale"; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: "Raca" sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: "Pazzo!" sarà condannato alla geenna del fuoco. Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all'altare, e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta.



Una sedia vuota, con appoggiato un capo di abbigliamento femminile, rosso, e una borsetta, occupa un posto in molte delle nostre chiese. Un gesto simbolico, nominato come “il posto occupato”, pensato da sorelle e fratelli consapevoli che il fenomeno della violenza contro le donne riguarda tutti noi.

La violenza è un ingrediente che non vorremmo trovare nello spazio della fede, eppure la Bibbia, proprio nel raccontare la fede di un popolo chiamato ad essere benedizione per gli altri popoli, la mette insistentemente in scena, quasi un controcanto alla storia della salvezza: non solo la violenza subita da un popolo nomade, precario, chiamato di continuo a fare i conti con l’ostilità e la diffidenza dei popoli che incontra nel suo peregrinare; ma anche la violenza messa in atto dagli stessi figli di Israele, quella che rimarrebbe nascosta se la narrazione non si insinuasse, come uno soffio di vento (anche questo è lo Spirito) nelle fessure delle porte chiuse per farci ascoltare, vedere, sapere e riflettere.

La Scrittura non ritiene che basti negare o rimuovere la violenza per poterla superare. Al contrario, va narrata, ricordata, denunciata, per permettere a chi legge di riconoscerla ed elaborarla. Sorvolare sulle pagine violente della Bibbia per frequentare solo quelle che narrano storie edificanti significa banalizzare il male, sottraendosi a quella radicale intelligenza dell’umano che osa guardare l’abisso del cuore. Significherebbe non avere occhi per vedere un problema sociale che segna tutte le relazioni, anche – purtroppo - le più intime. Le donne, come parte più debole della società, sono il metro di misura della decadenza e della corruzione di una società.

Le figlie di Lot, offerte alla folla perché fosse placata la violenza dei sodomiti, la figlia di Jefte, sacrificata per un voto, Dina, violentata da Sichem, Tamar, violentata dal fratellastro. E tante altre donne senza nome vittime di abusi e prevaricazioni nelle guerre tra Israele e i popoli confinanti.. Dov’è Dio in queste storie? Non parla, non agisce. E’ silente. Come queste donne, anche Dio viene usato, abusato dai figli di Giacobbe per compiere il male. Per difendere il nome di Dio si sono commesse guerre e genocidi.

E si continua ancora oggi a farlo. Non per mano di barbari, ma come mossa astuta del popolo eletto; non altrove, ma qui da noi, in nome della nostra fede. Dio rimane muto, ma il fatto che queste storie siano giunte fino a noi, come Parola di Dio, ci può far scorgere la sua presenza proprio nel tenere viva questa memoria: una narrazione che parla degli orrori di un popolo dimentico della Torah.

La parola di Dio, che si fa carico di custodire una memoria scomoda, è un grido che non si limita a rompere il silenzio per denunciare i responsabili di atti violenti, ma vuole anche essere un monito per prevenire violenze future. E’ un segnale di pericolo che mette in guardia dall’abisso del cuore umano.

Riconoscere e fare memoria quindi, per riportare alla luce è il primo passo per un cammino di perdono, gli uni verso le altre ma anche verso se stessi. In gioco, dunque, non c’è solo un problema di giustizia, di denuncia sociale, ma anche la possibilità di vivere relazioni felici, sane, liberandoci da tutto ciò che può deformare l’amore e la cura.

Come chiese predichiamo amore e perdono, ma le nostre parole sulla necessità di perdonare possono essere difficili da ascoltare per una persona che è stata ferita gravemente: perché il perdono può anche essere anche un concetto ambiguo e difficile, può trasformarsi in un mezzo di umiliazione di chi è schiacciata in una sorta di mantenimento dello stato delle cose: il violento perdonato viene riammesso nella sua posizione e velocemente riprende il suo comportamento violento.

Questo tipo di perdono non è trasformativo bensì umiliante e legittima le gerarchie fra le persone, legittima la società violenta.

Non è questo il perdono di cui parlano le Scritture e Gesù stesso.

È necessario essere consapevoli che il perdono è un processo che richiede tempo e preghiera. Ci possono volere anni e decenni per arrivare a un perdono che permette alla ex vittima di lasciar andare quanto accaduto, di far sì che la violenza passata non incida più sulle sue relazioni nel presente, di lasciar guarire le ferite fino a che non siano più che una cicatrice. È un processo che fa uscire dal condizionamento che il passato opera sul presente, e permette a chi è sopravvissuta agli abusi di vivere esperienze di gioia nonostante la memoria del male.

Noi siamo chiamati quindi a questo: essere attenti a chi scompare nel silenzio, interrogarci tutti e tutte per portare alla luce le nostre stesse oscurità, promuovere cammini di consapevolezza e di perdono.

Siamo certi infatti, perché abbiamo fede nel Signore, che la sua opera trasforma il male e la violenza: sia quella subita che quella compiuta, per cammini a volte tortuosi e misteriosi

In Isaia 53,7 leggiamo: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca”.

Apparentemente questo testo ci parla di accettazione passiva dell’abuso e della violenza, ma in realtà, di chi parla qui il profeta? Del Servo del Signore, di quella figura messianica che trasforma una realtà di miseria e oppressione, resistendo, per ottenere un bene più grande, in questo caso la benedizione di Dio e la giustizia per molti (v. 11). Il canto del Servo non è certo un invito a tollerare la violenza, quanto un invito alla speranza nell’opera di Dio che salva e apre prospettive diverse e più ampie per tutte le generazioni.

Quando predichiamo il perdono, conosciamo la distanza tra il perdono di Dio che tutto abbraccia e che ci restituisce dignità di creatura amata, e il nostro perdono, che è una forza nella relazione, ma resta limitato perché umano e richiede lo sforzo continuo di cambiare prospettiva e posizione.

Si tratta certamente della risorsa più grande che riceviamo nel donarsi di Gesù, che tutte e tutti perdona e a tutti e tutte chiede di perdonare, grazie alla forza della resurrezione, del passaggio dalla morte alla vita.

Per concludere, perdonare non è una virtù imposta al credente, ma uno stile di vita da discepolo o discepola in cui vanno insieme perdono ricevuto e dato, riconciliazione e capacità di sottrarsi e di opporsi alla violenza. È la ricerca continua di vivere il vangelo di Gesù Cristo, che giorno dopo giorno trasforma le nostre relazioni, condanna ogni forma di violenza domestica e sociale, ogni abuso del corpo e della coscienza, ma infine salva e solleva chi ha subito la violenza e porta lei o lui a uscire dal silenzio e dall’invisibilità.

Il perdono apre il cammino alla speranza.


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